Nello scorso episodio abbiamo visto come invadere l’impero d’occidente non fosse una passeggiata neanche nel quinto secolo: i Goti di Alaric, pur rinforzati dai connazionali orfani di Gainas e Fravitta, avevano perso la partita a scacchi contro il campione mondiale di scacchi del suo tempo, vale a dire Stilicone. I fortunati a sopravvivere alle battaglie di Pollenzo e Verona avevano avuto due opzioni: defezionare o avere salva la vita, ma null’altro, perdendo tutti i loro beni. Nonostante i multipli tradimenti Alaric era riuscito a sopravvivere per vedere un altro giorno e, grazie alle infinite giravolte della politica imperiale, aveva finito per allearsi con Stilicone contro la corte orientale.
In questo episodio la tempesta, dopo tanto tuonare, rovescerà sui Romani una epica alluvione degna del Diluvio universale: lo tsunami travolgerà l’occidente e alla fine restituirà perfino il cadavere del più grande di tutti, della spada dell’impero, del generalissimo dell’occidente.
Dramatis Personae
Prima di affrontare i terribili anni che abbiamo di fronte vorrei descrivervi rapidamente i popoli che saranno il cuore della narrazione: sul Reno sono installate le grandi confederazioni oramai alleate dei Romani: i Franchi abitano nella moderna Germania settentrionale, tra il Reno e l’Elba, mentre Alemanni e Burgundi sono stabiliti nella Germania Meridionale, tra il Reno e la Baviera: queste tre popolazioni non saranno dei nemici dei Romani, anzi cercheranno di svolgere il loro compito di alleati bloccando le migrazioni dei nemici di Roma. In Polonia occidentale e in Ungheria abbiamo i Vandali, divisi in due grandi confederazioni come i Goti, ovvero i Vandali Hasding e gli Isling, Lungo il corso del medio Danubio, nelle moderne Austria, Cechia e Slovacchia, abbiamo delle popolazioni germaniche che furono probabilmente raggruppate nella confederazione degli Svevi, comprendente gli antichi popoli dei Quadi e Marcomanni che avevano combattuto contro Roma ai tempi di Marco Aurelio. Questi popoli erano stati a lungo influenzati da Roma e ai tempi di Stilicone avevano rapporti normalmente di amicizia con Roma. Nelle grandi pianure ungheresi vivevano ancora popolazioni Gotiche, in grandissima parte Greutungi di religione pagana. Infine abbiamo gli Alani: questi prima del 370 vivevano in Russia me erano stati sconfitti e in parte assoggettati dagli Unni: una parte di questo popolo però era riuscita a scappare e rifugiarsi in Europa centrale, tra l’Ungheria e la Polonia.
Nel quinto secolo abbiamo, in pochissimi anni, un intero sommovimento delle popolazioni germaniche che vi ho descritto che lasciano le loro terre ancestrali e si mettono in movimento: in passato il nazionalismo germanico, e ahimè anche qualche storico, ha visto in questo movimento il segno della vitalità delle popolazioni germaniche, popoli giovani e forti che si sarebbero riversati sul decadente, debole e imbelle impero dei Romani per distruggerlo, in un afflato nazionalistico che era iniziato già con la grande vittoria di Teutoburgo nel primo secolo. I Germani, in questa visione, sono dei trionfanti conquistatori: era questo anche il parere di Hitler.
Dall’altro lato molti storici, soprattutto nelle riletture revisioniste del periodo postbellico, hanno negato che le invasioni barbariche fossero avvenute del tutto: per questa corrente di pensiero non ci sono stati movimenti di popoli, semmai di gruppi di guerrieri senza dietro le loro famiglie e congiunti, e anche nel caso del movimento dei guerrieri sostengono che questo fu un processo lento e graduale che non portò alla distruzione del mondo antico, ma ad una sua trasformazione. Nello spiegare la caduta dell’Impero Romano questi storici pongono molto più l’accento sulle debolezze economiche dell’Impero Romano, pur sottolineando che le migrazioni di gruppi di guerrieri nell’impero furono causate dalla superiorità economica del mondo romano rispetto a quello germanico, superiorità che ebbe un effetto attrattivo soprattutto sulle élite dei popoli germanici.
