Episodio 35, la caduta di un Impero (451-454)

Nel quale Papa Leone Magno salva Roma. Oppure no?

Nello scorso episodio la gioiosa macchina da guerra di Attila si è scontrata con la coalizione di popoli occidentali comandata da Ezio. Contro ogni pronostico gli Unni e i loro alleati sono stati fermati, al prezzo di dure perdite per i Romani e i loro alleati, non ultima la morte del re dei Visigoti, Teoderic.

Attila si è ritirato nella sua tana pannonica e ha passato un furioso inverno meditando vendetta: se i suoi nemici in occidente credono che lui abbia imparato la lezione, beh si sbagliano di grosso. A primavera, quando si scioglieranno le nevi e sarà possibile rimettere in marcia il suo esercito, Attila intende colpire alla giugulare di quello che resta dell’impero d’occidente. La penisola italiana non subisce un serio attacco dai tempi dell’invasione dei Goti del 408-412 che portò al sacco di Roma. Sono passati quarant’anni di pace e Attila è determinato a far considerare gli anni terribili del sacco di Roma una piacevole scampagnata. I Romani pagheranno l’aver osato resistergli, con il sangue.

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Un Papa decisamente grande

Papa Leone I, come rappresentato nei celebri affreschi di S.Maria Antiqua, nel Foro a Roma

Prima di parlare dell’invasione dell’Italia da parte degli Unni dobbiamo introdurre un personaggio che ho per ora passato sotto silenzio ma che sarà cruciale nel dramma dei prossimi anni. Papa Leone I, detto il grande.

Abbiamo visto più volte come il papato abbia avuto un ruolo secondario nel definire sia la politica religiosa dell’Impero – più spesso demandata ai concili dei vescovi orientali – che la politica civile, anche in occidente. Certo, si tratta di una posizione importante anche nel terzo e nel quarto secolo, una posizione di prestigio con una vaga e non del tutto codificata autorità su tutte le diocesi occidentali, ma è lo stesso ruolo che hanno altri patriarchi in oriente, come il papa di Alessandria o il patriarca di Antiochia. Come autorità politica finora è stata molto limitata, perfino il suo ruolo nella città di Roma è secondario rispetto al Prefetto cittadino. Quanto al suo potere pastorale, nessuno nella chiesa imperiale romana ha mai codificato una supremazia assoluta di Roma su tutti gli altri vescovi dell’impero anche se il concilio di Costantinopoli ha riconosciuto una certa precedenza a Roma rispetto alle altre sedi apostoliche.

Tutto questo inizierà a cambiare in questi anni, grazie all’opera di uno dei più grandi papi della chiesa cattolica, uno dei soli due che porta l’appellativo di grande, ovviamente Papa Leone. Già nella sua elezione ne conosciamo il carisma: alla morte del suo predecessore Sisto III Leone era diacono della chiesa Romana, a quei tempi l’equivalente di un vicepapa. Leone era in viaggio in Gallia, in una missione diplomatica per conto di Valentiniano III, ma fu eletto in absentia e senza un’ombra di controversia, all’unanimità. Sappiamo già come le elezioni papali potevano essere molto contestate in questi anni, l’unanimità è segno di forte prestigio.

Da Papa Leone iniziò ad affermare con forza ed energia la sua autorità ecclesiastica sull’intera chiesa occidentale, frustrando più volte ad esempio i tentativi di Vienne e Arles di ergersi ad una sorta di Patriarchi indipendenti per l’intera Gallia. Leone dimostrò il suo zelo anche contro una delle religioni imperiali che ancora sopravvivevano al cristianesimo, seppur in semi-clandestinità, ovvero il manicheismo. Si trattava di una religione di origine iraniana, fondata sull’eterna lotta tra il bene e il male, rappresentati il primo dalla luce e dal mondo spirituale e, il secondo, dalle tenebre e dal mondo materiale. Sant’Agostino prima di essere cristiano fu Manicheo e credo che le convinzioni manichee filtrarono attraverso di lui nel cristianesimo. Ciò non toglie che credere in questa religione stesse diventando molto pericoloso. Narra Prospero di Aquitania che nel 443 Leone passò all’attacco di questa religione clandestina: “In quel momento la diligenza di Papa Leone rivelò che molti Manichei si nascondevano in città. Dopo essere stati sradicati dai loro nascondigli e rivelati davanti agli occhi di tutta la chiesa, li costrinse a condannare tutte le assurdità della loro dottrina e a consegnare i loro libri per essere bruciati, una grande pila della quale era stata sequestrata. La diligenza in questo santo uomo è stata di grande beneficio non solo per la città ma anche per il mondo intero, poiché i catturati, dopo essere stati interrogati, rivelarono chi fossero i loro insegnanti, chi erano i loro vescovi e presbiteri e in quali province o città vivevano. E molti vescovi nell’oriente hanno imitato lo zelo del leader apostolico”. Leone non era tipo da mezze misure quando c’era in ballo la difesa della fede e lo vedremo più volte all’opera nei prossimi anni.

