Episodio 84: il trionfo di Narsete – testo completo

Narsete ha passato tutto il 552 e l’inizio del 553 a stritolare sotto il suo schiacciasassi imperiale la resistenza gotica. Ha già preso gli scalpi di due Re dei Goti ma il lavoro non è ancora terminato: alcune città ancora resistono al suo esercito e vanno prese una ad una. Qualche ribelle si è rintanato su a Pavia ma il suo turno verrà, non c’è dubbio. Ora, impegnato nell’assedio di Cuma, è pronto a ridurre anche questa fortezza alla sottomissione: i Goti non sono mai stati capaci di prendere o tenere una città romana. Non ci vorrà molto.

Un messaggero entra trafelato nella sua tenda: “Signore, notizie dall’Emilia, urgenti”. Narsete afferra il messaggio dalle mani del messaggero e vi getta un’occhiata. È di Valeriano, il Magister Militum per Armeniam che dal 548 è in Italia e che Narsete ha inviato nel teatro di guerra nel Nord della penisola. Dopo i soliti convenevoli Valeriano viene al punto: “Un forte esercito di Franchi ha attraversato le Alpi: gli agentes in rebus segnalano che si tratta di decine di migliaia di guerrieri. Improbabile che si possa tenere la linea del Po. Richiedo istruzioni e rinforzi immediati. Rischiamo di perdere tutto quello che le tue vittorie ci hanno finalmente concesso”. Narsete ripone tranquillamente il messaggio nella sua scrivania, assieme agli altri. Giovanni accartoccerebbe la lettera, la getterebbe in un angolo e si lancerebbe immediatamente nella lotta. Ma lui non è fatto così: “questa è la vera sfida per la quale sono stato inviato qui – pensa Narsete – è tempo di far vedere ai nostri nuovi sudditi di cosa siamo capaci”.

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La rèserve de la République

Eccoci tornati alla nostra storia! Prima di tornare ai Franchi e Narsete, vorrei menzionarvi una vicenda che non ha molto posto nella storia d’Italia, ma che è a suo modo significativa, come vedremo. Ha a che fare con il regno dei Visigoti: come forse ricorderete, questo era passato ad Amalaric dopo la morte di Teodorico, erede di Alaric II e nipote di Teodorico. Questi era stato assassinato nel 531, a lui era succeduto Theudis, un fedelissimo di Teodorico che aveva governato l’Iberia per conto di Ravenna nei lunghi anni in cui Amalaric era stato un infante. Ai tempi di Theudis, la vicina Africa fu conquistata da Belisario e Theudis provò ad approfittarne occupando la Tingitana, l’area del Marocco settentrionale che sempre era dipesa dall’Iberia durante il tardo impero. Per due volte, nel 534 e poi nel 540, Theudis era stato respinto da una spedizione imperiale arrivata da Cartagine. Infine nel 548 Theudis fu a sua volta assassinato, ne seguì un confuso periodo di guerre civili. Nel 549 divenne Re Agila, ma nei primi anni 50’ – mentre Totila raggiungeva il sommo del suo potere – diverse regioni e città si ribellarono al Re di Toledo: in particolare Cordova, che organizzò un esercito dei romano-iberici del sud guidandoli ad una inaspettata vittoria contro Re Agila, che nella battaglia perse un figlio, il tesoro reale e buona parte del suo onore. Nel momento di maggior difficoltà, in tipico stile romano, invece di unirsi i Visigoti si divisero: emerse un altro pretendente al trono, di nome Athanagild, sicuramente convinto di poter fare un lavoro migliore di Agila. La confusa guerra aveva oramai tre partiti, ma presto – nel 552 – se ne aggiunse un altro. Non è chiaro chi dei tre chiese aiuto a Giustiniano, Giordane e Isidoro di Siviglia sono in contrasto a riguardo, quel che è certo è che – nell’anno in cui Narsete scendeva in Italia con la sua immensa invasione – Giustiniano inviò qualche migliaio di soldati e una piccola flotta in Iberia. Si trattava di una missione limitata, ma comunque ambiziosa, visto che apriva un nuovo fronte delle eterne guerre di Giustiniano: ancora una volta, l’Imperatore aveva utilizzato i guai interni di uno dei Regni romano-barbarici per intervenire. Ovviamente la propaganda imperiale sostenne che era per riportare ordine in Iberia e ristabilire sul trono il Re legittimo – Agila o Athanagild poco importa – ma ormai penso sappiate quale fosse il vero obiettivo di Giustiniano: l’espansione territoriale.