A mio avviso c’è del vero in quello che sostiene questa corrente storiografica e la loro opera di demolizione della visione nazionalista germanica è meritoria. Però credo che siano andati un po’ oltre e abbiano nel complesso sottovalutato il fenomeno delle grandi migrazioni, che resta di proporzioni importanti e di conseguenze durature, sia per le aree dell’Impero che per la Grande Germania di oltre Reno e oltre Danubio: in questo mi trovo più d’accordo con il parere di Peter Heather che, nel suo magistrale “La caduta dell’impero Romano, una nuova storia” da un resoconto dettagliato dei prossimi anni e della conseguenza socioeconomica delle grandi migrazioni germaniche. Per cercare di ricostruire il puzzle di quello che avvenne nei primi decenni del quinto secolo dobbiamo capire due cose: a scomparire non fu solamente il mondo Romano, anche la Germania uscì completamente devastata dagli eventi del quinto secolo.
Come ho narrato nell’episodio 14 – che vi consiglio di riascoltare se non lo ricordate – la Germania antica era molto più ampia di quella moderna: i Germani vivevano dal Reno fino alle steppe dell’Ucraina, frammisti a popolazioni locali conquistate di cui costituivano le élite militari. Archeologicamente abbiamo diverse culture relativamente avanzate che hanno lasciato traccia della loro evoluzione e crescita durata quasi un mezzo millennio, dai poveri resti del tempo di augusto a quelli ben più sofisticati del quarto secolo. Questa Europa Germanica, in pochi decenni, scomparirà e lascerà il posto a culture archeologicamente documentabili molto più primitive e, per quanto possiamo capire, in gran parte non di lingua germanica. Sembra che i Germani abbandonarono le loro terre per non tornarvi mai più, un comportamento che è tipico di chi fugge da qualcosa di terribile. Insomma: i Germani che finiranno per invadere l’Impero Romano non erano dei conquistatori, erano dei profughi: come erano stati profughi i Goti Tervingi e Greutungi. Ma che fine ha fatto l’Europa Germanica? E da cosa fuggivano i Germani?
La loro scomparsa o almeno la loro regressione a popolo povero e senza tracce archeologiche è coerente con la teoria dei grandi movimenti di popolazioni. Una terribile calamità verrà scatenata su questi popoli: inizialmente sui Goti intorno al 370 e poi, come vedremo, sul resto dell’Europa Germanica a partire dai primi anni del 400. Sappiamo anche il nome di questa calamità: ma ovviamente sempre i nostri amati Borg, di fronte ai quali la resistenza è futile. Ovvero gli Unni.
Gli Unni, come raccontato in precedenza, avevano conquistato le steppe della Russia e dell’Ucraina e spinto i Goti a fuggire nell’Impero Romano. Ancora nel 395 la loro principale base operativa era nelle steppe Ucraine ma sappiamo con certezza che già nel 411-412 gli Unni si erano spostati 1500 km più a ovest, probabilmente a loro volta spinti da altri popoli della steppa euroasiatica. Per la prima volta avevano passato i monti Carpazi – che dividono l’Europa orientale da quella centrale – e si erano installati in quella che sarà per secoli una delle basi preferite dai popoli nomadi provenienti dalle steppe euroasiatiche: la grande pianura oggi detta Ungherese. La scelta di questo posto non è casuale: le pianure Ungheresi sono un luogo ideale per allevare i cavalli che erano alla base della forza militare Unna. Questo processo fu probabilmente graduale, con progressive e terrificanti razzie che resero la vita dei Germani ivi stanziativi intollerabile, convincendoli che fosse meglio cercare un futuro al riparo dei grandi fiumi che difendevano l’Impero Romano.
In seguito ai primi attacchi degli Unni già nel 401 una grande confederazione di popoli composta in gran parte di Vandali e Alani aveva cercato di invadere la Raetia, la Svizzera Romana, ma erano stati in parte respinti e in parte assoldati da Stilicone per combattere Alaric. Negli anni seguenti l’inferno deve essersi scatenato a nord del Danubio, proprio mentre Stilicone si affannava a respingere Alaric e poi pianificare la guerra contro Costantinopoli. Due immense confederazioni raccogliticce di popoli si misero in movimento, abbandonando l’Europa centrale per cercare un rifugio nell’Impero Romano: tutte queste confederazioni provenivano dalle terre tra il Mar Baltico e la pianura ungherese, proprio dove sono documentati gli Unni solo pochi anni dopo. Anche se non abbiamo un Ammiano Marcellino a raccontarci cosa avvenne è facile fare due più due: intorno al 404-405 gli Unni valicarono i Carpazi ed entrarono nella pianura ungherese, costringendo almeno una parte importante di Goti, Vandali, Alani e Svevi a scappare a gambe levate. I Romani non avevano ancora capito quello che stava accadendo ma Ambrogio aveva forse capito già tutto, prima di morire. Aveva scritto: gli Unni si sono gettati sugli Alani, gli Alani sui Goti e i Goti su di noi, e non è ancora finita. No, non era decisamente finita: i popoli dell’Europa centrale avevano deciso che tra il martello dei formidabili archi Unni e l’incudine dell’Impero Romano trovavano decisamente più morbida l’incudine.