Attila contro Aquileia

Ricostruzione di Aquileia nel tardo impero.

Torniamo ora al palazzo di legno dove vive Attila e dove il grande capo degli Unni passa nervosamente le sue giornate invernali, ripensando alla campagna appena passata. Forse vi chiederete come mai Attila avesse deciso di ritirarsi dopo la battaglia dei campi Catalaunici, nel 451: come mai non aveva pressato il suo vantaggio quando si erano ritirato dal campo i Visigoti di Torismund? La ragione era che oramai il rischio di una campagna superava il vantaggio: Attila era lontanissimo dalla sua base di operazioni in Pannonia, ogni settimana che passava le sue scorte di cibo si riducevano e aumentava il rischio di rimanere tagliato fuori in territorio nemico, avendo avuto anche la malaugurata sfortuna di aver unito tutta la Gallia contro di lui. No, non valeva la pena cercare di sconfiggere i romani nel 451. L’anno seguente avrebbe consumato la sua vendetta invadendo un territorio più vicino, più ricco e che non avrebbe provocato la reazione delle tribù germaniche che vivevano in Gallia. Non è possibile saperlo con certezza ma credo che già nei giorni della ritirata Attila iniziò a pianificare la prossima campagna contro il cuore del potere romano occidentale, l’Italia.

Quando le nevi si sciolsero davvero, nella primavera del 452, Attila si mise di nuovo in moto dalle sue basi balcaniche: i passi alpini sono in genere facilmente difendibili tranne quelli verso l’oriente, ovvero i passi sulle alpi Giulie. Qui Aureliano aveva fatto costruire delle importanti difese, come ho narrato nell’episodio premium “Manus ad Ferrum”. Non sappiamo se le difese sulle alpi fossero ancora in funzione, ma certamente non furono in grado di fermare gli Unni: questi entrarono nella pianura padana e si trovarono di fronte la prima grande città-fortezza dei Romani, la porta dell’Italia, la città che aveva resistito a infiniti assedi, la capitale del Veneto Romano: Aquileia. Ne approfitto per precisare qualcosa che molti mi hanno fatto notare: in uno dei primi episodi ho detto che Aquileia era in Veneto, e questo è corretto per l’epoca Romana, visto che Aquileia era la capitale del Veneto Romano. Oggi ovviamente Aquileia non è in Veneto ma in Friuli-Venezia Giulia: mi scuso per la confusione e soprattutto con l’ufficio turistico del Friuli.

Mappa di Aquileia e della sua espansione durante il tardo impero

Aquileia era stata sede imperiale e con Ravenna e Milano formava la triade delle più importanti città romane del nord Italia. Aquileia aveva un porto molto attivo, teatri, un grande circo. In quanto città-fortezza chiave per la difesa dell’Italia era dotata di possenti mura ed era anche protetta, lungo l’approccio orientale, dal fiume Natissa. Lo storico Giordane narra che l’assedio fu un affare di lunga durata: Attila giunse in primavera nei pressi di Aquileia e fece costruire le solite macchine d’assedio ma la strenua difesa della guarnigione Romana impedì per diverse settimane agli Unni di sfondare. Ci tengo a far notare che spesso i romani del quinto secolo sono accusati di mollezza e codardia ma questa guarnigione resistette con la consapevolezza che il loro ruolo era principalmente quello di morire, rallentando l’avanzata degli Unni in Italia.  