Rimaneva da decidere chi sarebbe stato il comandante di questa spedizione: e chi se non la rèserve de la Republique, per dirla alla francese, il nostro mitico Liberio? L’ottantottenne senatore fu inviato in Iberia – sicuramente assistito anche da consiglieri più pratici in faccende militari. La spedizione fu un successo: la flotta imperiale utilizzò come base le Baleari e poi sbarcò in Spagna, occupando rapidamente le principali città della costa meridionale: Malaga, Cartagena, Cadice. Indubbiamente il loro numero fu ampliato dai ribelli romano-iberici del sud, mentre i Visigoti fecero fronte comune, uccidendo Agila e riunendosi sotto Athanagild. Il re dei Visigoti dovette però fare buon viso a cattivo gioco e rassegnarsi ad accettare la presenza degli imperiali nella parte meridionale della penisola iberica. Poco tempo dopo, l’area conquistata dall’Impero fu organizzata nella provincia imperiale di Spania.

Liberio, dopo questo ultimo hurrah della sua incredibile carriera, tornò in Italia nel 554. Morì poco dopo, all’incredibile età di novant’anni, e fu sepolto a Rimini, dove era sopravvissuta un’iscrizione realizzata dai suoi figli in suo onore. Un passo recita: “Nel corso degli anni resse i fasci di Romolo – vale a dire fu console – con eguale successo tenne il diritto gallico. Ottenne questi onori col valore in guerra, ma una ricompensa maggiore ottenne la sua fedeltà”.

Liberio, come detto in precedenza, è davvero una figura straordinaria della storia di questo periodo: non ho avuto il tempo di dire che nel 538, dopo essere passato dalla parte di Giustiniano, questi lo ricompensò con il ruolo di Prefetto del pretorio in Egitto, con il compito tra l’altro di perseguitare i locali monofisiti. Al servizio di Odoacre, Teodorico, Amalasunta e Giustiniano, uno storico moderno sostiene che per ritrovare un’altra persona che ricoprì importanti cariche politiche in Francia, Italia ed Egitto occorrerà arrivare a Napoleone. La sua vita dimostra quanto ancora il mediterraneo fosse un’unica civiltà.

Iberia “bizantina” nel VI e VII secolo

Narsete fa scacco matto

Ma torniamo all’Italia! Alla notizia dell’arrivo di un immenso esercito dei Franchi in Italia, Narsete non abbandonò l’assedio di Cuma: nella città erano custodite le insegne reali di Teodorico e parte del suo tesoro, indubbiamente uno degli obiettivi degli invasori. Come detto nello scorso episodio, La città era tenuta da Aligern, fratello di Teia. Con sé aveva ampie provviste, una forte guarnigione e dalla sua una delle più imprendibili fortezze italiane.

Oggi Cuma non esiste più, la città è scomparsa e non è altro che una frazione di Bacoli, un comune dell’hinterland napoletano nella sua parte occidentale, i campi flegrei. L’antica Cumae fu la prima colonia greca fondata sull’Italia continentale e a lungo una delle più importanti città della Campania. La sua importanza era economica e militare: la sua acropoli era in una splendida posizione a dominare il litorale domizio, il lungo litorale sabbioso che va da Cuma fino a Gaeta e che prende il nome della Via Domitia, costruita dall’imperatore domiziano nel 95 dopo cristo per collegare più rapidamente Roma con le città dei campi flegrei: Cuma, Pozzuoli e Baia. La città aveva un ruolo militare già dai tempi di Augusto: per la guerra contro Sesto Pompeo, il figlio di Pompeo Magno che si era impadronito della Sicilia, Agrippa fece costruire un grande porto nel lago di Averno – il mitologico ingresso all’Ade – e lo collegò con Cuma attraverso uno spettacolare tunnel lungo un km. Poco più a sud, c’era l’altro grande porto militare romano, Capo Miseno. Ancora nel sesto secolo, Cuma era considerata la più importante fortezza in Campania e un punto chiave per il controllo dell’intera regione, grazie alla sua formidabile acropoli, sotto la quale passava un tunnel per collegare il foro della città al porto e un altro che era stato scavato nel VII secolo a.C. Questo secondo tunnel è stato identificato come il celebre antro della Sibilla cumana, dove una lunga serie di sacerdotesse di Apollo divulgarono i loro oracoli celebri in tutto il mondo mediterraneo.

Ricostruzione di Cuma in epoca altoimperiale

Quando Narsete circondò Cuma e la sua formidabile acropoli, non si limitò ad un lungo assedio per fame: non aveva il tempo di attendere, doveva prendere la città e recarsi quanto prima a nord per far fronte ai Franchi. Pertanto diede ordine di assaltare la città: furono messe in opera un gran numero di macchine da guerra che lanciarono pietre e dardi contro i difensori, mentre continue ondate di frecce cadevano sulle mura. I Goti non restarono a guardare, leggiamo Agazia: “Aligern e i suoi uomini erano ammassati lungo i tratti di mura tra le torri e non furono lenti a rispondere con giavellotti, frecce, enormi pietre, tronchi, asce e qualsiasi altra cosa sembrava servire al loro scopo. Avevano anche loro delle macchine da guerra e le usavano in uno sforzo corale per sconfiggere gli aggressori”.