Radagaiso terrorizza l’Italia

Come detto questi popoli si riunirono in sostanza in due enormi gruppi: uno di questi era comandato dal Goto Radogast, conosciuto in Italia come Radagaiso. Radogast aveva probabilmente al suo comando in gran parte Goti, ma anche un buon numero di Alani o di altri popoli che i Greutungi avevano assoggettato. Non sappiamo esattamente la consistenza di questo gruppo ma, dato il terrore sacro che impresse sull’Italia e considerando la consistenza militare della reazione di Stilicone possiamo pensare che fosse composto da circa 30 mila guerrieri. Considerando un rapporto di 1 a 5 tra guerrieri e non guerrieri, visto che a muoversi furono intere famiglie con i loro schiavi, possiamo dire che il gruppo di Radagaiso era composto da circa 150 mila persone, una folla enorme paragonabile probabilmente all’invasione Gotica del 376.
Il secondo gruppo a muoversi verso i confini dell’impero era perfino più variegato, ma vorrei mantenere la suspence. Ne parleremo a breve.
Radogast condusse i suoi attraverso il Danubio in una colossale invasione illegale dell’Impero, la prima di queste proporzioni: a differenza del 376 i suoi uomini non provarono neanche a chiedere asilo, erano consapevoli che l’Impero non avrebbe mai concesso a una massa di quelle dimensioni di immigrare legalmente, non dopo Adrianopoli. Le truppe frontaliere erano abituate a movimenti di alcune migliaia di persone e furono completamente prese alla sprovvista. Per fermare una invasione di quelle dimensioni ci voleva il Comitatus imperiale, non i limitanei.
Radogast condusse i suoi attraverso la Pannonia Romana e poi la moderna Austria: molti romani fuggirono e si rifugiarono in Italia, in una progressione continua di profughi terrorizzati che narravano di saccheggi e di violenze da parte di questa immensa orda di barbari pagani: il terrore causato da Radogast fu perfino maggiore di quello provocato pochi anni prima da Alaric: questi era un barbaro che i Romani conoscevano bene e un cristiano per giunta, i nuovi arrivati erano molto più terrificanti.
L’ultima vittoria di Stilicone

Onorio si rintanò ovviamente a Ravenna, l’impregnabile città lagunare, mentre Stilicone fu costretto ad abbandonare immediatamente ogni velleità di guerra contro Costantinopoli: Alaric, che si era già esposto invadendo l’impero d’oriente, fu abbandonato al suo destino.
Stilicone cercò di mettere su una risposta militare per difendere la patria dell’Impero: era fuori questione di affrontare Radogast solamente con l’esercito d’Italia – forte probabilmente di circa 30 mila truppe palatine e comitatensi. Questi soldati erano infatti insostituibili: L’esercito d’Italia non poteva permettersi una sconfitta o perfino una costosa vittoria. Stilicone aveva probabilmente capito che a nord del Danubio non c’erano solo i Goti in movimento, occorreva quindi radunare una forza soverchiante capace di schiacciare i Goti con il minimo rischio.
Quando Radogast e i suoi emersero dai passi alpini nella pianura del nord Italia, nel 405, Stilicone non diede dunque immediatamente battaglia: fece ovviamente chiudere le porte di tutte le città italiane e chiamò rinforzi ovunque potesse radunarli. Inoltre emanò nuove leggi per rinforzare il proprio esercito: incentivò i provinciali ad arruolarsi, promettendo loro una ricompensa di dieci solidi d’oro. Tanta era l’impellente necessità di Stilicone di trovare nuove reclute che fu costretto a ricorrere persino al reclutamento degli schiavi; fu richiesto ai soldati regolari e ai foederati di fornire all’esercito i propri schiavi, e agli schiavi che si fossero arruolati fu addirittura promessa la libertà e un premio di due solidi. Inoltre Stilicone fece arrivare ausiliari da vari Re barbari, tra i quali anche un forte contingente di Unni inviati dal Uldin, il sovrano di quegli Unni che vivevano più vicini ai Romani. Tra gli ausiliari Stilicone aveva ai suoi ordini anche una parte dei Goti di Alaric che avevano abbandonato quest’ultimo dopo la battaglia di Verona: al comando di questi Goti imperiali c’era Sarus, un Goto che avrà un’illustre carriera.