L’assedio di Aquileia con il tempo ha fatto nascere numerose leggende come quello del volo della cicogna che avrebbe segnalato ad Attila che gli uccelli volavano via consapevoli dell’imminente saccheggio. Non furono certo le cicogne ma sappiamo con certezza che, come tante altre città di fronte alla furia degli Unni, alla fine Aquileia cedette. Abbiamo un frammento di un testo, oggi a Merseburg, nel quale è esattamente datata il sacco: il 18 luglio del 452. Se è corretto la città riuscì a resistere molte settimane alla furia degli Unni: è più di quanto tante altre potessero dire ma la grande metropoli dei Veneti pagherà cara la sua resistenza. Narra Giordane: “Vennero costruiti ordigni bellici e impiegati ogni sorta di macchine da guerra e senza indugi gli Unni invasero la città, la saccheggiarono, la ridussero in pezzi e la devastarono crudelmente, lasciandola in uno stato tale che a stento poterono essere riconosciute le sue vestigia”

Il saccheggio di Aquileia fu un affare tremendo: Questa grande città, una delle più importanti dell’Italia Romana, il cardine sul quale girava la vita di una intera regione, non esisteva più. Con gli anni un piccolo borgo tornerà a crescere sul sito ma sarà irriconoscibile rispetto alla grande metropoli dei Veneti, pur mantenendo il prestigio di essere la sede del principale vescovado della regione.

Attila prende la A4

Attila, una volta terminato con Aquileia, inflisse lo stesso destino gramo alle altre grandi città venete: Concordia e Altino. Una leggenda con probabilmente qualche fondamento vuole che molti dei Veneti-Romani iniziarono ad abbandonare gli oramai indifesi campi aperti della regione, cercando rifugio nelle grandi paludi che allora si estendevano ininterrottamente su tutto l’adriatico del nord.  Nelle aree lagunari sorgevano all’epoca solo piccoli insediamenti, che si sostentavano con la pesca e lo sfruttamento delle saline: questi insediamenti iniziarono a crescere. È probabile che questo spostamento fu temporaneo e quasi certamente assai meno importante di quanto accadde con l’invasione longobarda, nonostante tutto si può dire che era iniziato il lungo processo che porterà un giorno ad una grande città lagunare nell’alto adriatico.

Una volta conquistato il Veneto, Attila decise di prendere la futura A4 e attaccò una ad una le città che lo separavano da Milano: caddero Vicenza, Verona, Brescia e Bergamo in una terrificante sequenza. Vi chiederete in tutto questo dove fosse l’esercito romano che con tanta solerzia aveva difeso la Gallia e che pare del tutto assente dalla nostra storia. Prospero di Aquitania, uno storico gallico, sostiene che l’invasione prese Ezio completamente alla sprovvista. Cosa faceva Ezio mentre l’Italia andava in fiamme, dormiva?

Ezio non dormiva, e qui farò riferimento al meraviglioso lavoro di Maenchen-Helfen, il più grande storico degli Unni, che ha ricostruito nel dettaglio la campagna d’Italia e che è citato anche da altri grandi storici come Heather e Wolfram. Nella ricostruzione di Maenchen-Helfen, Ezio aveva un bel problema: l’anno passato era riuscito a mettere su una coalizione per affrontare gli Unni ma solo perché questi avevano avuto l’idea di attaccare la regione dove vivevano la maggior parte dei popoli barbari che avevano trovato casa dentro l’impero. Goti, Alani e Burgundi erano di converso decisamente meno propensi a venire in soccorso di Ezio per difendere l’Italia, un territorio nel quale l’impero non aveva mai voluto sistemare i foederati. Le richieste di aiuto caddero su orecchie sorde: Torismund e i suoi Visigoti erano alle prese con la successione al trono e gli altri re della Gallia non sarebbero venuti senza i Visigoti.

