Episodio 81: la tomba dei Goti – testo completo

18.000 lance” pensa Totila. Sono tanti, più di quanti siano mai stati dai tempi di Witigis. Un esercito variopinto di Goti, latini ed ex soldati imperiali, il Re d’Italia non ha mai visto tanti dei suoi soldati in un posto solo.

Eppure il nemico ne ha portati ancora di più”. Di fronte a loro, decine di migliaia di soldati si dispongono ordinatamente sul campo di battaglia. I loro stendardi sembrano una foresta. In una battaglia nella quale finisce per contare la forza bruta, saranno i nemici a trionfare. “Dobbiamo spezzare il loro schieramento” dice Scipuar, una delle sue lance spezzate, la sua guardia del corpo “se attacchiamo con tutta la forza della cavalleria, potremmo fare breccia e poi prendere una delle ali alle spalle, mentre la fanteria li attacca frontalmente”.

E’ il miglior piano che ci resta – risponde Totila – ma abbiamo bisogno di più uomini”.

Mio signore, un corriere è appena arrivato da parte di Teia: sta arrivando con 2.000 cavalieri, non sono distanti”.

E allora abbiamo una sola scelta, dobbiamo prendere tempo”.

Al che Totila fece avanzare il suo cavallo, da solo, verso la terra di nessuno tra i due eserciti.

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I Longobardi

Prima di parlare dell’epico scontro tra Narsete e Totila, alcune informazioni importanti per comprendere gli sviluppi futuri della nostra storia. Durante il 551, gli Slavi tornarono nei Balcani. Dopo aver sconfitto i Romani ad Adrianopoli, si erano resi conto che non c’era molto che gli imperiali potessero fare per fermarli. Di nuovo saccheggiarono le terre tra il Danubio e Costantinopoli, sempre seguiti da presso dall’esercito imperiale che, in inferiorità numerica, non poté far altro che cercare di disturbarli, attaccando i gruppi isolati. Una volta giunti sul Danubio, gli Slavi chiesero ai Gepidi di farli passare e questi, dietro pagamento di una parte del bottino, si affrettarono a traghettarli dall’altra parte del fiume.

I Gepidi erano una popolazione che aveva occupato il medio corso del Danubio, con le città romane di Singidunum, Belgrado, e soprattutto Sirmio, l’antica capitale degli illirici. I loro vicini erano l’Impero a sud e i Longobardi a nord, in Pannonia. I Gepidi avevano un trattato di alleanza con Giustiniano ma non si fecero problemi a romperlo traghettando gli Slavi. Giustiniano decise di punire il loro tradimento rafforzando l’accordo che già aveva con i loro rivali, i Longobardi: dopo anni di riduzione delle forze in illirico, non aveva i soldati per sconfiggere i Gepidi o gli Slavi, ma un’alleanza con i Longobardi avrebbe potuto fornire i soldati che non aveva.

I Longobardi erano comandati dal loro Re Alduin, che promise 2500 cavalieri e 3000 armigeri al grande esercito imperiale che si stava radunando in Dalmazia per invadere l’Italia. In cambio, i Longobardi pianificarono con Costantinopoli una manovra a tenaglia contro i Gepidi. I Longobardi avrebbero attaccato i loro rivali da nord, gli imperiali da sud: a tal fine, Giustiniano inviò un reparto di imperiali nella Pannonia. Una curiosità: questo reparto era comandato da un certo Amalafrido, un discendente della casata degli Amali, con tutta probabilità il fratello della regina dei Longobardi, Rodelinda, come vedremo in un futuro episodio.

Nell’anno in cui Narsete condusse in Italia la sua grande armata, l’alleanza si mise in moto per schiacciare i Gepidi: gli imperiali non fecero molto, oltre far finta di essere minacciosi. Alla fine furono i Longobardi a fare il lavoro del macellaio, sconfiggendo i Gepidi in un’epica battaglia a sud del Danubio, presso Sirmio. Paolo Diacono, il grande storico dei Longobardi, la chiama la battaglia di Asfeld. I Gepidi furono umiliati e costretti a restituire Singidunum e Sirmio agli imperiali. Ma non si trattò dell’ultima battaglia tra Longobardi e Gepidi: il lavoro sarà completato dal figlio di Alduin, Albuin, che in italiano è detto Alboino. L’uomo che guiderà i suoi Longobardi in un’epica migrazione dalla Pannonia alla terra che si estendono tra le Alpi e il Mediterraneo.

Areee di insediamento longobardo in Pannonia (blu, rosa, giallo, marrone, viola) e dei Gepidi (verde)

La guerra in Italia: la battaglia di Ancona

Eventi della guerra in Italia prima della battaglia di Ancona

Ma torniamo all’Italia. Al ritorno della flotta di Indulf dai saccheggi in Grecia, Totila decise di andare all’assalto di una delle ultime piazzeforti imperiali in Italia: Ancona. A tal fine mise su un forte esercito in mano a due dei suoi migliori generali e inviò la flotta da guerra di Indulf a bloccare il porto sul mare: la flotta adriatica del regno era forte di 47 dromoni da guerra.

Valeriano, il comandante delle forze imperiali rimaste in Italia di stanza a Ravenna, venne a sapere dell’assedio di Ancona e inviò un messaggio urgente a Giovanni il sanguinario, fermo a Salona in attesa dell’arrivo del suo nuovo superiore, Narsete. Giovanni si rese conto che non potevano accettare la caduta della città, l’unico porto rimasto in Adriatico tra Ravenna e Otranto.