Infine per rafforzare l’esercito d’Italia Stilicone diede ordine di inviare verso l’Italia praticamente il grosso delle truppe comitatensi a difesa della Gallia e del fronte del Reno, stringendo accordi con i Franchi e gli Alemanni affinché fossero loro a difendere, per qualche tempo, la frontiera renana: sostanzialmente tra la sicurezza dell’Italia e quella della Gallia Stilicone decise che la priorità dovesse andare all’Italia, una decisione che pagherà caramente.
I rinforzi iniziarono ad affluire a Milano, nel frattempo in Italia si diffuse un profondo terrore per l’invasione. L’orda di invasori goti saccheggiavano tutte le terre che attraversavano e le province non ancora invase si riempirono di sfollati, costretti ad abbandonare le proprie proprietà devastate dagli invasori.
Radogast, dopo aver messo a ferro e fuoco la futura Lombardia, decise di dirigersi verso sud: probabilmente con l’obiettivo di raggiungere Roma e il sud della penisola. A Roma fu il panico più totale: niente sembrava opporsi al nemico. Secondo Orosio nella capitale i pagani colsero l’occasione per scagliarsi contro il cristianesimo, sostenendo che Radogast avrebbe finito per sottomettere Roma perché difeso dagli Dei pagani, mentre Roma era senza difese perché priva della protezione degli antichi Dei, ora che aveva abbracciato il cristianesimo. In città molti pagani chiesero che gli antichi riti fossero osservati mentre perfino gli animi dei cristiani vacillarono: avrebbe davvero Dio permesso che la città fosse devastata da quest’orda di pagani?
Radogast passò gli appennini e arrivò nella valle dell’Arno: qui Stilicone aveva però preparato la sua estrema difesa dell’Italia peninsulare, una difesa statica in attesa di radunare il suo esercito. Firenze era stata fortificata, i ponti sull’Arno tagliati: se i Goti di Radogast avessero voluto conquistare l’Italia avrebbero dovuto conquistare Firenze e il passaggio sull’Arno.
Radogast si accinse all’assedio della città, mentre dentro le mura la relativamente piccola guarnigione di soldati di base a Firenze si affidava al loro coraggio e alla loro buona fortuna. Per mesi i Goti di Radogast mantennero l’assedio, per mesi i coraggiosi soldati e la popolazione resistettero, ogni giorno scrutando l’orizzonte in attesa dell’arrivo dei rinforzi. A quanto pare, per migliorare le capacità di foraggiamento e rifornimento, Radogast divise i suoi in tre schiere. Firenze pareva sul punto di cadere e a quel punto la penisola e le sue ricchezze sarebbero state aperte ai Goti: per i Goti la vittoria era ad un passo.
Ma la spada dell’occidente non era ancora smussata: nella primavera del 406 Stilicone era riuscito finalmente a radunare un esercito sufficiente ad affrontare gli invasori. Le fonti sono confuse ma i Goti di Radogast furono costretti a fuggire di fronte all’avanzata dell’immenso esercito di Stilicone e si asserragliarono sulla collina di Fiesole: Stilicone con pazienza aspettò che la fame, le malattie e le diserzioni facessero il loro corso, con l’obiettivo di mietere una grande vittoria al minimo costo per le armi romane. Ad un certo punto Radogast provò a sgattaiolare fuori dal blocco romano ma fu catturato e immediatamente messo a morte: era il 23 settembre del 406. In poco tempo tutta l’immensa armata di Radogast si arrese. Stilicone arruolò i migliori tra i loro combattenti nell’esercito, le nostre fonti ci riferiscono il numero di circa 12 mila combattenti: truppe sufficienti a rafforzare l’esercito occidentale senza porre troppi pericoli di insubordinazione. Il resto dei Goti, decine di migliaia, furono schiavizzati. Il loro numero era così ampio che Orosio riferisce che il prezzo degli schiavi crollò in Italia. Stilicone aveva vinto: l’Italia era salva. La Gallia non sarà altrettanto fortunata.