Costantinopoli in soccorso di Ravenna

Aelia Pulcheria

Ezio però non si diede per vinto: aveva un’altra grande potenza a cui appellarsi per formare gli Unni: ovviamente Costantinopoli, dove regnavano Pulcheria e Marciano e che avevano tutto l’interesse politico a rompere con la politica di sottomissione agli Unni a cui era stato costretto Crisafio. Non dubito che messaggeri viaggiarono durante l’inverno del 451 tra Ravenna e Costantinopoli per concordare una reazione all’invasione di Attila. Spesso l’oriente è accusato di non aver fatto nulla per evitare la caduta dell’occidente, a volte è perfino accusato di aver rovesciato i barbari sull’occidente per salvarsi. Mi pare un’accusa priva di fondamento: come vedremo l’oriente interverrà più volte per cercare di salvare il fratello minore, il fallimento sarà dovuto all’insuccesso e non alla mancanza di tentativi. L’oriente avrebbe potuto disinteressarsi del fato dell’Italia e di Roma: aveva già pagato un prezzo altissimo all’aggressione degli Unni e nessuno voleva rivedere i Balcani in fiamme. Ma alla fine la solidarietà tra Romani ebbe le meglio, l’oriente decise di tagliare i sussidi agli Unni già prima dell’invasione dell’Italia, esponendosi alla rappresaglia di Attila che decise però di affrontare prima l’occidente, dove doveva lavare nel sangue l’onta dei campi Catalaunici.

Ma il sostegno di Marciano e Pulcheria non si limitò a tagliare i fondi agli Unni: con un notevole atto di coraggio, quando ebbe chiaro che Attila avrebbe mosso la sua macchina militare dalla Pannonia per attaccare l’Italia, Marciano diede ordine ai suoi generali di inviare rinforzi in Italia in soccorso di Ezio e di attaccare il confine Danubiano dell’impero Unnico con le sue truppe di Tracia. Era una mossa ad alto rischio ma Marciano decise che era arrivato il momento di tentare il tutto per tutto contro Attila, ora che le forze di entrambi gli imperi romani avrebbero potuto impegnare gli Unni. Lo fece nonostante che Ezio si fosse ben guardato di soccorrere l’oriente cinque anni prima, quando gli Unni avevano devastato i Balcani e distrutto gli eserciti presentali di Costantinopoli.

La caduta dell’antica capitale

Milano tardo antica

Ezio, così rinforzato, non era comunque in grado di affrontare gli Unni in una grande battaglia campale, come l’anno prima ai Campi Catalaunici. Ezio decise comunque di rendere la marcia degli Unni un inferno: la pianura padana era ricolma dei suoi uomini che colpivano e si ritiravano rapidamente, infliggendo perdite soprattutto ai saccheggiatori Unni. Questi, sempre più rallentati dal peso dei loro saccheggi, si trascinavano da un assedio all’altro, ognuno risultante in un successo ma sfiancante del morale. Le città nel nord dell’Italia erano allora come oggi una fitta rete collegata da rapide strade, Attila non poteva permettersi di lasciare fortezze nemiche nella sua retroguardia e questo richiedeva di prendere ogni città, una ad una. Nelle parole di Maenchen-Helfen, il nord Italia divenne un territorio impossibile da conquistare e mantenere per l’invasore, come ai tempi di Alaric e Stilicone cinquanta anni prima.

Al termine del lungo viaggio sull’A4 gli Unni si presentarono sotto le mura della più grande città della provincia della Liguria et Aemilia: Milano, l’antica capitale imperiale. La grande città non era mai stata presa in centinaia di anni di invasioni barbariche ed era ancora dotata delle sue possenti mura e fortificazioni. Non valsero a nulla: la città fu conquistata e saccheggiata. La grande basilica costruita da Sant’Ambrogio fu bruciata e collassò nelle fiamme. Attila prese residenza, per diversi giorni, nell’antico palazzo imperiale. Prisco riporta che durante il suo soggiorno nel palazzo, alla vista di un dipinto degli imperatori Romani assisi su troni d’oro con i barbari morti e distesi ai loro piedi, Attila fece immediatamente chiamare un pittore e gli ordinò di dipingere lui stesso in trono e gli imperatori romani con pesanti sacchi sulle spalle intenti a rovesciare oro ai suoi piedi. A questo punto di solito vi informo che è solo una leggenda ma è proprio il genere di cose di cui credo fosse capace Attila, sempre attento a sminuire l’augusta magnificenza degli imperatori romani esaltando al contempo la sua potenza.

Borodino

Gli Unni invadono Roma, dipinto ottocentesco

Attila era riuscito a portare fuoco e fiamme nell’Italia transpadana ma le sue vittorie e la sua avanzata mi ricordano da presso quella di un altro grande generale, Napoleone: nella sua avventura in Russia Bonaparte vinse ogni battaglia fino alla conquista di Mosca ma non raggiunse alcun obiettivo strategico: la Russia restò indomita, lo Zar non fece la cosa ovvia, ovvero chiedere la pace e un trattato. Non si rendeva conto lo Zar Alessandro di essere sconfitto? La sua capitale era in fiamme! Eppure la logica implacabile del ciclo stagionale e della logistica – oramai sul punto di rottura – costrinsero Napoleone a ritirarsi.