A Giovanni era stato espressamente proibito da Giustiniano di prendere iniziative militari ma, nel suo tipico stile, Giovanni si assunse la responsabilità di intervenire per salvare Ancona. Riunì i suoi migliori soldati e li caricò su trentotto dromoni pesanti da guerra, che l’Impero aveva radunato a Salona dopo la distruzione della loro precedente flotta adriatica. Giovanni puntò su Scardona, un piccolo porto nella moderna Croazia, proprio di fronte ad Ancona. Qui fu raggiunto da Valeriano, con altri dieci dromoni da guerra, quello che rimaneva della flotta ravennate. Assieme veleggiarono per Ancona. Qui si sarebbe deciso il destino del controllo dell’Adriatico.

La flotta gotica avvistò la flotta romana e immediatamente si preparò per il combattimento, la più grande battaglia navale della guerra stava per iniziare. Procopio riporta ovviamente i discorsi di Giovanni e Valeriano, vale la solita premessa, non si tratta dei veri discorsi dei comandanti, però vale la pena citarli perché spiegano l’importanza della battaglia: “Nessuno di voi, o soldati, pensi che adesso si stia per combattere solamente per la città di Ancona e per i Romani che vi sono assediati. Sappiate invece che in questo momento è in gioco, per dirla con una parola, l’intero esito della guerra, che dipende dai rifornimenti di viveri, perché la combattività non può coesistere con la fame. Tra Ravenna e Dryus, a noi rimane solo Ancona come deposito per i rifornimenti per soldati e cavalli, perché i nemici hanno sotto controllo l’intero paese”. Detto tra noi, sono d’accordo con Procopio: questa battaglia è spesso messa in ombra dal dramma che si svolgerà presto a Busta Gallorum, ma è per me di importanza chiave.

Le due flotte erano praticamente identiche: 47 dromoni per la flotta del regno, 48 per gli imperiali. Le navi si avvicinarono e i soldati da entrambi i lati lanciarono delle frecce, poi le flotte incrociarono le loro rotte e si venne allo scontro diretto: la battaglia fu combattuta in spazi stretti, portando ad una lotta simile a quello terrestre, con abbordaggi e battaglie sui ponti in punta di spada e lancia. Da ambo le parti i combattenti erano frastornati dalle grida e dal continuo cozzare delle navi. Procopio riporta però che, con il proseguire dello scontro, la flotta di Totila iniziò a mostrare segni di inesperienza: alcune navi si staccarono dal gruppo, finendo facile preda degli imperiali, mentre altre erano strette in spazi tanto angusti da non poter manovrare, perché i Goti erano meno esperti nel mantenere la formazione. A questo punto la flotta imperiale circondò le navi bloccate dei Goti, tempestandole di frecce. Dopo una lunga ed eroica resistenza, la maggior parte delle navi italiane furono affondate o catturate, solo undici riuscirono a districarsi e fuggire. I marinai, appena toccato terra, diedero fuoco alle imbarcazioni sopravvissute e si recarono dai commilitoni ad Ancona. Assieme decisero di ritirarsi ad Osimo, abbandonando l’assedio. L’Adriatico era di nuovo un lago romano, mentre il morale di Totila e dei Goti fu abbattuto dalla sconfitta.

Ancona e il suo antichissimo porto

Giustiniano prepara la grande spedizione

Dopo la vittoria nella battaglia di Ancona, Valeriano si ritirò a Ravenna e Giovanni il sanguinario tornò a Salona, dove fu infine raggiunto dal suo capo, Narsete. I due poterono iniziare i piani per la grande invasione dell’Italia, ora fissata per l’anno seguente, il 552.

Nel frattempo Giustiniano inviò anche degli ambasciatori al figlio di Theodebert, Theodebald, che era succeduto al padre nel 548: l’imperatore offrì un’alleanza al Re dei Franchi, che oramai controllava le terre su entrambi i lati del Reno e delle alpi, dall’Atlantico fino alla Baviera e all’antica provincia italiana della Venetia-et-Histria: il regno dei Franchi, che solo pochi decenni prima era ristretto alla Gallia centro-settentrionale, ormai copriva buona parte dell’Europa che oggi diremmo renana: una nuova potenza imperiale stava nascendo a nord delle alpi. È proprio vero che tra i due litiganti, il terzo gode.

Come prezzo dell’alleanza, Giustiniano chiese a Theodebald, un giovane Re di 15 anni, di abbandonare le terre italiane, secondo Giustiniano occupate illegalmente. La corte dei Franchi, per bocca del Re, si rifiutò, negando anche qualsiasi diritto di passaggio agli imperiali. Gli ambasciatori di Giustiniano dovettero tornare a mani vuote a Costantinopoli. Nonostante tutto, i Franchi rimanevano fedeli al loro accordo con Totila.  

In Italia, nel frattempo, i Goti tenevano sotto assedio la città di Crotone, uno degli ultimi porti imperiali in Italia. La città era sul punto di cadere e il suo comandante fece filtrare la notizia verso Costantinopoli. All’inizio della primavera, Giustiniano ordinò al presidio imperiale delle Termopili, a guardia dell’ingresso alla Grecia, di prendere il mare e giungere a Crotone: si trattava di un rischio, con gli Slavi che entravano ogni anno nei Balcani, minacciando la sicurezza della Grecia, ma nel breve periodo pagò: i soldati delle Termopili giunsero nella moderna Calabria dove i Goti, alla vista della grande flotta imperiale, abbandonarono frettolosamente l’assedio e si ritirarono verso la Lucania e Taranto.