Il crollo della diga

È l’ultimo giorno del 406, il 31 dicembre: un nuovo anno e una nuova epoca stanno per iniziare. Siamo sulla frontiera Romana, tra Mainz e Worms. il Reno è gelato dal freddo intenso. Un’immensa armata di soldati, donne, bambini, vecchi e schiavi si è radunata sulle rive del Reno. Hanno dovuto combattere una dura battaglia contro i Franchi e molti di loro sono morti, ma alla fine il loro numero soverchiante ha avuto la meglio anche dei coraggiosi Germani, che hanno tentato in tutti i modi di rispettare la loro alleanza con Roma. Oltre il Reno giace una delle più importanti regioni dell’Impero: la Gallia, con le sue centinaia di città e ampie terre fertili e coltivate. Dietro di loro c’è solo la morte, la miseria e un futuro di schiavitù. Qualcuno scende sulla riva, il primo di una fiumana muove un passo sulla superficie ghiacciata, seguito da centinaia di altri, poi migliaia, poi decine di migliaia. Un bambino, di nome Genseric, segue i genitori attraverso il fiume: sentiremo ancora parlare di lui. Forse fino a 80 mila guerrieri attraversano il Reno, con loro ci sono centinaia di migliaia di uomini e donne. È un numero che non può essere fermato e infatti nessuno potrò fermarli: loro, a differenza dei Goti di Radogast, non saranno sconfitti e ridotti in schiavitù. Loro sono qui per restare. Sono iniziate, questa volta davvero, le grandi invasioni barbariche dell’occidente.
Chi sono questi barbari? Si tratta di un’alleanza raccogliticcia di profughi di tutta la Germania tra l’Elba e i Carpazi: tra loro i più numerosi, paradossalmente, non sono dei Germani. Si tratta degli Alani, un popolo di lingua iranica. A loro si uniscono le due confederazioni dei Vandali e gli Svevi. Mentre i Goti di Radogast invadevano l’Italia questi popoli hanno provato a forzare prima gli Alemanni, poi i Franchi: dopo sanguinose e innominate battaglie con quest’ultimi, nelle quali sono morti in decine di migliaia, sono riusciti ad arrivare alla frontiera del Reno, sguarnita dalle sue truppe Comitatensi impegnate pochi mesi prima in Italia e che non sono ancora tornate in Gallia. La via è aperta. Nelle parole del vescovo Orienzo, entro pochi mesi tutta la Gallia sarà invasa da una unica pira funebre. Un altro poeta, Prospero d’Aquitania, anni dopo, scrivendo alla moglie, fa un racconto agghiacciante della situazione in Gallia dopo il passaggio degli invasori: “colui che un tempo rivoltava la zolla con cento aratri ora fatica ad avere una sola coppia di buoi, colui che spesso guidava i suoi carri in splendide città ora è malato e viaggia stancamente a piedi per le campagne deserte. Il mercante che solcava i mari con dieci navi cariche di mercanzia ora s’imbarca su un piccolo scafo ed è nocchiero di sé stesso, tutto rotola a capofitto verso la fine!”
Roma saluta la Britannia

Stilicone ricevette la terribile notizia a Ravenna: la soddisfazione per la vittoria a Fiesole svanì immediatamente; i rapporti erano devastanti: Mainz – la città-fortezza che fungeva da capitale della Germania superiore – è stata saccheggiata e la principale forza militare della Gallia distrutta. La più grande città del nord della Gallia – Trier – è sotto assedio. Strasburgo, Reims, Tournai, Metz, Amiens, Autun: tutta la Gallia centrosettentrionale è in fiamme. Gli invasori si sono divisi in diverse bande che saccheggiano a volontà. È il più grande disastro militare della storia per questa dura regione di confine: le truppe limitanee si dissolvono al vento o vengono distrutte una ad una, non ci sono notizie di quello che resta dell’esercito delle Gallie. La Britannia è tagliata fuori.
Intanto arrivano a Ravenna notizie perfino peggiori, che sembrano accavallarsi l’una sull’altra: in Britannia le truppe si sono ribellate appena è stata chiara la portata dell’invasione dei barbari: hanno eletto in rapida successione due imperatori salvo poi ucciderli. Il terzo a essere eletto è però di tutt’altra pasta: si tratta di un uomo di umili origini ma con un grande nome: il suo nome è Costantino e passerà alla storia come Costantino III. Facendo appello al patriottismo delle truppe in Britannia ha promesso che rimedierà ai guasti in Gallia e intende tener fede alla sua promessa.
Costantino radunò praticamente tutto quello che restava dell’apparato militare Romano in Britannia e attraversò il canale della Manica: i Britanni li videro partire stupiti, probabilmente certi che sarebbero tornati di lì a poco. Sicuramente Costantino pensò lo stesso: pensò che fosse una mossa temporanea, una volta risolta la crisi gallica e una volta che fosse diventato imperatore dell’occidente avrebbe rinviato le guarnigioni in Britannia. L’isola, una provincia Romana dal 43 dopo cristo, non rivedrà mai più un soldato romano.