Come il grande Corso Attila non aveva molta scelta: aveva passato tutta l’estate a prendere una dopo l’altra le grandi città del nord ma Ravenna non si era piegata, protetta dietro le sue paludi. Ezio era ancora al comando dei suoi e nessuno sembrava sul punto di cedere. Per Attila, inoltre, le brutte notizie iniziarono ad impilarsi l’una sulle altre: Marciano aveva attaccato alle loro spalle la Pannonia indifesa, i rifornimenti scarseggiavano e i foraggiatori scomparivano nelle pianure, colpiti dal nemico. Quel che è peggio è che, come riporta lo storico Idazio, una pestilenza iniziò a serpeggiare negli accampamenti unnici, come quasi sempre accade in guerra quando un esercito troppo vasto è costretto ad accamparsi in luoghi angusti. Gli Unni avevano preso molto bottino e inferto un duro colpo all’Italia ma non avevano raggiunto nessun obiettivo strategico e ora era arrivato il tempo di tornare in Pannonia. Attila poteva consolarsi nell’aver distrutto Aquileia, la principale difesa dell’Italia da est: la prossima volta sarebbe stato più facile invadere la penisola.

Da questo racconto spero si possa quindi restituire un po’ di giustizia ad Ezio: mi ha sempre stupito il giudizio di alcuni storici che lo esaltano un anno per la sua vittoria ai Campi Catalaunici e poi si stupiscono per la sua supposta inerzia in Italia: in realtà Ezio, come ogni buon generale, utilizzò il terreno e ogni elemento in suo favore per rallentare e poi fermare gli Unni, una forza militare soverchiante contro la quale sarebbe stato suicida inviare un esercito a farsi massacrare in campo aperto. La sua strategia costrinse invece gli Unni ad una dolorosa ritirata nella quale indubbiamente persero molti uomini a causa delle malattie, della carestia e degli agguati, pur al prezzo della devastazione inferta al nord Italia,

Il salvatore di Roma?

Leone il grande incontra Attila, celebre affresco di Raffaello in Vaticano.

A questo punto però Attila decise di virare verso sud, nonostante tutto, pur di distruggere Roma. Il resto della storia la conoscono tutti: la sua immensa armata si diresse verso l’antica capitale dell’impero ma sul fiume Mincio gli venne incontro la delegazione di Papa Leone Magno che, in un concilio privato, riuscì in un miracolo: alle sue parole Attila si voltò e fece ritorno in Pannonia. Roma era salva e non era stata salvata dal suo governo secolare, da Ezio o da Valentiniano III, ma dal suo grande papa, dimostrando la supremazia della chiesa sul potere temporale. L’incontro sarà soggetto di mille dipinti, tra i quali uno celeberrimo di Raffaello. The end.

Ora vi stupirà sapere che tutto quello che ho detto sull’incontro tra Attila e il Papa è quasi certamente falso, ma è oramai entrato così tanto nella vulgata da non essere neanche dibattuto, a parte dagli storici che hanno ricostruito l’origine di questa che è una leggenda, anzi un vero falso storico.

Va detto che è una leggenda antica, riportata da diversi storici come Giordane, però successivi ai fatti. Come vi mostrerà qualunque cartina da Milano a Roma si passa per l’Emilia, invece l’incontro – che certamente ci fu, come vedremo – ebbe luogo sul Mincio, ovvero lungo la strada di ritorno per Attila da Milano alla futura Ungheria. Insomma, quando il nostro Papa e Attila si incontrarono era evidente a tutti che Attila si stava già ritirando. Cosa ci faceva allora il Papa sul Mincio?

Da una lettera di un vescovo orientale per fortuna possiamo sapere la risposta: il vescovo ci informa che Papa Leone aveva fatto parte di una delegazione del senato Romano composta da tre persone: il Papa stesso, l’ex console Avieno e il prefetto dell’Urbe, Trigezio. Va detto che in questo periodo la somma autorità cittadina a Roma – l’equivalente del sindaco della città, ma con un rango più da ministro della Repubblica – era appunto il Prefetto e a capo della delegazione non c’era il Papa ma, come normale anche in quest’epoca tarda, il Prefetto Trigezio. E quale era lo scopo di questa fondamentale ambasciata? Ma semplice, negoziare il rilascio di quanti più prigionieri romani possibile, con l’ausilio ovviamente di un bel pagamento in oro sonante.