Lo lotta continuò per diversi giorni, senza che gli imperiali riuscissero ad avere la meglio sui difensori. I Romani avevano però notato che parte della fortezza era stata costruita sulla sommità dell’antro della Sibilla. Narsete decise quindi di inviare quanti più uomini possibile nella caverna e fece minare la parte di soffitto sulla quale erano state costruite le mura. Gli imperiali costruirono una struttura di legno per sorreggere il tetto, in modo da non farlo crollare immediatamente, mentre Narsete ordinava un assalto alle mura per coprire il rumore dei lavori. Quando arrivarono alle fondamenta delle mura, i genieri imperiali si ritirarono dando fuoco alle travature di legno: queste collassarono e si portarono dietro anche un tratto di mura che precipitò al suolo: un dettaglio interessante è che, negli scavi archeologici, è stato trovato traccia di tutto questo: Agazia qui descrive quanto avvenne in modo accurato.

Antro della Sibilla

Quando vide che c’era un varco nelle mura dell’Acropoli, Narsete lanciò un assolto generale ma i Goti si difesero strenuamente, aiutati dal fatto che le macerie e il crollo avevano reso accidentato il terreno. Dopo una lunga e sanguinosa giornata, gli imperiali dovettero ritirarsi, battuti.

Esercito, dietrofront!

Narsete non poteva restare sul luogo: presto gli giunse notizia che i Franchi avevano passato il fiume Po. Il generalissimo, quindi, diede ordine ad una parte del suo esercito di continuare a tenere sotto assedio Aligern e i suoi, mentre con il resto della sua grande armata, ridotta dai morti e dai feriti delle ultime battaglie, si affrettò verso nord.

Lungo la via, Narsete separò il suo esercito in due. La parte più importante la inviò nella futura Romagna, per ricongiungersi con Valeriano: si trattava degli Eruli di Fulcaris e dei reparti imperiali di Giovanni il sanguinario e del nostro avventuriero armeno Artabane, che era giunto in Italia dalla Sicilia. Narsete invece fece rotta per la Toscana: durante la guerra, questa regione era rimasta quasi sempre in mano ai Goti. Per prima cosa Narsete si recò a Civitavecchia e accettò qui la resa del presidio della città, poi proseguì per il centro della Toscana: nel giro di poco tempo le principali città della regione, Volterra, Firenze, Pisa, e si arresero al generale. L’obiettivo di Narsete era di bloccare i passi di questa regione, mentre Valeriano e gli altri dovevano difendere l’Emilia: assieme, avrebbero potuto impedire ai Franchi di scendere nell’Italia peninsulare, l’unica che per ora interessasse agli imperiali, visto che l’Italia padana sfuggiva in gran parte al loro controllo.

L’unica città che chiuse le porte in faccia agli imperiali fu Lucca: era l’autunno del 553. Si trattava di una decisione importante, perché la città difendeva la via che conduceva al passo della Cisa: se fosse rimasta in mano antimperiale, si sarebbe lasciata aperta una porta che i Franchi potevano usare per passare gli appennini. In precedenza, Lucca aveva già accettato di arrendersi in 30 giorni se non fossero arrivati rinforzi ma, quando questi non si videro, i lucchesi decisero comunque di resistere. Trovo interessate questa veemenza antimperiale di Lucca, visto che la città sarà anche tra le prime in toscana a consegnarsi ai Longobardi. Mentre Narsete teneva ben stretta sotto assedio la città ma proprio, delle notizie provenienti da Nord cambiarono completamente le carte in tavola.

La battaglia di Parma

La notizia che i Franchi avevano già passato il Po convinse Fulcaris e gli altri generali ad uscire da Ravenna per porsi in una posizione difensiva nella città di Parma: la città emiliana era importante perché punto di arrivo della strada romana che valicava il passo della Cisa, strada che conduceva rapidamente da Parma a Luni e di qui a Lucca, dove Narsete conduceva il suo assedio. Prendendo Parma, in sostanza, gli imperiali avrebbero protetto il fianco di Narsete, permettendogli di concludere l’assedio per poi giungere a nord a dargli manforte.

Parma romana

Ma gli imperiali sottovalutarono i nemici: Butilinus aveva probabilmente compreso la strategia romana e giunse per primo a Parma. Di nascosto, fece inviare un forte contingente franco nell’Anfiteatro della città: come in molte città romane, l’anfiteatro era situato fuori dalle mura. Quando gli Eruli e i Romani giunsero a Parma, si diressero verso le mura, finendo tra queste e l’anfiteatro. A questo punto Butilinus fece scattare la sua trappola: l’attacco fulmineo dei Franchi mise in fuga il grosso dell’esercito imperiale che soffrì forti perdite, mentre il capo degli Eruli, Fulcaris, fu ucciso nella battaglia. Agazia riporta che questi decise di non fuggire per una ragione specifica: “Preferisco morire di spada piuttosto che soffrire i rimproveri di Narsete” avrebbe detto, mi sembra realistico che qualcuno preferisca morire piuttosto che sottoporsi ad una ramanzina. Ho già detto che Agazia è decisamente melodrammatico? Agazia è anche abbastanza xenofobo, perché sostiene che Fulcaris è stato sconfitto perché si trattava di un barbaro incapace di pensiero razionale, a differenza dei Romani.

