Episodio 78, la morte di Roma – testo completo

Salute e salve, e benvenuti alla storia d’Italia! Episodio 78, la morte di Roma

Il Re guida i suoi uomini lungo la via Flaminia. Dietro di lui file e file di lancieri, arcieri e cavalieri. Sono tanti, diecimila, forse di più non tanti quanti eravamo un tempo”, pensa Totila. Dieci anni prima erano discesi dalla stessa via, il Re d’Italia ricorda bene la strada: ecco lì il Ponte Milvio. Si ricorda di come avevano circondato la città. Era molto giovane allora, e avventato. Ricorda i suoi amici e i compagni d’arme, la guerra era stata un gioco per loro. “Oggi i corpi di tanti di loro sono ancora sepolti qui, pensa il Re. Questa terra è stata innaffiata del sangue dei Goti, un anno di terribile assedio alla città eterna.

Ma siamo ancora vivi pensa Totila E ora siamo tornati”.

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Il ritorno di Belisario

La presa di Napoli, nella primavera del 543, aveva infine convinto Giustiniano che non poteva permettersi di tenere la sua più celebre spada nel fodero: Belisario era l’unico generale orientale del quale i latini sembravano fidarsi. Ma la situazione strategica restava disperata: nello stesso anno i Romani erano stati sconfitti dai Persiani in Armenia e una nuova ribellione era scoppiata in Africa, mentre la peste continuava a divorare il corpo vivo dell’Impero.

Dopo la sconfitta della missione del 543, inviata da Giustiniano al comando dell’inefficace Massimino, l’imperatore non aveva più soldati da inviare in occidente, non senza il rischio di indebolire fatalmente la frontiera orientale. Belisario implorò di riavere i suoi bucellari, ma l’imperatore li aveva ormai impiegati nella guerra persiana. Eppure al di là delle questioni finanziarie, è probabile che un altro fattore agì sul processo decisionale di Giustiniano, con tutta probabilità suggerito da Teodora: era imprudente ricostruire la potenza di Belisario, l’uomo che aveva fatti finta di farsi imperatore d’Occidente e che si era preparato a sostituire Giustiniano alla sua morte, nelle buie settimane della peste a Costantinopoli. Un altro fattore era evitare che Belisario vincesse troppo: un altro trionfo in Italia e il generale avrebbe potuto raccogliere abbastanza supporto per rimuovere Giustiniano: tenerlo occupato in Italia in una guerra che non poteva vincere serviva gli interessi dell’imperatore. Giustiniano, d’altronde, sapeva di non poter vincere la guerra in Italia in questo frangente: l’importante era non perderla.

Belisario non andò in Italia del tutto da solo: si recò nei Balcani, eterno serbatoio di reclute, e qui chiamò a raccolta quanti più volontari possibile, mettendo su un piccolo esercito di 4.000 uomini, pagati di tasca sua. Con questo esercito tascabile si recò a Salona, sulle rive dell’Adriatico. Qui venne a sapere che una delle ultime fortezze ancora in mano imperiale nel sud Italia era sotto assedio: si trattava di Dryus, la moderna Otranto. Era una città chiave per i rifornimenti all’Italia, essendo il primo porto di fronte ai territori imperiali in Epiro e Belisario non poteva permettersi di perderla. Gli imperiali che tenevano la fortezza avevano già raggiunto un accordo con Totila: se entro una certa data non fossero stati riforniti, si sarebbero arresi. Belisario inviò lì una piccola flotta con dei rifornimenti e questi riuscirono ad entrare nel porto di sorpresa, rifornendo gli assediati per un intero anno: erano arrivati quattro giorni prima della resa.

Belisario sapeva di non avere le forze per affrontare l’esercito di Totila in campo aperto; quindi, prese il mare e giunse prima a Pola, in Istria, e poi da qui veleggiò direttamente a Ravenna. Mentre era a Pola ricevette notizie da Bono, generale a capo della guarnigione di Genova, che lo pregava di venire in suo soccorso, Belisario gli fece sapere che presto sarebbe giunto con tutto il suo esercito.