Costantino III in soccorso della Gallia

Costantino III era sbarcato a Boulogne, nel nord della Gallia: qui, dopo una breve battaglia contro l’esercito del Reno, aveva ricevuto l’adesione di quello che restava dell’esercito e delle autorità civili della Gallia. Scrive Peter Heather: “assistiamo qui ad un altro esempio dello schema di comportamento dei Romani. Italocentrico come era il governo di Stilicone non seppe correre prontamente in soccorso della Gallia quando questa ne ebbe bisogno, così quando Costantino III portò in parata il suo vittorioso stendardo ai grandi proprietari terrieri della Gallia sembrò una risposta efficace al disastro imminente: non erano traditori, ma avevano bisogno di un imperatore e di un generale che si occupassero di loro”
Costantino III guidò l’esercito in alcune dure e innominate battaglie contro gli invasori, cosa che spiega anche il percorso seguito da questi ultimi che parvero virare verso sud, portando i saccheggi verso l’Aquitania e la Gallia del sudovest. Costantino strinse anche nuovi accordi con i regni di confine: Franchi, Burgundi e Alemanni confermarono la loro fedeltà a Roma e al nuovo regime, assicurando che avrebbero difeso la frontiera del Reno da nuove invasioni. Così confortato, Costantino mosse il suo quartiere generale verso la nuova capitale delle Gallie, Arles, in Provenza nell’indubbia preparazione di una offensiva verso l’Italia da compiersi nell’anno seguente, in modo da piegare Onorio e Stilicone e riunificare l’impero.
Stilicone cerca l’aiuto di Alaric

La notizia dell’adesione della Gallia a Costantino III fu un brutto colpo per Stilicone, ma non era ancora finita. All’inizio del 408 Stilicone si trovava in una situazione difficilissima. Il nostro generalissimo, sempre determinato, non si diede però per vinto: radunò l’esercito d’Italia, gli ausiliari gotici di Sarus e gli ex di Radogast oltre alle truppe che aveva fatto venire dalla Gallia. Per combattere gli invasori Stilicone ha però in mente di usare l’arma più formidabile che conosce: i Goti di Alaric. Il problema era che Alaric era contrariato per l’annullamento della spedizione in oriente senza che Stilicone si fosse degnato di pagare i suoi servigi, quindi decise di marciare verso nord fino al Norico, la moderna Austria: lì rimase minacciosamente appollaiato ai confini dell’Italia: il governo di Onorio e Stilicone gli doveva 4.000 libbre d’oro, da intendersi come rimborso spese per tutto il tempo trascorso dai suoi in Epiro in attesa di Stilicone: o pagavano o erano guai. Insomma, il solito Alaric: abile, arrogante, infido, ma coerentemente fedele ai suoi.
In quell’ora buia Stilicone si recò a Roma e indisse una seduta del Senato per discutere il da farsi: è una scena che mi commuove, quasi che la defunta, lontanissima Repubblica fosse tornata in vita in questi frangenti disperati. Stilicone sapeva che per avere successo aveva bisogno di avere dietro di sé la forza unita del popolo Romano. Il senato, riunitosi, sembrava propendere più per la guerra che per il pagamento dei foederati di Alarico: a questo punto intervenne Stilicone che spiegò che il re goto era intervenuto in Epiro per assistere Ravenna nel tentativo di recuperare l’Illirico orientale e che la spedizione avrebbe avuto successo se la fortuna non avesse voluto altrimenti. il generale concluse il discorso asserendo che Alarico rivendicava a ragione il pagamento proprio per i servigi resi all’Impero d’Occidente nell’Illirico. Il senato, di fronte alla superiore autorità di Stilicone, accettò controvoglia di versare il tributo ad Alarico, ma non tutti si sottomisero: un senatore di nome Lampadio affermò audacemente che il pagamento al re goto “non era una pace ma un trattato di servitù», salvo poi rifugiarsi in chiesa timoroso della vendetta di Stilicone. No, la Repubblica non era tornata in vita. Stilicone l’aveva avuta vinta ma chiaramente il malcontento per la politica filo-gotica stava montando fino al punto dell’ebollizione.
Assicuratosi il supporto dei suoi Stilicone si recò a Bologna e da lì fece inviare una missiva ad Alaric, incitandolo a venire in Italia: i suoi servigi sono comunque richiesti, ma non in oriente. No, i suoi avrebbero dovuto recarsi in Gallia a combattere per conto dell’impero e, incidentalmente, Stilicone offriva il pagamento delle 4000 libbre d’oro richieste.