Dopo la battaglia di Parma, le popolazioni dell’Emilia e della Liguria si unirono ai Franchi nel desiderio di cacciare gli odiati imperiali dalla penisola. Butilinus raccolse abbastanza supporto da poter accarezzare il sogno di farsi Re d’Italia: come al solito, l’Italia a nord del Po – soprattutto la sua nutrita comunità gotica – non ne voleva sapere di finire sotto il tallone di Costantinopoli.

Tenere la linea del fronte

Regioni augustee dell’Italia settentrionale: la mappa può servire per comprendere i movimenti delle truppe descritti in questi paragrafi

Nel frattempo quello che restava dell’esercito imperiale si ritirò a Faenza, al comando di Giovanni il sanguinario e Artabane. Chissà se gli imperiali temettero un replay di quanto avvenuto ai tempi di Totila, più di dieci anni prima. Il fatto era che la stretta pianura tra le paludi di Ravenna e gli appennini era e restava la migliore posizione difensiva per bloccare ai Franchi l’accesso a Rimini e alla via Flaminia. Eppure Narsete fu molto preoccupato da questo sviluppo: ora la sua posizione era esposta, perché i Franchi avevano diretto accesso alla Cisa e sarebbero potuti scendere a Lucca in pochi giorni, incastrandolo tra le mura di Lucca e il loro esercito. I suoi uomini erano altrettanto preoccupati e Narsete si sentì in dovere di fare un discorso ai suoi, o così riporta Agazia che descrive il minuto e magro generale parlare con calma ai suoi soldati: il nemico è più numeroso, ma loro sono più organizzati e disciplinati. I Franchi potranno conquistare i campi aperti dell’Italia, ma tutti loro hanno già visto questa storia negli scorsi decenni. Dietro le mura di fortezze ben difendibili e rifornibili dal mare, gli imperiali sarebbero sopravvissuti alla tempesta, attendendo il momento più opportuno per colpire. Ora però c’era un lavoro da completare: lasciare Lucca in mano al nemico voleva dire lasciare la porta aperta dietro di loro.

Ma Narsete sapeva che, per avere successo, doveva proteggersi nuovamente a nord: il generalissimo inviò a Faenza uno degli ufficiali dei suoi bucellari, di nome Stefano, con duecento cavalieri. La sua missione era convincere i generali lì accampati a tornare immediatamente nelle vicinanze di Parma, in modo da evitare rischi all’esercito a Lucca. Agazia narra di come Stefano dovette attraversare monti e campagne infestate dai Franchi, che percorrevano le terre d’Italia saccheggiando ovunque. Agazia dice che “si potevano sentire ovunque i pianti dei contadini e i lamenti degli animali trascinati via”. Stefano riuscì però a giungere a Faenza sano e salvo: qui redarguì Giovanni  il sanguinario e Artabane, spronandoli all’azione. Molti ufficiali fecero però sapere che non erano stati pagati: tradotto, se volete che rischiamo la vita almeno pagate il servizio.

Stefano si recò a Ravenna, prese per la colletta il Prefetto del pretorio dell’Italia, a capo dell’amministrazione fiscale, e lo trascinò a Faenza, costringendolo a pagare i soldati. Fatto questo, gli imperiali mossero nuovamente verso Parma, senza giungervi, ma almeno accampandosi in una posizione apparentemente minacciosa, così da dissuadere i Franchi dall’utilizzare la via Aemilia Scauri, che da Parma andava a Luni e poi a Lucca.

La caduta di Lucca e Cuma

Nel frattempo Narsete mandò all’assalto delle mura di Lucca tutte le sue forze, utilizzando anche le macchine d’assedio costruite nel frattempo: gli arieti riuscirono ad abbattere un tratto delle mura e si scatenò una terribile battaglia sul luogo, mentre la guarnigione gotica e la milizia cittadina fecero una sortita fuori dalle mura, senza riuscire a capovolgere la situazione. Infine, dopo una strenua resistenza, i cittadini di Lucca offrirono di arrendersi a Narsete, se questi avesse dato la parola di non saccheggiare la città, condizioni accettate dal generale. Dopo tre mesi di assedio, la città era tornata all’Impero: Narsete lasciò sul posto una forte guarnigione e si recò a Ravenna con solo quattrocento uomini, per organizzare le difese della città e della regione. Qui Narsete concordò con i generali Eruli la nomina del nuovo comandante del loro esercito: sarebbe stato Sinduald, un uomo che varrà la pena tenere a mente, come vedremo. Si era oramai alla fine dell’autunno del 553 e Narsete sperava che l’inverno avrebbe posto fine ai combattimenti, ma era anche consapevole che i Franchi erano più abituati dei suoi uomini al freddo e temeva quindi di dover continuare a combattere.