Guerra di posizione

Ma la lettera non veniva da Bono, ma da Totila: il Re aveva inviato una finta lettera con cinque uomini con il compito di spiare il generale e le sue forze. Totila venne quindi a sapere che Belisario giungeva in Italia con pochi soldati. A questo punto fece partire due offensive, una verso Roma e una verso nord. Con la prima, fece conquistare Tivoli, città che fu brutalmente saccheggiata come ricompensa per aver abbandonato Witigis durante l’assedio di Roma. Tivoli fornirà un’utile base per strangolare i rifornimenti a Roma, quando Totila si presenterà sotto le sue mura. La seconda offensiva di Totila fu contro una vecchia conoscenza, Osimo: il Re d’Italia mosse il suo esercito da campo contro la città, che fu messa nuovamente sotto assedio, mentre 1.000 soldati imperiali vi furono intrappolati, in un curioso rovesciamento della situazione di sette anni prima.

Belisario era giunto nel frattempo a Ravenna e qui chiamò i cittadini italiani e goti a raccolta, chiedendo di combattere nuovamente per lui: Procopio riferisce di un discorso inspirato e muovente, che però non sortì alcun effetto. Nessuno voleva più combattere per lui o per la causa imperiale. Allora Belisario inviò le forze che aveva per cercare di prendere Bologna, senza successo. Mentre il piccolo esercito di Belisario era lì accampato, giunse notizia che l’Illirico era stato invaso dai Kutriguri, i nuovi padroni della steppa Ucraina. A questa notizia, gli illirici abbandonarono la guerra e tornarono a casa, senza che i Goti li molestassero. I soldati imperiali rimanenti tornarono alla spicciolata a Ravenna. Al loro ritorno, Belisario inviò 1.000 soldati per cercare di rifornire e rafforzare le difese di Osimo. Nottetempo i rinforzi riuscirono a sgattaiolare dentro la città, ma la situazione era insostenibile: non c’erano abbastanza rifornimenti e i Goti erano troppi. Allora i comandanti imperiali decisero di evacuare nottetempo la piazzaforte.

Un disertore però si recò nel campo di Totila, offrendo informazioni: il Re fu informato che la guarnigione intendeva uscire nottetempo. I Goti prepararono una trappola ma nel buio non riuscirono a farla scattare nel migliore dei modi: solo 200 dei nemici furono uccisi, ma gli imperiali persero tutti i loro beni e rifornimenti.

Venuto a sapere della caduta di Osimo, Belisario allora decise che era necessario riavere una fortezza sull’Adriatico, in modo da proteggere l’approccio a Ravenna. Le due città più adatte erano Fano e Pesaro, ma Witigis aveva danneggiato le loro mura per impedire agli imperiali di usarle contro di lui. Belisario fece però costruire a Ravenna delle nuove porte da assemblare sul posto e le fece inviare nottetempo a Pesaro, dove si erano rifugiati gli imperiali fuggiti da Osimo. Con queste porte prefabbricate, gli imperiali riuscirono a restaurare rapidamente le mura, in modo da potersi difendere in caso di attacco da parte di Totila e dei suoi uomini, che non erano ancora migliorati in poliorcetica, l’arte degli assedi.

Mappa di accompagnamento all’episodio: trovate altre mappe qui

Da parte sua, Totila passò l’inverno tra il 544 e il 545 ad assediare altre due città delle moderne Marche: Fermo e Ascoli Piceno.

Durante l’inverno, Belisario si decise a inviare a Costantinopoli la sua vecchia nemesi, Giovanni il sanguinario, l’uomo che tanti problemi gli aveva dato ai tempi del condominio con Narsete. Giovanni aveva tenuto negli ultimi tempi Roma, ma Belisario gli chiese di viaggiare verso l’Oriente per far presente la loro causa disperata all’imperatore, implorando soccorsi.

La guerra persiana continua

Non era il momento sbagliato: se il 543 era stato per Giustiniano un anno perfino peggiore del 542, il 544 era stato un anno misto, con disastri e successi. Per quanto riguarda i primi, In Africa Solomone era intervenuto per reprimere la rivolta delle tribù berbere della Tripolitania, che si era presto estesa alla Byzacena: il generale che aveva fatto dell’Africa la sua casa fu però ucciso nella battaglia, assieme alla maggior parte delle sue truppe. Suo nipote Sergio prese il potere a Cartagine, ma il grosso della provincia fu perso all’insurrezione: perfino quel ribelle di Stotzas tornò dal suo esilio in Mauretania, per provare ancora una volta a prendere Cartagine.