Sarebbe facile criticare Stilicone per questa decisione: io penso che il generalissimo stesse solamente provando con tutte le sue forze a tenere in piedi l’Impero: non poteva sguarnire l’Italia e correre il rischio che fosse invasa da un altro Radogast. Per sconfiggere gli invasori delle Gallie aveva bisogno di tutte le forze possibili, Alaric era una di queste. Oltre al pagamento degli arretrati e in cambio dell’aiuto in Gallia Alaric chiese però dalle autorità romane sempre le stesse cose: essere riconosciuto come capo unico dei Goti, l’inquadramento dei suoi nell’esercito regolare e una area sicura dove stanziarsi.
I coltelli vengono affilati

Mentre proseguivano la negoziazione con Alaric una notizia-bomba fu sganciata sull’Italia: inaspettatamente il 1° Maggio del 408 era morto a Costantinopoli sua nullità Arcadio, a soli 31 anni, lasciando come erede il figlioletto Teodosio II, sotto la tutela dell’Antemio che ho già nominato e che fu a lungo il vero padrone a Costantinopoli. Onorio ne fu devastato e pensò bene di recarsi a Costantinopoli per reclamare la sua eredità, o forse anche per togliersi di mezzo dal disastro che si andava accumulando in occidente. Stilicone lo dissuase, dicendo che sarebbe andato invece lui a Costantinopoli a difendere gli interessi di Onorio. Ma la situazione non lo permetteva: la Gallia brulicava di invasori Vandali, Alani e Svevi, un usurpatore aveva sotto il suo controllo la Britannia e la Gallia Romana, Alaric era minacciosamente accampato giusto al di là delle alpi.
Fino a questa crisi Stilicone aveva sempre goduto della fiducia di Onorio e, ancor più importante, dell’aristocrazia terriera italiana. Gli ultimi disastri avevano incrinato il rapporto di fiducia di Stilicone con entrambi. In questa fessura si inserì uno dei capi della burocrazia imperiale, un certo Olimpio, che iniziò a lavorare alacremente alla caduta del Generalissimo. Olimpio arrivò a sussurrare all’orecchio dell’imperatore che Stilicone voleva mettere sul trono di Costantinopoli suo figlio Eucherio. Ma a causare la caduta del generalissimo fu una rivolta militare, non le azioni del sempre imbelle Onorio.
Questi si era recato a Pavia, oramai de facto capitale militare del nord Italia, per passare in rassegna le truppe prima che queste si recassero attraverso le alpi per combattere contro Costantino III. il cortigiano intrigante insinuò di fronte alle truppe che Stilicone fosse la causa di tutte le calamità che stavano flagellando l’Impero. Lo accusò di stare brigando con Alaric, di aver sobillato i Vandali, gli Alani e gli Svevi a invadere la Gallia e di avere intenzione di recarsi a Costantinopoli per detronizzare Teodosio; inoltre, insinuò che ben presto avrebbe sfruttato l’indebolimento dell’Impero per detronizzare Onorio stesso. L’esercito di Pavia, sobillato da Olimpio, si rivoltò, giustiziando sommariamente i principali sostenitori di Stilicone, vale a dire il grosso del corpo degli ufficiali., Convinto da Olimpio della fondatezza delle accuse di tradimento che pendevano su Stilicone, Onorio ordinò alle truppe di Ravenna di catturare il generalissimo. Era il 13 agosto del 408.
Nella morte di un uomo, il suo valore

Stilicone in tutto questo era a Ravenna, a capo dei 12.000 soldati gotici di Radogast che erano diventati una sorta di milizia personale, a lui fedelissima. Stilicone discusse il da farsi con i suoi generali: era opinione diffusa che si sarebbe dovuto muovere guerra ai rivoltosi di Pavia se questi avessero anche solo torto un capello all’imperatore. Stilicone ad un certo punto comprese però che l’imperatore era sano e salvo e si era invece unito a Olimpio contro di lui. A questo punto capì che era tutto finito: aveva perso il controllo della situazione, prima della Gallia e ora, fatalmente, dell’Italia. I suoi lo incitarono a resistere e combattere: c’erano ancora molti che erano fedeli a lui, magari Alaric sarebbe venuto in soccorso del suo miglior nemico di lunga data.