A Taranto era comandante della guarnigione Ragnaris, uno dei capi dei Goti: lui e Mora, il comandante della fortezza di Acerenza, l’altra grande fortezza gotica della regione, furono spinti dai loro uomini a negoziare una resa con il comandante imperiale di Dryus. Narsete ancora non era entrato in Italia e già il regno di Totila iniziava a sfaldarsi.

La terra dei venetici

Torcello, area di insediamento dei venetici ai tempi di Narsete. Da un’idea di come doveva apparire la laguna ai tempi

Quanto all’eunuco, questi passò l’intero inverno del 551-552 ad arruolare truppe e mercenari: nelle parole di Procopio, “Narsete ricevette denaro, uomini e armi in misura degna dell’Impero Romano”, che è un altro modo dello storico di lamentarsi di quanto questo non fosse stato il caso fino ad ora. Il cuore della spedizione erano senza dubbio i reparti regolari romani, probabilmente circa 15 mila uomini, diversi “numeri” o reparti prelevati tra le armate presentali, dell’Illirico e della Tracia o arruolati direttamente nei Balcani, come sempre. La prospettiva di una guerra vittoriosa convinse molti dei figli dell’Illirico che in Italia ci sarebbero state ampie occasioni di saccheggio e arricchimento.

Narsete riuscì ad arruolare anche molti Germani: 3000 cavalieri Eruli al comando di Filemuth oltre ad un numero non precisato di fanti sempre Eruli, un nutrito gruppo di Unni, 400 Gepidi e perfino un reparto di soldati persiani, al comando del principe sasanide Kavad, nipote del grande Kavad e parente di Khosrau. Il principe era stato esiliato dalle lotte di potere a Ctesifonte, proprio come l’Hormisdas che era stato alla corte di Giuliano l’Apostata. Infine vanno contati i 5500 Longobardi inviati da Alduin, arrivando alla cifra di almeno 10.000 soldati federati. Storici nel passato sostenevano che l’esercito di Narsete era composto quasi esclusivamente di cavalleria, ma Philip Rance – che ha scritto un dettagliatissimo paper di 60 pagine sulla battaglia di Busta Gallorum – sostiene con ottimi ragionamenti che fosse improbabile che ci fossero nell’esercito di Narsete più di 10 mila cavalieri, con il resto composto da fanti. Non abbiamo dati esatti, ma l’intero esercito doveva essere composto da almeno 25.000-30.000 uomini. Anche ai tempi dell’antico impero, sarebbe stata una grande armata: nel sesto secolo, soprattutto dopo la pandemia, era semplicemente una spedizione colossale.

Nonostante gli imperiali avessero ottenuto con la battaglia di Ancona il dominio dell’Adriatico, Narsete decise di marciare verso l’Italia via terra: probabilmente l’esercito era troppo numeroso per essere traghettato, se non con diversi passaggi che lo avrebbero esposto agli attacchi nemici. A Narsete è attribuita la celebre frase che “lo stivale si infila dall’alto”.

Una volta giunto ai confini della penisola, Narsete fece sapere ai Franchi che presidiavano le città della Venetia-et-Histria, almeno la parte continentale, come vedremo, che dovevano fare passare l’esercito imperiale. I Franchi però, sempre ligi all’accordo con Totila, si rifiutarono categoricamente, con la scusa che nell’esercito di Narsete c’erano i loro nemici, i Longobardi.

Narsete ne fu molto seccato, ma non aveva tempo per assediare Aquileia, Oderzo, Treviso e le altre città che gli sbarravano il passo. Giunsero inoltre notizie che Totila aveva preparato le difese in modo da bloccargli la strada: in Veneto c’erano due vie principali, la Via Annia – lungo la costa – giungeva a Ravenna, mentre la Postumia passava per Verona per giungere a Cremona e Piacenza. La via Annia però era oramai in disuso da tempo e non era più considerata una via utilizzabile da un esercito; quindi, Totila concentrò i suoi sforzi su Verona e l’Adige: fece allagare le pianure a sud di Verona, costruire terrapieni e fossati nei passaggi più agevoli e mise un forte presidio nella città, al comando di un coraggioso guerriero di nome Teia, quello che sarà l’ultimo Re dei Goti.

Per aggirare l’ostacolo, Giovanni il sanguinario suggerì a Narsete di marciare lungo le paludi, gli acquitrini e le lagune costiere che a quei tempi andavano da Grado fino a Ravenna. Il fatto era che in quelle paludi e lagune avevano le loro case dei fedeli sudditi dell’Impero, uno strano popolo che viveva una vita anfibia, dove le barche sostituivano i carri e i canali le strade. Dove solo conoscendo ogni barena e ogni fondale si poteva avere una speranza di passare. Queste popolazioni della Venetia Marittima avrebbero aiutato gli imperiali ad attraversare l’area. Ho come il sospetto che sentiremo ancora parlare di questi strani abitanti lagunari.

Narsete punta alla giugulare

Ricostruzione di Narsete (da Amelianus)

L’esercito di Narsete passò dunque nella laguna, aiutato e supportato da una flottiglia di navi imperiali e venetiche che aiutarono l’esercito a guadare fiumi e acquitrini, a volte costruendo dei grandi ponti di barche: il genio militare imperiale, anche nel sesto secolo, faceva classe a sè. In questo modo il 6 giugno del 552 la grande armata riuscì a sgattaiolare dentro Ravenna, evitando le forze dei Goti concentrate a Verona.