In contemporanea Khosrau era tornato all’offensiva, dopo la vittoria in Armenia nell’anno precedente. L’immenso esercito del Re dei Re era arrivato ad assediare Edessa, l’unica città che gli aveva resistito nel 540. Khosrau fece costruire un’immensa rampa per attaccare le mura, mentre i Romani provavano ad ostacolarli con le loro macchine da assedio. Il Magister Militum per orientem, Martino, era sul posto e provò a trattare con il Re dei Re, ma questi stava solo comprando tempo per far costruire la sua enorme rampa. I difensori di Edessa provarono però a minarla, costruendo un tunnel al di sotto. I Persiani se ne accorsero e iniziarono a costruire una contro-mina, finché i Romani decisero di ammucchiare quanta legna possibile sotto alla rampa e darle fuoco. La rampa non collasso immediatamente, dando l’opportunità ai Persiani di tentare l’attacco alle mura, dove si combatté una disperata battaglia corpo a corpo, mentre la rampa lentamente collassava dietro i Persiani. Alla fine i Romani ebbero la meglio. Sei giorni dopo i Persiani tornarono all’attacco, di notte, con l’ausilio di scale, ma di nuovo i soldati – pur presi alla sprovvista – riuscirono a respingere l’attacco. Infine Khosrau diede l’ordine di attaccare in massa tutte le porte in contemporanea, di giorno e con l’ausilio delle macchine da guerra. Fu una battaglia drammatica, nella quale combatterono anche donne, bambini e anziani della città, consapevoli che non ci sarebbe stata pietà per nessuno se i Persiani fossero riusciti a sfondare. I civili tiravano pietre sui soldati persiani e, dopo aver scaldato calderoni di olio di oliva, li versarono sugli attaccanti in una scena degna di un film.

Alla fine i Persiani cedettero e si ritirarono. Pochi giorni dopo Khosrau chiese di parlare con il generale Martino, concordando una tregua in cambio di 500 libbre d’oro. Al che si ritirò nei suoi confini. La buona notizia per Giustiniano fu che, nel corso del 545, si giunse alla fine a una sorta di accordo con Khosrau: il Re dei Re aveva capito che ormai non poteva più permettersi di girare indisturbato in Mesopotamia, la guerra in quel quadrante era ad un punto morto: Giustiniano aveva fatto rafforzare le difese non solo di Edessa, ma anche di Dara, Singara, Sergiopoli: tutte le città più esposte. Un numero sufficientemente significativo di reparti era stato spostato dall’Italia al fronte mesopotamico, impedendo agli iraniani la marcia trionfale del 540. Khosrau aveva già ripulito l’oriente romano delle sue ricchezze, la guerra qui avrebbe avuto ritorni via via decrescenti.

All’inizio del 545, Khosrau e Giustiniano giunsero quindi ad un accordo: non una pace generale, ma una tregua di cinque anni, che i Romani comprarono dietro pagamento di forti sovvenzioni ai Persiani: la tregua riguardava soprattutto il fronte mesopotamico, perché la Lazica rimase in mano persiana.

Un grido di dolore

Durante l’inverno del 544-545, Giovanni il sanguinario giunse a Costantinopoli, portando una lettera di Belisario che diceva: “i soldati a me rimasti sono pochi, si rifiutano di combattere, asserendo che lo stato deve loro molto denaro ed essi sono privi di ogni cosa necessaria. Siamo giunti in Italia senza uomini, senza cavalli, senza armature e senza denaro, tutte cose senza le quali non si può condurre una guerra”. Un vero grido di dolore.

Chi legge solo la guerra gotica di Procopio tende a non capire come mai Giustiniano lesini costì tanto i suoi aiuti: certamente poteva essere anche un calcolo politico, ma abbiamo visto come Khosrau per poco non aveva di nuovo sfondato le difese mesopotamiche pochi mesi prima, mentre l’Africa era stata di nuovo persa, l’impero manteneva il controllo della sola Cartagine. Non credo che Giustiniano volesse abbandonare Belisario al suo destino, ma in questo momento il suo obiettivo in Italia non era vincere, ma semplicemente non perdere, in attesa di sviluppi potenzialmente positivi nella guerra persiana: le trattative per la tregue erano in corso.