Resti “bizantini” sull’acropoli di Cuma

Più a sud, Cuma era stata sotto assedio oramai per un anno, sin dalla fine del 552. Dentro la fortezza, Aligern iniziò a valutare le sue opzioni: aveva avuto notizia dell’arrivo dei Franchi, che sostenevano di essere venuti in Italia in risposta alla richiesta di alleanza dei Goti. Certamente nel giro di pochi mesi avrebbero provato a rompere l’assedio di Cuma, in modo da recuperare il tesoro e le insegne reali di Teodorico. Ma anche se fossero riusciti in quest’impresa, oramai Aligern era certo che il prossimo Re d’Italia non sarebbe stato un goto. Come Witigis prima di lui, alla fine Aligern decise che tra la sottomissione ai Franchi e quella ai Romani, tutto sommato, preferiva il diavolo che conosceva. l’Impero era la migliore garanzia per sé stesso e i suoi uomini. Fece sapere quindi al comandante degli assedianti che intendeva parlamentare con Narsete e gli fu permesso di viaggiare fino a Classe, il sobborgo di Ravenna dove era in quel momento acquartierato il generalissimo. Qui, Aligern consegnò ritualmente all’Eunuco le chiavi di Cuma, con tutto quello che vi era contenuto. Narsete gli assicurò un ruolo importante nella nuova Italia che voleva costruire. Aveva però una richiesta: doveva recarsi a Cesena, dove presto sarebbero passati i Franchi e i loro alleati Goti. Il suo compito era farsi vedere da tutti, per informare i nemici che Cuma era caduta, assieme al suo tesoro e alla corona di Teodorico. Altrettanto rilevante era che Aligern, fratello dell’ultimo Re d’Italia, era passato alla causa imperiale con tutti i suoi uomini. Ormai, anche se avessero voluto elevare qualcuno al trono, questi non avrebbe avuto la pompa e la sacralità di un vero erede di Teodorico. Aligern così fece, con una prevedibile reazione da parte degli italiani che erano al seguito dell’esercito franco: lanciarono alla sua volta insulti, apostrofandolo come traditore della sua patria. Butilinus e Leutharis non se ne curarono e decisero di continuare il viaggio verso sud.

Nel frattempo Narsete aveva portato i suoi soldati a Rimini, incredibilmente ancora in mano ai Goti: vi ricorderete di come Usdrila aveva provato a fermare Narsete, appena un anno e mezzo prima. Il nuovo comandante del presidio, alla notizia che Aligern si era arreso, decise di passare anche lui dalla parte imperiale e consegnò la città e il presidio a Narsete. Proprio in quel momento, giunse notizia che un gruppo di circa 2000 soldati franco-gotici, una squadra di razziatori, era diretta verso la città. Narsete decise di intervenire immediatamente, in modo da bloccare questa avanguardia dei nemici: con 300 cavalieri si diresse verso di loro, sperando di sorprenderli, ma questi capirono che gli imperiali erano in arrivo e si schierarono immediatamente in una compatta formazione di fanteria, con la cavalleria ai lati. Narsete arrivò a distanza di tiro e i suoi bucellari iniziarono a tempestare di frecce i nemici, che però non si mossero ed iniziarono loro stessi a tirare contro i meno numerosi imperiali. A questo punto il generale decise di attuare una tipica tattica degli Unni: come i nomadi della steppa, diede ordine ai suoi di ritirarsi in un’apparente disordinata fuga. Quando i Franchi videro la cosa, si lanciarono all’inseguimento e ruppero i ranghi. Dopo una ritirata sufficiente lunga, vedendoli sparpagliati, Narsete fece fare dietrofront ai suoi e attaccò: la cavalleria nemica fu sorpresa e costretta alla ritirata mentre un gran numero dei fanti furono uccisi dai bucellari. I sopravvissuti si ritirarono verso nord, portando la notizia ai loro comandanti.

A questo punto Narsete decise di inviare istruzioni a tutti i suoi comandanti: gli disse di recarsi nei loro quartieri invernali nelle varie fortezze della penisola, che avrebbero dovuto presidiare fino a primavera: all’inizio della stagione di guerra, si sarebbero dovuti tutti radunare a Roma, dove Narsete si diresse per passare l’inverno. L’anno seguente, il 554, sarebbe stato per l’Italia un altro duro anno di guerra.

I Franchi dilagano verso sud

I Franchi rimasero in nord Italia durante l’inverno: oramai oltre al Veneto erano riusciti a conquistare le altre due regioni principali dell’Italia padana: la Liguria e l’Emilia. All’inizio della primavera, i due fratelli erano pronti e discesero sull’Italia peninsulare. Agazia sostiene che l’esercito franco era forte di 75.000 uomini, un dato decisamente troppo alto. Si trattava comunque di un esercito molto numeroso, che Narsete non si sentiva in grado di affrontare facilmente né unito, né quando – come vedremo – si dividerà in due. L’armata da campo di Narsete era ancora forte di 18 mila uomini, dato riportato da Agazia e che è realistico dopo anni di battaglie e l’attrito della guerra, nonché la necessità di presidiare città in Italia. Credo quindi che i Franchi fossero all’incirca 30.000, forse considerando anche i loro alleati italiani.