Totila aveva però creato una seconda linea difensiva, inviando un altro forte presidio nella città di Rimini, con il compito di sbarrare la strada che portava alla Via Flaminia. Procopio riferisce che il comandante del presidio gotico, tale Usdrila, scrisse al generalissimo una lettera che Procopio riporta. Non so se sia autentica, ma credo riassuma il sentimento dei Goti con la solita empatia da parte dello storico imperiale: “Sebbene abbiate riempito ogni parte del mondo con le vostre chiacchiere e abbiate incantato l’intera Italia con i vostri fantasmi di grandezza, riuscendo ad intimorire anche i Goti, adesso però ve ne state chiusi in Ravenna, senza farvi mai vedere dai nemici. Inoltre lasciate che un’orda eterogenea di barbari mandi in rovina una terra che non vi appartiene a nessun titolo.” Ovviamente per Usdrila, il Goto italiano, i Barbari sono gli altri: i Gepidi, gli Eruli e soprattutto i Longobardi.

Narsete rispose a questa provocazione marciando il suo intero, immenso esercito verso Rimini. Usdrila decise di rallentare l’avanzata degli imperiali tagliando il ponte di Rimini, taglio che è visibile ancora oggi: il ponte romano di Rimini, su quello che era il fiume Marecchia, è giunto fino ai giorni nostri ed è visibile come una delle arcate è di fattura diversa rispetto alle altre, più dozzinale, frutto della ricostruzione successiva.

Un ponte tagliato non ostacolò a lungo Narsete, che fece costruire dai suoi genieri un ponte di barche e iniziò a far passare dall’altro lato del fiume il suo esercito andando in avanscoperta con le prime unità che attraversarono il Marecchia. Mentre la testa di ponte imperiale non era ancora abbastanza forte, la guarnigione di Rimini decise di intervenire con un assalto a sorpresa che per poco non costò la vita al futuro plenipotenziario d’Italia. Uno dei bucellari di Narsete tese però l’arco e con uno spettacolare D20 di Dungeons and Dragons uccise sul colpo Usdrila: alla morte del loro comandante, gli altri si ritirarono dentro Rimini. La testa di Usdrila fu portata nell’accampamento di Narsete.

A questo punto Belisario avrebbe assediato la città per ridurla all’impotenza, proseguendo oltre solo dopo averla presa. Ma non fu questa la strategia di Narsete e Giovanni. Narra Procopio: “Narsete passò oltre con l’esercito perché non voleva attaccare né quella città né qualunque altro luogo occupato dai nemici, per non perdere tempo e non ritardare con un’impresa secondaria quello che era il fine più importante”.

Molti storici hanno notato che l’Eunuco seguiva una strategia à la “Giovanni il sanguinario”, che d’altronde era il suo secondo in comando, così diversa dalla metodica procedura di Belisario: Narsete, armato di un esercito sufficientemente numeroso da schiacciare la resistenza gotica, cercava una grande battaglia campale con la quale annientare il nemico. L’intera marcia di Narsete pare volta ad evitare tutti gli ostacoli frapposti da Totila, con l’obiettivo di minacciare direttamente Roma, una città che Totila non poteva permettersi di perdere e che sarebbe stato costretto a difendere.

Infatti il prossimo ostacolo sulla via di Narsete fu la gola di Petra Pertusa, la galleria sulla Flaminia difesa da un forte presidio di Goti. Narsete, anche in questo caso, si rifiutò di metterla sotto assedio e seguì invece delle strade interne nelle moderne Marche, per rimanere nelle vicinanze di Ancona, dove poteva rifornirsi. Narsete doveva comunque valicare gli appennini e scelse di farlo attraverso il valico di Fossato di Vico, dove passa la strada che ancora oggi collega Ancona con Perugia. Narsete passò vicino a Sentinum, un’antica colonia romana che si trova nei pressi della moderna Sassoferrato, non lontano da Fabriano. Secondo gli storici, Narsete pose il suo accampamento tra Sentinum e il valico, in una posizione di forza. Si trattava di un posto famoso nella storia romana: qui erano stati sconfitti i Galli e i loro alleati Sanniti nella battaglia di Sentinum, battaglia combattuta in una località che i Romani chiamavano “Busta Gallorum”, che in Latino vuol dire “tomba dei Galli”: Procopio riferisce che grandi tumuli di terra, le tombe dei guerrieri morti, erano ancora visibili nel sesto secolo. Sentinum, nel 295 a.C., aveva segnato la definitiva ascesa di Roma al dominio della penisola. Otto secoli dopo l’Impero dei Romani, trasferitosi sulle rive del Bosforo, avrebbe combattuto qui la battaglia decisiva per la riconquista della penisola.

Mappa della battaglia di Sentinum (nel IV secolo a.C.) luogo probabile anche della battaglia di Busta Gallorum. Mappa tratta da questo sito: https://sybillapicena.com/2017/01/06/la-battaglia-di-sentino-un-conflitto-multietnico-nellitalia-del-iv-secolo-a-c/. Visitatelo per più informazioni sulla battaglia di Sentinum, probabilmente la più importante per l’ascesa di Roma al dominio della penisola.

Il Re di Roma

Tutta la strategia di Totila era stata centrata, con tutta probabilità, nel tentativo di impelagare la gioiosa macchina da guerra imperiale in lunghi assedi, ma Narsete era riuscito a piombare nel cuore dell’Italia senza essere ostacolato più di tanto dalle difese frapposte dal Re, a Verona o a Rimini. Totila fu costretto quindi ad abbandonare Roma, dove risiedeva, e percorrere in tutta fretta la via Flaminia per giungere in Umbria, in modo da tagliare la via per Roma all’esercito di Narsete. La sera prima della battaglia, Totila pose il suo accampamento nei pressi di quella che Procopio chiama Tagina e che noi conosciamo con il nome di Gualdo Tadino.