Nel frattempo, in Italia, Fermo e Ascoli Piceno si arresero a Totila, al che l’esercito dei Goti, in primavera, passò ad assediare Spoleto e Assisi, lungo l’asse della Flaminia e nel cuore strategico dell’Italia, in modo da bloccare anche da nord i rifornimenti a Roma, come li aveva bloccati da est con la conquista di Tivoli e a sud con quella di Napoli. Dopo una breve resistenza, anche queste città caddero in mano al Re dei Goti, che passò quindi ad assediare l’ultimo baluardo dell’Umbria in mano agli imperiali: Perugia. Qui era generale Cipriano, Totila provò a corromperlo ma, non riuscendoci, passò ad una manovra da 007. Corruppe con del denaro uno dei lancieri di Cipriano, questi uccise il generale e passò ai Goti. Ma Perugia, pur priva del comandante, continuò a resistere. Totila, che non voleva perdere troppo tempo, lasciò gli imperiali in pace – per ora – e decise invece di marciare verso il suo vero obiettivo: Roma. Solo se avesse sottratto questa città simbolica, rifletteva Totila, avrebbe costretto Giustiniano al tavolo negoziale, l’unica speranza per chiudere la guerra, perché – nelle parole di Denethor – contro la potenza che si era mossa dall’Oriente non poteva esserci vittoria.

Il secondo assedio di Roma (della guerra greco-gotica)

Una volta nei pressi della capitale, Totila cinse la città d’assedio e fece sapere a tutti gli agricoltori del Lazio che non avevano nulla da temere dal suo esercito: avrebbero potuto continuare a coltivare le loro terre come prima. Però, come i loro colleghi del sud Italia, avrebbero dovuto versare al regno di Pavia le tasse che versavano allo stato, mentre potevano tenersi l’affitto che avevano un tempo dovuto ai loro padroni, nella maggior parte dei casi gli stessi senatori che erano ora sotto assedio a Roma, o che da tempo avevano abbandonato l’Italia. Uno dei fuggiaschi era anche il vescovo dei Romani: Vigilio, come narrato nell’episodio su Yersinia Pestis, ne approfittò per lasciare il suo gregge e recarsi al sicuro in Sicilia, venendo ricoperto di ortaggi e insulti dai Romani disperati a causa della carestia e della peste. I romani non potevano saperlo, ma non avrebbero avuto un vescovo in città per dieci anni, tra un po’ di tempo a stento avrebbero avuto un clero.

Il caso volle che a comandare la guarnigione imperiale ci fosse un altro goto: il nostro Bessa, lo ricordate parlare in Goto con la guarnigione napoletana? Bessa però non aveva alcuna intenzione di fare causa comune con i connazionali. Bessa era un imperiale fino al midollo, compresa l’abitudine di taglieggiare i locali per riempirsi le tasche, cosa nella quale era a quanto pare provetto. Bessa comandava una guarnigione forte di 3.000 uomini, meno di quanti ne aveva avuti Belisario, ma va detto che anche Totila probabilmente non aveva con sé più di 10 mila uomini, che comunque non aveva alcuna intenzione di gettare in costosi e sanguinosi assalti delle mura: Totila voleva strangolare Roma e prenderla per fame.

Ad aiutarlo, una terribile carestia si diffuse immediatamente a Roma. Le forze del Re d’Italia avevano infatti allestito una potente flotta a Napoli, che pattugliava le acque tra Roma e la Sicilia, impedendo alcun rifornimento da quella direzione, mentre tutte le altre vie di terra erano già state tagliate. In città Bessa si diede da fare esiliando quanti erano del partito gotico, tra i quali il senatore Cetego, l’unico menzionato in questa fase da Procopio come filo-gotico, anche se sospetto che fossero molti di più.

Belisario giunge a Porto

Otranto

Belisario era molto preoccupato da questi sviluppi ma, con il tunnel del Furlo nelle mani dei Goti, gli era impossibile recarsi via terra a Roma. Decise quindi di circumnavigare l’Italia, un’impresa tutto meno che sicura visto che la flotta imperiale non aveva più il dominio assoluto del mare. Ma prima di tutto aveva bisogno di un esercito, che ora non aveva, visto che i pochi uomini sotto il suo comando servivano per difendere Ravenna. Si recò quindi in Epiro e scrisse nuovamente all’imperatore, implorando rinforzi. Giustiniano riuscì infine a raggranellare qualche migliaio di uomini e li mandò con Giovanni il sanguinario in Epiro, in modo da unirsi a Belisario. Mandò anche Narsete tra gli Eruli, che erano sempre estremamente vicini all’eunuco, con il compito di convincerli a venire in Italia.