Il problema per un esercito talmente numeroso era però che – privi della superba logistica imperiale – i Franchi non riuscivano a raccogliere dal territorio circostante quanto necessario per sfamarsi. Non che non si impegnassero: ovunque passavano, dei gruppi di saccheggiatori venivano inviati in tutte le direzioni per requisire cibo e per privare i locali di qualunque ricchezza rimasta: in uno scavo di tombe alamanniche in Germania, che risale a qualche anno dopo questa spedizione, sono stati trovati diversi pezzi di gioielleria mediterranea con segni di rimozione forzata: quasi certamente decorazioni di chiese italiane depredate dagli invasori.

L’esercito dei Franchi discese l’Italia seguendo l’Adriatico ed evitando quindi Roma e le principali fortezze imperiali. Una volta giunti nel Sannio, i fratelli furono costretti a dividere le schiere in modo da potersi sostenere con i frutti delle campagne italiane: due eserciti più piccoli su due territori diversi mangiano meglio. Leutharis continuò a discendere l’Adriatico e si recò in Puglia, mentre Butilinus virò verso la Campania e poi da lì discese l’Italia fino al Bruzio, la moderna Calabria, arrivando fino allo stretto di Messina. Niente, in Italia, pareva in grado di fermarli.

Agazia si dilunga molto nell’elencare i disastri commessi dagli invasori, salvo poi sostenere che questi fossero causati principalmente dagli Alemanni – che erano dei volgari pagani – mentre i ben più civilizzati e cristiani Franchi si sarebbero astenuti da danneggiare le chiese e fare troppo male ai locali. Oltre al favore di Agazia per i Franchi – che, come ho detto, è dovuto probabilmente al loro status di alleati, almeno ai tempi in cui Agazia scrive – qui vediamo all’opera le tendenze cristiane di Agazia, che scrive una storia cristiana nello stile di un genere letterario pagano. Il continuatore di Procopio scriveva nello stile della storiografia classica, che non aveva posto per la religione o i fatti religiosi: Come Procopio, Agazia non riferisce i fatti della storia ecclesiastica, ignorata anche quando è fondamentale per comprendere la politica contemporanea, semplicemente perché non è quello che avrebbe fatto Tucidide, il suo modello vissuto mille anni prima. In Agazia, a differenza di Procopio, è però evidente la tendenza moralizzatrice che lo porta a valutare le conseguenze della storia in chiave cristiana: l’esercito invasore di Leutharis e Butilinus alla fine sarà sconfitto, questo perché si è macchiato di gravi peccati, non per ragioni politico-militari. Agazia è in sostanza una sorta di anello di congiunzione tra la tradizione storiografica antica e quella cristiana.

L’eunuco pensa alla risposta

Narsete disegnato da Amelianus. De facto, Narsete fu per decenni il viceré imperiale in Italia

Mentre i due generali-fratelli percorrevano in lungo e in largo la penisola, Narsete andava concentrando le sue forze a Roma: l’Eunuco passò la primavera a esercitare le sue forze, in modo da averle il più possibile pronte per la battaglia. Credo però che il calcolo dell’eunuco fosse anche strategico: durante l’inverno aveva dato ordine di ripulire le campagne e mettere tutto quanto al sicuro dietro le mura delle città, in modo da negare fonti di sostentamento al grande esercito nemico. Se così fu, la sua tattica funzionò: l’esercito franco si era spezzato in due tronconi. Ora Narsete si sentì in grado di affrontare almeno uno dei due eserciti franchi, perché nel frattempo Leutharis, una volta giunto fino a Otranto, decise di fare dietrofront: nonostante tutto, il bottino in termini di ricchezze era stato notevole e Leutharis voleva metterlo al sicuro in territorio franco prima di tornare in soccorso del fratello. Mentre risaliva la penisola, però, le sue forze furono ostacolate dal presidio imperiale di Pesaro – composto dagli armeni di Artabane e da un gruppo di Unni. Questi riuscirono a tendere una trappola ad un altro contingente di saccheggiatori franchi e distruggerli. Infine Leutharis poté tornare in Veneto, dopo aver attraversato con una certa difficoltà il Po. Leutharis si accampò presso la città-fortezza di Ceneda, da molti anni sotto il controllo dei Franchi. Qui però il suo esercito fu colpito da una terribile pestilenza, chissà se si trattava di un altro giro di Yersinia Pestis che, come vedremo, farà presto il suo ritorno nel resto d’Italia. Non che mancassero nell’antichità altri agenti patogeni capaci di fare un lavoro simile, come abbiamo già visto: quel che è certo è che l’intero episodio è descritto con uno stile Horror da parte di Agazia, che narra di come Leutharis arrivò a mangiare le sue stesse carni in attacchi di follia. Agazia si compiace nel sostenere che finalmente gli Alemanni ottennero quello che si meritavano a causa dei loro crimini: una spiegazione che, come visto, è tipica del modo di pensare di Agazia. Comunque sia, buona parte dell’esercito franco e lo stesso Leutharis perirono a causa della pestilenza.