Il Papa stesso deve essere stato consapevole di quanto insignificante fosse stato il suo ruolo in tutta la vicenda dell’invasione dell’Italia, visto che nei suoi numerosi scritti pervenutici non menziona mai l’avvenimento: Papa Leone era davvero una grande personalità e non era tipo da vantarsi di meriti non suoi.

La domanda è allora, come mai gli scrittori di poco posteriori a Leone si sentirono in dovere di abbellire il ruolo del Papa? In parte questo è dovuto ad un fenomeno di proiezione verso il passato di altri eventi, Papa Leone avrà davvero un ruolo di supplenza dell’autorità civile, ma questo sarà tra qualche anno. La ragione principale è credo da trovarsi nel futuro prossimo dell’Italia: tra pochi anni l’autorità civile romana scomparirà, il ruolo del papato di converso crescerà e con esso il desiderio di esaltare la sua influenza storica. Nella mente degli uomini di chiesa, la maggior parte degli scrittori di questo periodo, il papato diverrà quindi una istituzione che fece da supplente alla supposta evanescenza delle autorità civili. Ecco trovata un’altra ragione per sminuire il ruolo fondamentale di Ezio e Marciano nel fermare Attila. Ci si aggiunga che Leone ebbe un ruolo sproporzionato nel definire la posizione ortodossa della chiesa, codificata nel concilio di Calcedonia: per gli scrittori ecclesiastici siamo di fronte quindi ad una figura più grande della realtà a cui attribuire qualunque merito. E non credo ci fu malizia in questo: la storia è inevitabilmente deformata anche inconsciamente dalla percezione di chi la osserva, in base alle convinzioni personali del proprio tempo. Non ne erano immuni gli antichi, non ne siamo immuni neanche noi contemporanei.

Vincere la battaglia, perdere la guerra

Reppresentazione ottocentesca di Attila presso la Certosa di Pavia

Maenchen-Helfen da questo responso sull’invasione dell’Italia di Attila: “la campagna di Attila fu peggio di un fallimento. Non riuscì a costringere i Romani a pagargli nuovamente un tributo. L’odiato Ezio rimase il capo de facto dell’occidente. Certo, i profitti dal saccheggio furono considerevoli ma furono conquistati ad un prezzo troppo alto, troppi cavalieri Unni giacevano morti nei campi e nelle città d’Italia. E neanche un anno dopo l’impero di Attila collassò”. L’impero dei Romani, alla fine, riuscirà a sopravvivere anche al flagello di Dio.

Attila si ritirò infatti in Pannonia, meditando ancora vendetta. Questa volta l’obiettivo della sua rabbia era soprattutto Marciano, che aveva dato ad Ezio l’aiuto fondamentale necessario a resistergli. Minacce volarono verso Costantinopoli, dove tutti si prepararono al peggio.

È ancora Prisco, in uno dei suoi frammenti, a raccontarci cosa avvenne: “Attila aveva preso in sposa una ragazza molto bella , di nome Ildico, l’ultima di una lunga serie di mogli, come era usanza della sua gente. Preso di euforia eccessiva e fradicio di vino, si distese sulla schiena. In quella posizione una emorragia che normalmente sarebbe scaturita dal naso si riversò nella sua gola e lo uccise”. Attila morì così, ancora al sommo del suo potere, ebbro di vino, dopo aver consumato un matrimonio. Se volete sapere la mia opinione, non un brutto modo di andarsene. Ma torniamo a Prisco: “Il giorno dopo gli assistenti reali, sospettando una disgrazia, abbatterono la porta. Trovarono Attila morto e la ragazza con lo sguardo abbattuto, piangente sotto il velo. Quindi, come è costume di quella razza, tagliarono una parte dei loro capelli e i loro volti, sfigurandosi con ferite profonde.”