Narsete venne a sapere che Totila e il suo esercito si trovava accampati a 100 stadi a sud, circa 18 km, meno di un giorno di marcia. Forse con l’intento di prendere tempo o di sondare le intenzioni e le forze avversarie il generale bizantino mandò al re goto alcuni ambasciatori con il compito di trattare una tregua. Totila rispose che rifiutava ogni trattativa, ma dava appuntamento per la battaglia di lì a otto giorni. Forse il Re pensava così di confondere il nemico, perché il giorno seguente uscì dal suo accampamento e marciò con i suoi fino a giungere nei pressi del nemico: Narsete però si era atteso qualcosa del genere, e aveva tenuto i suoi nei pressi dell’accampamento, impedendogli di disperdersi per foraggiare nelle vicinanze.

Ovviamente non conosciamo la consistenza dell’esercito di Totila, ma è ragionevole credere che si trattasse di almeno 15.000 uomini, forse di più. Il Re dei Goti si fermò a meno di un chilometro dai nemici. Oramai era chiaro a tutti che il giorno dopo si sarebbe deciso ai dadi di una grande battaglia campale il dominio dell’Italia: se Totila avesse trionfato, sarebbe stato impensabile per l’Impero montare una seconda missione di quella portata. Ma la sconfitta…l’uomo che si faceva chiamare da anni “Re d’Italia” sapeva esattamente cosa si stesse giocando: tutto.

Busta Gallorum

Narsete non sprecò le ore notturne prima dell’alba: aveva identificato sulla sua sinistra una collina che poteva essere un forte punto sul quale ancorare la sua linea. Pertanto inviò un piccolo reparto di 50 uomini a prenderne possesso. All’alba, Totila si ritrovò la collina già occupata e si accorse, con tutta probabilità, di aver commesso un errore, lasciando quel punto scoperto. Inviò una compagnia di cavalleria per far sloggiare gli imperiali che però si organizzarono in una formazione compatta, quella che i Romani di quest’epoca chiamavano Fulkon, una modifica greca del latino Fulcum: un gruppo di soldati che si sistemavano a falange, su più file, con un muro di scudi, la prima linea dei quali è ben conficcata nel terreno. Dal muro di scudi protendono fuori una selva di lance conficcate al suolo. La prima e la seconda fila dei soldati è abbassata e tiene gli scudi di fronte al viso, mentre la terza e la quarta fila proteggono la falange da colpi di frecce dall’alto. Il quarto uomo della fila, con lo scudo praticamente a proteggere la testa, lascia una piccola apertura tra gli scudi in modo da tenersi pronto a tirare la lancia verso i nemici. Questa formazione, una derivazione tardoantica della vecchia testudo, è attestata dallo strategikon e fu probabilmente utilizzata anche in questo caso dai fanti romani, che riuscirono a resistere all’attacco di un gran numero di cavalieri. Questo perché in realtà i cavalli istintivamente non colpiscono una selva di lance e tendono a girare attorno agli ostacoli. Se i fanti mantengono la posizione, è difficile che dei cavalieri li facciano sloggiare. Procopio narra perfino le gesta di un fante che ruppe la formazione, come Pullo all’inizio della serie di HBO “Rome”: Paolo, questo il suo nome, si gettò contro i cavalieri, spezzando le lance con la sua spada, finché l’arma si ruppe. Allora Paolo iniziò ad afferrare con le mani le lance dei cavalieri che gli arrivavano contro. Totila inviò due reparti a più riprese per cercare di sloggiare i cinquanta super-guerrieri, ma fu impossibile. Paolo, dopo la sua dimostrazione di valore, fu assunto nella guardia del corpo di Narsete.

Schieramento iniziale della battaglia di Busta Gallorum

Dopo questa schermaglia, vinta dagli imperiali, i due eserciti si schierarono sul campo di battaglia: i Goti si disposero in una formazione standard: fanteria al centro, cavalleria sulle ali, ma lo stesso non può dirsi di Narsete. Questi fece smontare da cavallo i suoi guerrieri foederati, Longobardi e Eruli su tutti, e li fece posizionare al centro dello schieramento, a formare una falange difensiva. Procopio spiega la decisione di smontare i cavalieri germanici come uno stratagemma per evitare che questi scappassero facilmente a cavallo. Questa decisione mi ricorda una battaglia, quella dei Campi Catalaunici, con Ezio che dispose le sue migliori truppe sulle ali – Romani e Visigoti – in modo da dare manforte agli altri foederati germanici, dei quali si fidava meno: credo fosse in definitiva questo lo scopo. Ai loro lati, Narsete piazzò i reparti romani: a sinistra, vicino alla collina, le truppe migliori con i Bucellari di Narsete e Giovanni, che comandavano quest’ala. Sulla destra, gli altri reparti regolari romani, al comando di Valeriano e Giovanni il ghiottone.

Ma la disposizione di Narsete aveva altre peculiarità: il compatto schieramento di fanteria si dispose a mezzaluna, con le estremità più avanzate del centro. Su entrambi i lati, e probabilmente a sinistra direttamente sulla collina, Narsete piazzò 4.000 arcieri appiedati, prelevati dai reparti di fanteria. Infine, i 1500 cavalieri rimasti, Narsete li mise sull’ala sinistra, a protezione del sentiero che veniva dalla collina. 500 sarebbero dovuti rimanere come riserva strategica, per soccorrere qualunque punto debole, gli altri avrebbero dovuto aggirare i Goti e provare a prenderli alle spalle. Questo schieramento mi ricorda altre due celebri battaglie della storia: innanzitutto Canne, per la disposizione della fanteria a mezzaluna, ma soprattutto la battaglia di Agincourt, durante la guerra dei cent’anni: anche qui, lo schieramento degli arcieri sui due lati avrà un effetto determinante. E ovviamente ho postato una mappa sul sito per avere un’idea di questa disposizione, perché immagino sia difficile da immaginarsela.