Ma Stilicone era, prima di ogni altra cosa, un soldato di Roma: l’impero era in crisi e aveva bisogno di ricomporsi rapidamente: scrutò nel suo cuore e comprese di essere divenuto un ostacolo piuttosto che una soluzione alla crisi dell’impero. All’arrivo delle truppe di Onorio si rifugiò in una chiesa a Ravenna ma quando arrivarono i messaggeri dell’imperatore richiedendogli di uscire varcò spontaneamente la soglia della chiesa e andò incontro con calma alla morte per decapitazione, impedendo perfino al suo ancora numeroso seguito di difenderlo: era il 22 agosto del 408. Il disastro per Stilicone si estese ai suoi sostenitori e parenti che finirono per essere trascinati nella sua rovina. La figlia di Stilicone che aveva sposato l’Imperatore Onorio fu ripudiata dal marito, che annullò il matrimonio; la moglie del generale, Serena, fu giustiziata con l’accusa di stare brigando con Alaric, mentre il figlio Eucherio fu giustiziato da sicari inviati da Onorio e Olimpio; tutti i beni di Stilicone furono confiscati e incamerati dallo stato, mentre tutti quelli che avevano avuto un qualche legame con il generalissimo subirono torture atroci. Il generale ricevette anche una damnatio memoriae da parte di molti storici dei decenni seguenti anche se va detto che la nostra fonte contemporanea principale, Olimpiodoro, lo aveva chiaramente in simpatia.
Si è scritto molto su Stilicone: molti lo considerarono e alcuni lo considerano ancora un traditore o almeno un inetto. Altri, di converso, lo chiamano l’ultimo Romano, cosa che mi pare ingenerosa nei confronti di Flavio Costanzo ed Ezio, solo per fare due nomi. Una cosa si può dire: il valore di un uomo può essere misurata nella dignità della sua morte e la fine coraggiosa di Stilicone dice volumi su questo grande della tarda antichità: preferì morire in silenzio che sconvolgere quello che restava dell’impero con l’ennesima guerra civile, in questo il generale semibarbaro fu superiore a tantissimi Romani de Roma, anche di tempi più felici dell’Impero.
Stilicone fu certamente un servitore capace dello stato, un politico sottile e un buon generale: ebbe i suoi limiti, in particolare nella sua smodata ambizione di ricoprire un ruolo a Costantinopoli, ambizione che lo rese a volte cieco rispetto ai rischi che correva l’impero. Eppure la sua flessibile politica nei confronti di Alaric e degli altri barbari mi pare fosse l’unica politica possibile nell’impero del dopo Adrianopoli: Stilicone non si illuse mai che Alaric fosse un fedele suddito dell’impero ma capì anche che i Goti di Alaric e di Radogast, utilizzati bene, potevano essere una forza costruttiva e non distruttiva per l’impero. In definitiva non posso addossargli del tutto le colpe di quello che successe tra il 405 e il 408: il regime di Stilicone fu investito dalla più violenta tempesta che avesse mai investito l’Impero Romano, al confronto della quale le precedenti sembrano passeggiate primaverili. Forse nessuno sarebbe riuscito a far meglio, certamente non fecero meglio i suoi immediati successori.
A Monza, nel tesoro della cattedrale, c’è un dittico che ritrae Stilicone in una posa severa, con lo scudo e la lancia tipiche del legionario tardoantico: il suo sguardo è severo ma non autoritario, profondo e compassato: di fianco c’è sua moglie Serena e suo figlio Eucherio, tutti e tre hanno fatto una triste fine. Andateli a vedere, vale davvero la pena. Poco lontano, nella chiesa di Sant’Ambrogio, a Milano, c’è un curioso sarcofago Romano, spesso attribuito a Stilicone senza che ce ne sia alcuna prova: incorporato nell’ambone medioevale, questa ingarbugliata scultura, metà pagana e metà cristiana, di incerta provenienza, difficile da decifrare, di caratteristiche nobili e in definitiva con qualcosa di strano all’ apparenza, ne rappresenta abbastanza bene la figura storica. Risale certamente all’inizio del quinto secolo e non è mai stato mosso: credo sia francamente possibile che il generale sia stato seppellito nella chiesa del grande vescovo di Milano che lui aveva conosciuto personalmente. Ogni tanto, quando vivevo a Milano, mi piaceva passeggiare nella chiesa e avvicinarmi al sarcofago, dedicando un pensiero a Stilicho, il figlio di un semplice ufficiale di cavalleria Vandalo, un uomo che si era fatto da sé fino a diventare un imperatore senza corona. Per me fu e sarà sempre un vero Romano, degno dei più grandi.
Nel prossimo episodio vedremo come se la caveranno Olimpio e Onorio, il dream team ora in controllo della corte di Ravenna. Una serie di decisioni disastrose peggiorerà la situazione oltre il punto di rottura. Libero dalle inibizioni impostegli dal suo nemico-amico Stilicone, Alaric entrerà di nuovo in Italia e questa volta nessuno riuscirà a fermarlo. Nel giro di pochi mesi Roma, che aveva fatto del mondo una città nelle meravigliose parole di Rutilio Namaziano, subirà il primo saccheggio in 800 anni di storia. Il mondo non sarà mai più come prima.

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