Appena furono celebrate le esequie del grande Unno iniziarono i litigi per la successione, come era prevedibile: c’erano almeno tre figli di Attila che aspiravano al trono e nessuna procedura per la successione dinastica: gli Unni seguivano solamente i forti. I tre figli, Dengizich, Ellac ed Ernac, iniziarono una guerra civile quasi all’istante, con sommo sollievo di entrambi gli imperi Romani. Fosse uno dei tre riuscito a riunificare la macchina Unna le cose si sarebbero messe male di nuovo, ma così non fu. Uno dei Re più potenti tra i seguaci di Attila era il re Arderic dei Gepidi. Questi poteva riconoscere un’opportunità quando la vedeva e decise quindi di rifiutarsi di servire uno qualunque dei figli di Attila, dichiarando il suo popolo indipendente. Attorno a sé riunì altri popoli che cercavano di liberarsi dal giogo Unno: gli Sciri, i Rugi, gli Svevi. I figli di Attila riconobbero il rischio, il primogenito Ellac fu riconosciuto loro capo e i figli di Attila chiamarono a raccolta il resto del grande regno del padre: risposero alla chiamata in particolare gli Ostrogoti.

La morte di Attila, dipinto di Ferenc Paczka

La caduta di un Impero

Arriviamo così ad una grande battaglia, una battaglia decisiva per l’antichità che però è poco conosciuta dai più: fu combattuta nel 454, a solamente un anno dalla morte di attila, sul fiume Nedao. Si trattò probabilmente di uno scontro titanico, ma solo una flebile eco ci giunge attraverso i cronisti romani e soprattutto il Goto Giordane, il cui obiettivo principale è esaltare il ruolo dei suoi consanguinei Goti. Ma neanche le sue capacità poetiche possono nascondere il fatto che i Goti furono sconfitti, assieme ai loro padroni Unni: inaspettatamente la coalizione messa su dai Gepidi ebbe la meglio e si impadronì del grosso della ex provincia della Dacia romana. Il grosso degli Ostrogoti si rifugiarono nella ex Pannonia Romana, con il permesso dell’imperatore Marciano che permise loro di stabilirsi lì per creare un buffer tra l’oriente e il caos del mondo extra danubiano. Al contrario gli Unni e diversi altri sudditi – tra i quali ancora molti Goti – ripararono nella grande pianura ucraina dove un tempo erano vissuti i Goti, prima dell’arrivo degli Unni. In un brevissimo volgere di tempo il grande impero danubiano di Attila era scomparso.

Il più grande conquistatore barbaro della storia europea

Come giudicare Attila? Non c’è alcun dubbio che abbiamo di fronte uno dei grandi condottieri della storia, un leader di uomini di grande carisma, di indubbia capacità e, come abbiamo ricostruito, anche dotato di una notevole intelligenza e capacità politica.

Eppure nonostante i suoi innumerevoli successi il suo impero non sopravviverà alla sua morte: molti si stupiscono della caduta del magnifico edificio imperiale romano ma, come stiamo scoprendo un po’ alla volta, l’Impero Romano dovette subire una serie infinita di rovesci per un intero secolo per vederne poi scomparire solo metà. Il grande impero di Attila, la sua gioiosa macchina da guerra non gli sopravvisse che un anno. Perché?

Attila, nelle parole di Peter Heather, è stato il più grande conquistatore barbaro della storia europea ma quella che cavalcava era una tigre instabile di inaudita ferocia, composta da una serie di popoli in gran parte germanici pronti a sbranarsi al primo segno di debolezza del relativamente ristretto gruppo dominante unno. La conquista di quasi tutta l’Europa germanica diede agli Unni una manodopera e delle conoscenze tecniche che gli permisero un formidabile salto di qualità nell’olimpo del tardo impero ma che misero sotto stress le loro capacità di mantenere il supergruppo unito. Ad unire l’immensa macchina militare Unna erano tre cose: i successi – nessuno vuole abbandonare il carro del vincitore – il fiume di oro che gli Unni erano riusciti a risucchiare al mondo Romano, e per finire le indubbie capacità personali di Attila, probabilmente nelle mani di un uomo di minori capacità la tigre avrebbe sbranato il suo cavaliere anche prima. Dal 451 al 453 questi tre elementi vennero meno: Attila fu fermato ai Campi Catalaunici e poi in modo meno spettacolare ma altrettanto efficace in Italia, Costantinopoli si rifiutò di pagare il tributo e infine, in un ultimo colpo, Attila perse la vita in una felice notte di nozze.  A quel punto il destino dell’impero degli Unni era segnato.