Belisario a questo punto inviò a Porto, ovvero Fiumicino, cinquecento dei suoi migliori uomini, al comando di Valentino e di una sua guardia del corpo, di nome Phocas. Questi due giunsero a Fiumicino e rafforzarono lì le difese, facendo poi filtrare la notizia a Bessa, dentro Roma, che intendevano effettuare una sortita contro i Goti, in modo da coordinare l’attacco. Bessa però non se la sentì di unirsi all’assalto, che non ebbe quindi il risultato sperato. Anzi, Totila, spero che sia ormai chiaro, non era il coraggioso ma tutto sommato ottuso Witigis. Fece mettere degli uomini a spiare la guarnigione di Fiumicino, quando Valentino e Phocas provarono di nuovo ad uscire in una sortita, Totila fece scattare la trappola e massacrò la maggior parte di loro.

Nel frattempo Vigilio, in Sicilia, non si era del tutto dimenticato del suo gregge: molte delle terre siciliane erano di proprietà della chiesa romana, altri proprietari contribuirono di buon cuore e fu così possibile allestire una flotta carica di grano da inviare a Roma. La flotta filo-gotica che incrociava le acque del Tirreno si accorse però della spedizione e accorse a Fiumicino prima della flotta papale, nascondendosi sul fiume, a vista della guarnigione imperiale di Porto. Quando arrivò la flotta papale con il grano, i soldati imperiali si sbracciarono per avvertire i marinai, ma quelli pensarono che si trattasse della loro felicità nel vederli arrivare. Mi immagino il loro sbigottimento quando la flotta nemica piombò su di loro, mandando molte delle loro navi in fondo al mare e catturando il resto.

La morte di Roma

Totila continuava a stringere la morsa sulla capitale, sempre più disperata, ma era consapevole di essere vulnerabile ad attacchi via terra provenienti dall’Illirico, in mano imperiale, o da oltralpe: non aveva dimenticato l’invasione di Theodebert nel 539. Per proteggersi le spalle, inviò dei messaggeri in Franchia, da Theodebert, il Re dell’Austrasia, con una proposta di accordo: gli cedeva buona parte della sua nativa Venetia-et-Histria, in particolare l’area Veneta pedemontana e il moderno Trentino Alto-Adige e Friuli. In cambio, Theodebert avrebbe mantenuto la pace con i Goti e impedito agli imperiali di intervenire via terra. Totila fece venire le guarnigioni venete verso sud, in modo da unirsi alla guerra. Il regno d’Italia, dopo aver sacrificato ai Franchi la Provenza, iniziava a cedere anche l’Italia. I Franchi emergevano sempre di più come i veri vincitori della guerra. Nel frattempo era arrivato l’inverno e terminò un angoscioso 545.

Un giorno, quando la situazione a Roma fu senza speranza, i cittadini dell’Urbe decisero di mettere nelle mani del più alto di rango tra i prelati rimasti in città una disperata trattativa con Re Totila. Questi era Pelagio, un diacono a quei tempi ma che tra dieci anni sarà il nuovo Papa dei Romani. Pelagio era un uomo ricco e aveva utilizzato le sue ricchezze per provare a sfamare il popolo, ora si recò dal Re per negoziare un armistizio, anche solo di alcuni giorni, quanto bastava per far entrare in città dei rifornimenti. In cambio, Pelagio offrì di negoziare una data oltre la quale, se non fossero giunti rinforzi da Costantinopoli, la città si sarebbe arresa.

Totila fu molto cordiale con Pelagio, ma impose tre condizioni per l’armistizio: le mura aureliane dovevano essere abbattute, Roma sarebbe diventata una città aperta e indifendibile. I siciliani residenti a Roma sarebbero stati trattati da nemici e traditori del regno, in conseguenza di come avevano trattato il loro governo, cedendo l’isola a Belisario senza combattere. Terzo: gli schiavi fuggiaschi che ora combattevano nell’esercito d’Italia non sarebbero mai stati restituiti ai loro ex padroni: ormai la libertas dell’esercito del Re si estendeva a loro, non sarebbero mai più tornati sotto i ceppi. Totila aveva imposto queste condizioni sapendo che erano inaccettabili: gli schiavi erano alla base della ricchezza sia della Chiesa che dei Senatori, le mura erano la più solida garanzia per l’esistenza dell’Urbe e Pelagio non poteva condannare i siciliani alla morte. Il diacono rispose con voce addolorata: Tu mi hai accolto con rispetto, re dei Goti, ma mi rimandi a Roma a mani vuote. E questo è il peggior oltraggio che tu possa farmi”. Poi si inchinò e rientrò in città.