Certamente si tratta di una disposizione e di decisioni molto diverse da quello che avrebbe fatto Belisario: invece di puntare tutto sulla cavalleria, Narsete decise di combattere una battaglia difensiva, tutta centrata sulla capacità della sua fanteria di resistere. Solo dai tre esempi che ho fatto, deve essere ormai chiaro che stiamo per assistere ad una delle più celebri battaglie della storia militare.

Procopio riporta ovviamente i discorsi dei due generali, come da tradizione storiografica classica. Secondo me vale la pena di citare il discorso di Narsete, perché riassume la propaganda imperiale e il punto di vista della corte di Costantinopoli: “Accorrete, miei uomini, a cogliere senza timore la vittoria su questi predoni i quali, prima schiavi del nostro grande Imperatore, poi ridotti a fuggiaschi, si sono nominati un capo ch’è un tanghero della peggior feccia, e per qualche tempo sono riusciti a mettere un po’ di scompiglio nell’Impero romano. Essi stanno ora sostenendo una lotta disperata che dimostra la loro follia, e ardiscono affrontare una morte sicura in quanto non hanno davanti a sé alcuna probabilità di successo. Oltre a ciò, voi state per entrare in battaglia in difesa di un legale ordinamento politico, essi invece sono solo dei ribelli, in lotta contro la legalità, senza la prospettiva di trasmettere ai loro successori alcuna delle loro effimere conquiste. Per questo, soprattutto, meritano disprezzo. Chi vive fuori delle leggi, senza un regolare governo, non può essere sostenuto da sentimenti di amor patrio. Di conseguenza, è già evidente a chi toccherà la vittoria!”.

Procopio qui fa riferimento alla propaganda imperiale: Totila non è un legittimo Re, è solo un ribelle contro il suo imperatore, al quale Witigis ha ceduto la corona. Il ruolo di Totila è sminuito al massimo: solo per un po’ ha causato qualche problema di ordine pubblico, ma la Giustizia divina aspetta lui e chiunque altro si ribelli contro l’ordinamento divino dello stato romano.

Nella narrazione di Procopio, Totila risponde con un inspirato discorso, ma anche con una dimostrazione incredibile e indelebile della sua abilità di soldato. Leggiamo Procopio: “Allora si fece avanti Totila, da solo, nello spazio tra i due schieramenti, non per sfidare qualcuno a duello, ma per far mostra di sé stesso ai suoi nemici. Indossava una corazza ricoperta d’oro: dalle piastre della corazza, dal copricapo e dalla lancia pendevano fiocchi di porpora e fregi di ogni genere, degni di un Re e veramente meravigliosi. Poi, sul suo imponente cavallo, si diede a volteggiare con destrezza in una specie di danza armata: fece galoppare il cavallo in un girotondo, poi nel senso contrario. Mentre cavalcava, gettava per aria il giavellotto e l’afferrava al volo e, ancora vibrante, lo palleggiava abilmente dall’una all’altra mano, con mille evoluzioni. Nell’eseguire questi esercizi, si pavoneggiava, piegandosi all’indietro con le spalle, dondolandosi in sella, inchinandosi a destra e a sinistra, come uno che fosse stato accuratamente educato fin da bambino all’arte della danza”. Si trattava del djerid, la danza mortale dei nomadi della steppa, il ballo guerriero che gli Unni avevano portato in Pannonia e che gli Ostrogoti avevano appreso da loro.

Entrambi gli eserciti rimasero stregati a guardare le evoluzioni del Re-guerriero, presto però fu evidente il vero proposito di Totila: duemila lance arrivarono al galoppo proprio in quel momento, rinforzi che Totila aveva sperato di ricevere in mattinata, forse proprio la guarnigione di Verona al comando di Teia. Ora Totila poteva sperare di riequilibrare un po’ la bilancia: si tolse la sua armatura da parata, ne mise una disadorna e si recò a dare il benvenuto ai nuovi arrivati.

La tomba dei Goti

I Goti ruppero lo schieramento e si ritirarono negli accampamenti per consumare il rancio di mezzogiorno, Narsete non diede ordine di attaccarli: il suo esercito era nell’esatta posizione in cui voleva essere, non voleva rischiare tutto rompendo la formazione. Diede ordine ai suoi di consumare un veloce pasto in piedi. Subito dopo, i Goti si disposero nuovamente di fronte a loro, ma in un nuovo schieramento. La fanteria si dispose in una formazione compatta, come quella romana, ma la cavalleria, tutta la cavalleria dei Goti, il fior fiore dell’esercito, si dispose di fronte a loro, preparandosi ad una carica frontale. Totila passò l’ordine di evitare di utilizzare archi e spade: avrebbero colpito i nemici con l’urto della cavalleria e con le loro lance: spesso è stato criticato per quest’ordine, ma la realtà era che ancora al 552 gli imperiali mantenevano un vantaggio determinante nella loro capacità di utilizzare gli archi e le frecce. Inutile ingaggiare duelli con gli archi che sarebbero andati solo a vantaggio dei nemici.