Mentre Leutharis risaliva la penisola lungo l’Adriatico, gli uomini di Butilinus facevano lo stesso lungo il Tirreno. Sembra di capire che questa fosse la maggiore delle due schiere, comunque sia fu a questo punto che Narsete decise di colpire. Uscì da Roma con tutti i suoi uomini e marciò in direzione sud. In contemporanea, Butilinus decise di fermarsi in una forte posizione sul fiume Volturno, la migliore linea difensiva tra Napoli e Roma e il luogo dove si combatterà l’ultima grande battaglia della guerra d’Italia.

Una importantissima battaglia dimenticata

In attesa degli imperiali, Butilinus fece costruire un accampamento utilizzando i carri da trasporto del suo esercito. Il ponte sul fiume Volturno, in quella che oggi è Capua e allora si chiamava Casilinum, fu fortificato da Butilinus con una torre di legno, dove mise molti suoi uomini. Da tutti questi preparativi, è chiaro che il generale franco non fosse uno sprovveduto: credo che Butilinus si fosse costruito una tale posizione per resistere il più a lungo possibile, in attesa dell’arrivo del fratello. Non era ancora stato informato della sua morte e di quanto era accaduto in Veneto.

Poco tempo dopo Narsete arrivò sulla sponda settentrionale del fiume e mise lì il suo accampamento. I due eserciti iniziarono allora a manovrare l’uno contro l’altro, preparandosi allo scontro. In un attacco a sorpresa, gli imperiali riuscirono a dar fuoco alla torre di legno e a prendere possesso del ponte, a quel punto mi sembra di intendere che i Romani riuscirono a passare il fiume e ad accamparsi sul lato meridionale del Volturno: Butilinus, con le spalle al muro, decise di combattere una battaglia campale. Il giorno dopo entrambi gli eserciti si schierarono sul campo di battaglia.

Schema ricostruttivo della battaglia

Narsete posizionò al centro un forte schieramento di fanteria pesante, che Agazia riferisce come in prima linea fosse costituita da uomini protetti da una forte cotta di maglia che cadeva fino al ginocchio e con elmi di acciaio rinforzato: chiaramente Narsete aveva studiato il suo nemico e aveva equipaggiato i suoi di conseguenza, visto quello che faranno presto i Franchi. Sulle ali, questa volta Narsete tenne i suoi arcieri a cavallo e i reparti di cavalleria pesante armati di lancia. Lui si mise al comando dell’ala destra, mentre la sinistra era comandata da Artabane e Valeriano. A questo punto Agazia riferisce un’improbabile storia: gli Eruli di Sinduald si sarebbero rifiutati di combattere in seguito ad uno screzio con l’Eunuco, ma Narsete avrebbe lasciato uno spazio libero nel suo schieramento per permettergli di venire in soccorso all’ultimo momento: più probabile che gli Eruli decisero di non combattere la battaglia, come gli Unni a Tricamerum, o che l’intero episodio sia frutto di un’incomprensione di Agazia, che non era presente alla battaglia.

Sull’altro fronte della battaglia c’erano i Franchi che, nel loro stile, erano in stragrande maggioranza dei fanti. Butilinus li organizzò a forma di cuneo, un colossale cuneo formato da tutti i suoi soldati. Si trattava di una formazione volta a frantumare quella nemica, nella storia utilizzato di solito dalla cavalleria. Agazia sostiene che erano 30.000, più probabilmente erano di meno, visto che abbiamo appurato che questa è la cifra ragionevole per entrambe le schiere franche. 20 mila non è forse lontano dalla realtà: comunque sia, un numero di combattenti pari o superiore a quelli che aveva schierato Totila a Busta Gallorum, con la differenza che in questa battaglia Narsete aveva molti meno soldati: i numeri erano in pari o in leggero vantaggio per i Franchi.

L’enorme cuneo franco si lanciò per primo all’assalto: me li immagino come un esercito di Nani della Montagna solitaria che urla Baruk Khazâd! Khazâd ai-mênu! L’enorme schiera di fanti dei Franchi, pesantemente armati, lanciò le sue Francische, le asce da lancio dei Franchi, e poi si infranse contro la parete di scudi imperiali. Neanche l’equipaggiamento rinforzato degli imperiali fu sufficiente: gli uomini della stirpe di Durin finirono infine per creare un varco nella formazione nemica. A quel punto Narsete fece subire ai Franchi la stessa medicina che gli imperiali avevano impartito a Vandali e Goti prima di loro: in poco tempo Narsete fece muovere le due ali di cavalleria alle spalle della fanteria franca, i cavalieri iniziarono a tempestare di frecce i nemici. L’attacco alle spalle era particolarmente devastante, perché i fanti in formazione non erano ben protetti dagli attacchi provenienti da dietro. Il terribile arco degli Unni continuò il suo sporco lavoro finché i Franchi ruppero la formazione e si diedero alla fuga, mentre la fanteria imperiale si riorganizzava ed era soccorsa anche dall’arrivo degli Eruli, che avevano infine deciso di partecipare alla battaglia.