A Roma a questo punto fu la disperazione. Al solito i soldati avevano ancora del cibo, che però tenevano per loro per farlo durare, mentre la popolazione civile moriva di stenti. I senatori rimasti in città pregarono Bessa di condividere con i civili il cibo, di ucciderli per liberarli del loro tormento o di lasciarli liberi di abbandonare Roma. Bessa fu inamovibile: il cibo serviva ai soldati, ucciderli sarebbe stata un’infamia, lasciarli liberi era un rischio troppo grande per la sicurezza della città. Ma non dovevano temere: certamente presto sarebbe arrivato Belisario.

A questo punto i soldati e, soprattutto, i generali iniziarono a vendere parte delle razioni sotto il loro controllo ai cittadini che se le potevano permettere, ovviamente a prezzi esorbitanti: 50 chili di pane erano scambiati per sette monete d’oro, come pagare il pane 300 euro al chilo. Per i poveri, la situazione era ancora peggiore, leggiamo Procopio: “La grande massa del popolo si sfamava però soltanto di ortiche che crescevano abbondanti attorno alle mura e tra le rovine in ogni punto della città. Affinché gli ortaggi non irritassero le labbra e la gola, li facevano bollire a lungo prima di mangiarli. Finché i Romani più ricchi ebbero denaro corrente continuarono a comprare grano e crusca, e se ne stavano tranquilli, quando poi il denaro venne a mancare si diedero a portare nel foro tutti i loro beni, per venderli in cambio del cibo necessario a sopravvivere. Quando infine i soldati dell’imperatore non ebbero più il frumento da vendere ai Romani, e questi non ebbero più di come comprarlo, tutti si cibarono solo di ortiche. Ma questo cibo non era sufficiente e i loro corpi si facevano sempre più magri, mentre il colorito diventava ogni giorno più livido, conferendo loro l’aspetto di fantasmi. Molti, mentre camminavano masticando ortiche tra i denti, cavedano improvvisamente a terra, colti dalla morte”.

I cittadini, finite le ortiche, passarono a mangiare gli escrementi l’uno degli altri, ci furono casi di cannibalismo, moltissimi casi di suicidio. Finalmente Bessa, raccolte tutte le ultime ricchezze della città in pagamento per questo servigio, si decise a lasciare andare i sopravvissuti. Una fiumana disperata sciamò fuori da Roma, molti morirono di stenti appena misero piede fuori dalle mura, altri furono catturati e uccisi dai nemici. Procopio termina questa storia dell’orrore dicendo “a tal punto si accanì la sventura contro il Senato e il Popolo Romano”.

Roma era stata una grande metropoli fin dall’alba della sua storia, e lo era ancora in epoca tardoantica. Ora, con questo terribile assedio che fu ordini di magnitudine peggiore del già terribile travaglio di dieci anni prima, la metropoli fu finalmente spezzata. I suoi cittadini si sparsero al vento, anche molti di quelli che sopravviveranno agli stenti e al disastro non torneranno mai più a vivere nella città eterna. La Roma di Teodorico, ridotta rispetto ai fasti di un tempo, aveva avuto ancora un Senato, bagni, giochi tra gladiatori e belve, corse nel circo, impianti termali, riscaldamento nelle case e tutta la sofisticata vita urbana dell’antichità. Nel 546 questa città non esisteva più, quando finalmente la guerra finì restava solo un’ombra di poche decine di migliaia di persone a vivere nei cavernosi resti della più grande città dell’antichità. Le loro braccia, i loro sforzi, furono capaci solo di tenere in vita le chiese più importanti, gli spazi pubblici più indispensabili, i monasteri, alcune vie, le mura e poco altro. Tutto il resto iniziò a cadere in rovina, mentre poveri profughi si rifugiavano nei grandi monumenti del passato, facendone delle abitazioni alla bisogna. La Roma dei Cesari era morta, quella dei Papi non era ancora nata. Nel mezzo, un’ombra di Roma sopravvisse per rivedere un giorno una nuova alba.