Secondo schieramento e attacco della cavalleria gotica

Procopio a questo punto sottolinea la differenza tra l’esercito imperiale, flessibile e adatto a combattere a piedi, a cavallo, con archi, spade e lance, mentre i Goti provavano nuovamente ad utilizzare l’arma che sempre li aveva caratterizzati: la carica di cavalleria con le lance. Molti storici hanno ritenuto che la fanteria gotica non fosse all’altezza della battaglia, per questo fu relegata nelle retrovie: eppure abbiamo visto come nella battaglia di Roma la fanteria gotica riuscì a tenere testa anche alla cavalleria imperiale. Più probabile che Totila calcolò che, in inferiorità numerica e con un nemico determinato ad attendere l’attacco avversario, la sua migliore chance fosse quella di rompere la formazione avversaria con una carica degna della cavalcata dei Rohirrim.

E fu così che più di seimila lance si abbassarono sul campo di battaglia: file e file di cavalieri si lanciarono all’assalto della formazione nemica: il rumore degli zoccoli come il tuono di una tempesta. Armi, cavalli e cavalieri che a velocità crescente rimbombavano verso la linea dei Romani, immobili con i loro scudi, le loro lance, le loro spade. Chissà cosa doveva essere quello spettacolo, chissà cosa pensarono i soldati imperiali, raccolti da tutto il mondo mediterraneo e venuti a combattere nel cuore dell’Italia: chissà se andarono con la loro mente ai loro cari, disperando di poterli rivedere una volta che una tale massa di acciaio si fosse abbattuta su di loro. Chissà cosa pensarono i cavalieri Goti: chissà se i loro pensieri volarono alla casa ai piedi delle Alpi o negli appennini, dove la moglie e dei giovani figli li attendevano per sapere se avrebbero ancora avuto un futuro. Di fronte a loro si parava la spietata macchina da guerra imperiale: file e file ordinate di soldati, arcieri, cavalieri. Stendardi colorati al vento, la croce di Costantino e le insegne delle legioni. Chissà se i cavalieri Goti chiusero gli occhi durante la cavalcata, per non vedere gli ottomila arcieri che tendevano gli archi, alla loro destra e sinistra, e iniziavano a gettare il loro carico di morte su cavalli e cavalieri, mentre il vicino a destra cadeva trafitto da un dardo, il cavallo di quello a sinistra sprofondava sotto il suo cavallo e tutti i sopravvissuti continuavano la disperata carica. Il nemico era vicino, ancora pochi passi.

Quello che accadde dopo ci è noto solo dalle parole di Procopio, che sono però molto scarne. Gli arcieri ai due lati dei Goti ne ridussero mortalmente il numero con una tempesta di frecce, allo stesso tempo convogliando la carica verso il centro, dove li attendevano i Longobardi e gli altri Germani. La linea dei barbari resse, mentre le due ali di fanteria romana si mossero a chiudere i cavalieri su tre lati. I Goti resistettero a lungo, perché la battaglia continuò fino a sera, ma alla fine i cavalieri si ritirarono in modo scomposto. Nella frenesia della ritirata, i cavalieri travolsero la fanteria dietro di loro, mettendola in fuga: un esercito imperiale avrebbe aperto dei passaggi tra i fanti, in modo da far passare i cavalieri e permettergli di riformarsi alle loro spalle, ma tale manovra era forse al di sopra delle capacità dell’esercito di Totila.

La morte del Re

Rotta dei Goti

La rotta dell’esercito d’Italia divenne generale e Narsete diede ordine di avanzare e uccidere tutti quelli che riuscivano a trovare. L’esercito romano non fece molti prigionieri all’inizio: chiunque gettasse le spade veniva ucciso sul posto. Alla fine interi reparti di fanteria si arresero e furono disarmati, tra loro anche molti disertori dell’esercito imperiale. Quando la battaglia fu conclusa, Narsete passò un ordine di inusitata crudeltà per i tempi: comandò di uccidere tutti i prigionieri, una decisione molto rara a questi tempi, perché i soldati catturati erano sempre utili per la prossima guerra. Un’azione che dimostra la determinazione di Narsete a spezzare la resistenza gotica, ponendo fine alla guerra anche con lo sterminio, se necessario.

Busta Gallorum, la tomba dei Galli, divenne quindi la tomba dei Goti: Procopio riporta 6.000 morti: un numero molto elevato per un esercito di 15-18 mila soldati e che costituivano una buona parte di quello che restava della forza militare del regno. Tra i morti non ci fu però Teia, che riuscì a sfuggire alla trappola mortale assieme a molti dei suoi.

La battaglia di Busta Gallorum o di Tagina è una delle più importanti battaglie combattute in Italia. Segna lo spostamento dell’Italia nell’orbita imperiale, passaggio fondamentale anche se di durata effimera, almeno per la totalità della penisola: eppure non credo che l’affermazione del Papato, o l’evoluzione di Venezia e in generale la frammentazione dell’Italia si sarebbe verificata senza l’abbattimento brutale della monarchia gotica.

Nonostante tutto quello che si è detto sulla cavalleria del sesto secolo, alla fine Narsete vinse con uno schieramento di fanteria coadiuvato dalla moderna tecnologia del tiro con l’arco. Ogni decisione presa fu un passo verso la vittoria: i Germani piazzati al centro, la formazione a mezzaluna, gli arcieri sui lati, la presa della collina prima della battaglia. Totila, in una situazione di indubbia debolezza, cercò di utilizzare al meglio l’unica arma dove pensava di avere un vantaggio: alla fine il numero degli imperiali, la loro professionalità e duttilità tattica ebbero la meglio. Belisario aveva pensato di chiudere la guerra in Italia con il suo colpo teatrale della dichiarazione di un impero d’occidente, il suo grande rivale Narsete aveva invece chiuso la faccenda con il martello della suprema forza imperiale.