Situazione alla fine della battaglia: il cuneo franco non ha completamente rotto la linea imperiale, mentre la cavalleria di Narsete colpisce sul retro lo schieramento franco

Il trionfo di Narsete

Alla fine fu un massacro: Butilinus perì con la maggior parte dei suoi. Aligern, il fratello di Teia, combatté per gli imperiali, con distinzione a quanto pare: i Goti d’Italia versarono il loro sangue per entrambi i combattenti, oramai oggetto e non soggetto di questa storia. Agazia, con la sua solita iperbole, riferisce che solo cinque tra i Franchi tornarono in patria, prova ovviamente che Dio aveva voluto punire le loro malefatte. Non c’è alcun dubbio però, al di là delle esagerazioni, che si trattò di una vittoria schiacciante per Narsete. La terza di fila in appena due anni dopo Busta Gallorum e i Monti Lattari. I soldati dell’esercito imperiale tornarono a Roma e portarono il loro generale in trionfo nella capitale, non in senso figurato: pare che Narsete organizzò un vero e proprio trionfo romano, come quello che aveva onorato Belisario qualche decennio prima, dopo la vittoria in Africa. Non sappiamo quanto questo evento ricalcasse la tradizione classica – probabilmente molto poco – comunque sia si trattò dell’ultimo trionfo che vide la città eterna.

La battaglia di Casilinum impressionò molto i contemporanei, e a buona ragione: noi, con il senno di poi, sappiamo che l’Italia non era destinata ad essere conquistata dai Franchi per ancora diversi secoli, ma questo non era certamente chiaro ai contemporanei: loro avevano visto il regno dei Franchi espandersi in continuazione per decenni, l’armata che scese in Italia era per molti versi sufficiente a raggiungere lo scopo, la popolazione della penisola era tramortita e le forze imperiali relativamente limitate. Anche se Butilinus non fosse riuscito a conquistare tutta la penisola, sarebbe bastato poco per avere già nel 554 la situazione che si verrà a creare di qui a qualche anno con la discesa dei Longobardi: un’Italia divisa tra Franchi e imperiali, in continua lotta tra loro. Che ciò non avvenne, si deve in gran parte al genio militare di Narsete.

Agazia riporta che, dopo la battaglia tutti i campi intorno a Capua erano macchiati di sangue, i fiumi cosparsi di cadaveri. Narra anche, in una delle rare citazioni dirette, che gli è stato riportato un poema che fu iscritto nel luogo della battaglia, su un pilastro di pietra.

“Il fiume Casilino scaricò qui il suo carico di corpi,

Dove le correnti le portarono fino al mar Tirreno

Furono queste le orde franche, distrutte dalle lance italiane

che seguirono Butilinus e la sua causa

Ah flutti felici, oh carneficina più cara dei trofei!

Nel mare versi le tue acque a lungo macchiate dal loro sangue”

Narsete, nella sua residenza sul Palatino, a Roma, era oramai il plenipotenziario dell’Italia: lo sarà ancora per quasi un quindicennio, qualcosa di straordinario vista la sua età. Aveva preso la penisola a Totila, aveva ucciso Teia e  aveva schiacciato i Franchi. Ma la guerra non era ancora terminata. A sud c’erano ancora dei Goti in ribellione mentre tutta l’Italia a nord del Po sfuggiva al dominio degli imperiali: Milano, Aquileia, Verona, Brescia, Trento: le grandi fortezze del nord Italia erano tutte da conquistare.

Eppure Narsete, quell’inverno, seppe che oramai era solo una questione di tempo. Avrebbe ricondotto tutti i riluttanti nuovi cittadini dell’Impero all’ubbidienza, con le buone o con le cattive.

Chissà se, in una notte autunnale, guardò verso l’altra sponda del Tevere, dove la grande cattedrale di S. Pietro, voluta da Costantino, giaceva sempre silente. Da un decennio non c’era più un vescovo nella città, da quando Vigilio era fuggito verso la Sicilia e Costantinopoli, per mai più tornare.

Don Abbondio come Papa

Nel prossimo episodio, torneremo indietro nel tempo e narreremo proprio l’incredibile storia di Vigilio, di un nuovo concilio ecumenico e di un nuovo scisma della chiesa, che taglierà in due l’Italia e preparerà il terreno per la divisione politica della penisola. Su tutto però, parleremo di quest’uomo controverso. Perché il papato, dopo decenni di ascesa nel suo potere, è destinato ad entrare in uno dei periodi più oscuri della sua storia. Giustiniano, l’imperatore campione dell’Ortodossia e della fedeltà ecumenica all’autorità papale, finirà per infliggere una delle più cocenti sconfitte di sempre all’autorità papale.


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