Guerra totale

Nel frattempo, i rinforzi erano arrivati a Belisario in Epiro. Il generale decise di attuare una strategia di attacco a tenaglia: una parte della flotta avrebbe sbarcato ad Otranto qualche migliaio di uomini agli ordini di Giovanni il sanguinario: di lì, Giovanni avrebbe dovuto attraversare il sud Italia, espellendo i Goti e riconquistando la regione agli imperiali, per poi ricongiungersi con Belisario a Roma. Belisario invece avrebbe circumnavigato la penisola, per sbarcare direttamente a Porto, a pochi chilometri da Roma.

Una tempesta costrinse però entrambe le flotte a fare tappa ad Otranto, al che i Goti del presidio di Brindisi furono avvertiti e passarono la parola a Totila. Il Re dei Goti comprese immediatamente quale era l’obiettivo di Belisario e decise di fortificare l’accesso a Roma venendo dal mare, in modo da impedire al nemico di forzare il blocco. Totila fece costruire tra Porto e Roma due alte torri, collegate da un ponte di legno. Per chi conosce Roma, si tratta probabilmente della zona tra la Magliana e Ponte Galeria. In questa nuova fortezza Totila fece piazzare una forte guarnigione, con arcieri e macchine da guerra. Fece inoltre stendere una catena di ferro attraverso il fiume, in modo da impedire a qualunque nave da carico di risalirlo: forse si può dire che con Totila i Goti stessero iniziando a capire qualcosa di questa strana faccenda degli assedi.

Foro di Cesare nel X secolo: la guerra greco-gotica fu la principale discontinuità tra l’antichità e l’alto medioevo a Roma e in Italia

Nel frattempo Giovanni era uscito da Otranto. Il sanguinario piombò sul presidio gotico di Brindisi, mentre non se l’aspettavano, facendone strage e mandandoli a gambe levate verso Totila. Al che si sforzò di convincere i salentini a tornare all’ovile imperiale, ma dalle parole di Procopio si evince che non ci fosse molto entusiasmo perfino in questo angolo poco toccato dalla guerra. Nel frattempo cadde nelle sue mani la città di Canosa: qui Giovanni fu raggiunto dal più importante nobile della regione, tale Tulliano. Questi fu molto schietto: gli italiani del sud Italia erano disposti a lavorare con gli imperiali, ma a patto che questi si comportassero in modo differente, evitando rapine e requisizioni forzose. Una volta raggiunto l’accordo con Tulliano, questi usò le sue clientele in Puglia e Basilicata per farle passare di nuovo sotto il controllo imperiale. Totila a questo punto inviò 300 dei suoi migliori cavalieri a Capua, con il compito di impedire a Giovanni di venire verso Roma, ma Totila non aveva di che preoccuparsi: Giovanni, al solito, disubbidì a Belisario e fece di testa sua, dirigendosi verso il Bruzio, la moderna Calabria, dove affrontò e sconfisse la locale guarnigione di Totila, composta in gran parte di soldati imperiali disertori che erano passati ai Goti. Questi combatterono con coraggio e determinazione contro Giovanni, consapevoli di essere degli uomini morti se catturati: non valse a nulla. Poi Giovanni si recò in Puglia, a svernare con i suoi, lasciando Belisario con il cerino in mano a Roma.

Belisario risale il tevere

Il Tevere all’altezza dell’Episcopio di Porto, il luogo da cui partì Belisario per la sua straordinaria spedizione verso Roma

Belisario, quando non vide Giovanni comparire all’orizzonte, comprese che qualcosa andava fatto per evitare la caduta della città, e presto. Ideò quindi uno dei piani più arditi della sua carriera. Fece calare sul fiume due grandi barconi, che fece legare tra loro. Sui barconi fu costruita un’alta torre di legno, ancor più alta delle torri dei Goti, che aveva fatto misurare da delle spie. In cima alla torre, piazzò alcuni dei suoi soldati più coraggiosi e una barca piena di materiali infiammabili come la pece, lo zolfo e la resina. Dietro alla grande torre, fece allestire una flottiglia di 200 imbarcazioni cariche di grano. Sulle due sponde del fiume, due piccoli reparti di cavalieri e soldati avrebbero risalito il fiume assieme alla torre e alla flottiglia, al centro della quale si mise Belisario. Il generale diede ordine di partire.