Ho già paragonato Attila a Napoleone e penso che gli paragonerò un altro grande della storia, Alessandro Magno: Attila è ovviamente diverso da entrambi e la sua eredità è stata molto più evanescente. Ma si può dire che tutti e tre questi condottieri costruirono grandi imperi personali che morirono con loro o, nel caso di Napoleone, perfino mentre erano in vita. I grandi imperi, quelli che durano a lungo, sono quelli che vengono costruiti come quello Romano: sulle spalle di generazioni di uomini e di un lungo processo evolutivo che poggia più sulle istituzioni e l’economia che le capacità dei singoli, comunque necessarie: anche l’Impero Romano sarebbe stato molto diverso senza un Cesare, un Augusto o un Diocleziano.

La morte di Khal Drogo

Per chiudere l’episodio, e dare un ultimo saluto al grande Unno torniamo per un’ultima volta a Prisco, per narrarne il funerale. La mente vola a Khal Drogo, il grande Khan dei Dothraki del Trono di Spade:

“Gli Unni portarono il suo corpo nel bel mezzo di una pianura, in una tenda di seta. Il cadavere venne composto e solennemente mostrato a tutti. I cavalieri più importanti dell’intera razza degli Unni cavalcarono attorno a lui, lì dove era stato posto, nello stesso modo delle corse del circo, pronunciando il suo canto funebre nel modo seguente: “capo degli Unni, re Attila, nato da Mundzuch suo padre, signore delle più potenti razze, da solo, con un potere sconosciuto prima del suo tempo, ebbe il regno degli Sciti e dei Germani. Terrorizzò entrambi gli imperi del mondo romano, catturò le sue città e fu placato solo dalle loro preghiere, prese da loro il tributo annuale per salvare il resto dal saccheggio. Non cadde né per la ferita di un nemico, né per il tradimento di un amico ma con la sua nazione al sicuro, tra i piaceri e nella felicità, senza dolore. Chi può considerare questa una morte?”. Dopo essere stato pianto con questi lamenti, essi celebrarono una “strava” come la chiamano loro, celebrando il defunto sopra la sua tomba, con grande baldoria e i gemiti del piacere carnale. Espressero cordoglio misto a gioia e poi, di nascosto, nella notte ne seppellirono il corpo nel terreno.”

La leggenda, un vero topos letterario, vuole che i servi che seppellirono Attila furono trucidati, in modo da nasconderne il sepolcro. Sta di fatto che la sua tomba non è mai stata trovata, mi piace pensare riposi ancora lì, sotto le stelle e nel mezzo del grande mare d’erba della pianura ungherese.

Le nature di Cristo

Nel prossimo episodio affronteremo un tema che ho provato più volte ad inserire nella narrazione principale ma che credo funzioni meglio con un episodio tematico. C’è infatti una contesa fondamentale che attraversa l’ultimo ventennio e che è indispensabile per capire l’evoluzione della politica e della storia imperiale almeno dal quinto al settimo secolo e le cui conseguenze si riverberano ancora oggi. Agli occhi moderni può sembrare una questione arcana ma si tratta della controversia che spaccherà imperi, famiglie, fedeltà, farà scorrere sangue e sarà uno dei motori principali della storia a venire: parleremo della natura di Cristo.

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4 pensieri riguardo “Episodio 35, la caduta di un Impero (451-454)

  1. Ezio aveva condotto a Chalon 12 Legioni. Colà furono consumate in gran parte insieme con l’esercito dei Goti. I Franchi ed i Burgundi subirono minori perdite. Le finanze imperiali erano secco e i rimpiazzi non poterono essere rapirti fra i Germani. I latini educati al pacifismo erano del tutto inabili a combattere. Non c’erano più scuole di guerra tipo Corfinio né arsenali per rifornirle di nuovi coscritti. In parole povere dopo Chalon l’esercito imperiale non c’era più. Attila dopo avere espugnato una ad una le città, aver fatto massacri non aveva trovato l’oro che si aspettava, in Ungheria era spuntata la peste. L’orda chiedeva il pagamento in oro. La spedizione s’era rivelata un disastro. Attila tornò indietro per esaurimento degli obiettivi raggiungibili.

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