Totila fuggì nella notte con appena cinque delle sue guardie del corpo. Nei boschi intorno al campo di battaglia, fu intercettato e inseguito da un drappello di soldati imperiali, anche loro in cinque. Narra Procopio: “Uno di questi era un Gepido di nome Asbad. Questi, arrivato a pochi passi da Totila, gli si accostò per colpirlo alle spalle con la lancia. Allora uno dei Goti, un giovinetto che faceva parte della servitù di Totila e lo accompagnava nella fuga, fuori di sé per quello che stava succedendo gridò ad alta voce “che fai cane? Hai forse intenzione di colpire il tuo Re?”, immagino che confuse il Gepido per un Goto, d’altronde erano lontani parenti. Asbad colpì ugualmente il Re, fu però ucciso dalla guardia del corpo di Totila, Scipuar. Dopo una breve battaglia tra i due gruppi di armati, gli imperiali si ritirarono. Ma Totila era stato ferito ed era bianco in volto. Le sue guardie del corpo continuarono la fuga, trascinando il cavallo del loro signore. Dopo aver percorso una quindicina di km, giunsero in una località chiamata Caprara, al di là del valico di Fossato di Vico, in Umbria. Qui si fermarono per curare le ferite del Re, ma era troppo tardi: Totila spirò lì, fu pianto dai suoi soldati e sepolto nella terra d’Italia. Poco tempo dopo, una donna dei Goti si recò all’accampamento romano, dicendo di sapere dove era sepolto Totila. In cambio di una ricompensa, mostrò l’ultimo sepolcro del Re: gli imperiali lo scavarono, identificarono il corpo e poi lo ricoprirono di nuovo di terra, in un ultimo segno di rispetto per un degno avversario.

Totila, con la sua sconfitta, non perse solo la vita: perse il diritto ad un futuro di rispetto. Nato e cresciuto in Italia, fu visto da generazioni di futuri italiani come un estraneo, quando se le cose fossero andate diversamente sarebbe stato forse ricordato come il rifondatore del regno, come uno dei grandi Re del paese. È così che gli spagnoli, per esempio, percepiscono i Re Visigoti: come i fondatori del primo vero stato iberico.

Per ragioni di guerra, ma forse anche per convinzioni personali, Totila si era fatto campione dei coloni, dei servi e degli schiavi d’Italia. Con la battaglia di Busta Gallorum, con lui morì anche la sua politica di “lotta di classe”. Ora i “padroni” si sarebbero vendicati del grande espropriatore, nella storiografia e nella memoria: i possidenti erano di solito gli stessi che riempivano le cattedre ecclesiastiche e presto saranno vescovi e monaci ad avere un monopolio sulla cultura. Da loro Totila fu dipinto come un nemico della fede cattolica e dell’ordine divino, al comando di un esercito di barbari distruttori, di sanguinari nemici dell’Impero romano. A fine sesto secolo Gregorio Magno, un Papa della potente e ricchissima famiglia degli Anici, descrisse nei suoi dialoghi una mezza dozzina di incontri tra vescovi e Totila, nei quali i vescovi di solito neutralizzano la malvagità del Re nemico. La tradizione su questo Re fece nascere decine di aneddoti e di storielle apocrife, come quella della sua distruzione di Firenze: le storie filtrarono persino nelle agiografie medievali: cito Laura Carnevale: “Dai testi emerge il profilo del re goto, presentato come un crudele assassino e frequentemente confuso con Attila”, le agiografie principali che vedono protagonista Totila sono dieci, sono tutte scritte molto tardi, tra l’VIII e il X secolo. In esse Totila è il fiero avversario del cattolicesimo e dei suoi rappresentanti, in primis vescovi e abati. Il re goto incarna la figura dell’Antagonista, vittoriosamente combattuto dagli uomini di Dio ai quali è affidata la lotta contro la potenza del male.  

Spero invece, con questi podcast, di aver restituito al Re un profilo più storico ed equilibrato, basato su un contemporaneo come Procopio ma anche sulle analisi delle sue azioni da parte degli storici moderni come Heather, Hughes e Wolfram. Ne emerge la figura di un condottiero prudente e metodico, di un politico raffinato che seppe radunare ogni energia rimasta del regno, coinvolgendo le classi sociali più umili dell’Italia e riuscendo ad attirare a sé anche molti soldati imperiali. Certo, fu aiutato dalla fortuna e dai rovesci caduti sull’Impero: la peste e la guerra persiana su tutte, anche se seppe sfruttare le occasioni che la storia gli gettò. Quando però il gigante orientale riuscì a radunare un vero esercito d’invasione, Totila non poté più giocare a scacchi, ma fu costretto al gioco d’azzardo di un tiro di dadi, ad una battaglia campale in cui perse la vita, il regno e la reputazione.

Chissà, forse se i Goti avessero avuto un leader di minore capacità l’Italia sarebbe stata conquistata più rapidamente e molte distruzioni le sarebbero state risparmiate. Non credo che però si possa incolpare Totila di essere troppo abile. Alla fine, quel che rimane per me è l’epopea di un grande Re italiano che sfidò l’Impero romano, e perse.

Nel prossimo episodio metteremo la parola fine alla storia del popolo che più di ogni altro ha accompagnato questo podcast: i Goti. Marciate con me verso la loro ultima, eroica battaglia sotto il sole della Campania. Poi ci guarderemo indietro, e cercheremo di dare un senso a quello che è successo in questi anni. Alla prossima puntata!

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