Gli imperiali raggiunsero i piccoli accampamenti nemici a guardia della catena: li sopraffecero e riuscirono ad abbassarla. Primo ostacolo superato. Poi la flottiglia giunse al ponte e alle torri: Belisario fece accostare la grande torre al ponte e i suoi uomini fecero cadere una tempesta di frecce sui Goti, che restituirono colpo su colpo. Mentre la battaglia infuriava, Belisario fece accostare i battelli con la grande torre alla fortezza nemica sul lato alla sua sinistra, di fianco alla strada che congiungeva Porto a Roma. La scialuppa con il materiale incendiario fu data alle fiamme e poi con un argano fu abbattuta sulla torre nemica. L’equivalente dell’altofuoco del trono di spade esplose in tutta la torre all’impatto, bruciando l’intera struttura in pochissimo tempo e carbonizzando 200 difensori al suo interno: anche il comandante dei Goti, un certo Osda, perì nell’incendio. Il secondo ostacolo sembrava quasi superato. In quel mentre arrivarono rinforzi dagli assedianti, perché Bessa si era rifiutato di fare una sortita e quindi Totila aveva avuto occasione di muovere i suoi. I Goti furono però accolti da una pioggia di frecce provenienti dalla torre e messi in fuga.

Il trionfo sembrava a un passo, e se tutto fosse andato secondo i piani si sarebbe trattato del più incredibile successo di Belisario. Non era però destino: giunse notizia al generalissimo che il comandante della guarnigione di Porto era stato sconfitto: Belisario non poteva permettersi di perdere il suo punto di accesso al mare e, disperato, diede ordine di ritirarsi per riconquistare Porto. Giunto qui, trovò però che la fortezza non era affatto caduta: si era trattato di un equivoco. Il locale comandante della guarnigione aveva deciso di venire in soccorso di Belisario, forse perché voleva menare le mani, ma la sortita era stata intercettata e distrutta dai Goti. Porto però era e restava in mani imperiali.

Belisario andò su tutte le furie: era consapevole di aver perduto un’occasione irripetibile di rifornire la guarnigione di Roma, ora i Goti avrebbero rafforzato la guardia sul fiume e lui non aveva i numeri per forzare la strada. A spargere sale sulle ferite, Belisario si ammalò e fu per settimane sul punto di morte, forse a causa di madame Yersinia Pestis. Nel delirio, Belisario comprese che la battaglia era perduta.

La caduta di Roma

Presto anche dentro Roma ci si rese conto che era la fine: la guarnigione era allo stremo. Bessa oramai si curava più che altro di riempirsi le tasche saccheggiando quanta della ricchezza rimovibile era rimasta a Roma, abbandonata dai suoi abitanti. Bessa non si curò più di ruotare i soldati a guardia delle porte, né c’erano più cittadini romani capaci di dare manforte, visto che erano rimasti davvero in pochi dopo la partenza della maggior parte di loro. Alla porta Asinaria, nei pressi di San Giovanni in Laterano, c’erano dei soldati isaurici che abbandonarono il loro posto e si recarono da Totila, offrendo di aprire le porte della città. Totila si assicurò che questi non mentissero, volendo evitare che si trattasse di un trucco del nemico, ma quando fu convinto della sincerità degli Isaurici diede l’ordine di attaccare.

L’antica basilica di San Pietrio: qui avvenne l’incontro tra Totila e Pelagio (nota: questo è l’aspetto nel XIV secolo, ma nel VI non era molto diverso)

Era la notte del 17 dicembre del 546: gli isaurici, coadiuvati da alcuni coraggiosi guerrieri Goti, entrarono dentro la porta e spezzarono la traversa che la bloccava, aprendola. A quasi dieci anni esatti dall’ingresso di Belisario in città, dalla stessa identica porta, Totila marciò con i suoi dentro l’antica capitale, resa cavernosamente silenziosa dall’abbandono degli abitanti. Totila diede ordine ai suoi di restare tutti uniti e in buon ordine, sempre temendo un’imboscata. Ma non c’era nulla da temere: la notizia svegliò presto la città e si diffuse il panico, ingigantito dalle tenebre. Bessa si diede alla fuga con i suoi, dalla parte opposta della città, come avevano fatto i Goti dieci anni prima, la sorte a volte può essere beffarda. Con Bessa partirono alcuni dei senatori, ma altri si rifugiarono dentro San Pietro, forse stanchi di tanto patire. I loro nomi ci sono noti: Olibrio, Massimo, Oreste, tutti nomi della grandezza perduta della città. Procopio riporta che in tutta Roma non erano rimaste che cinquecento persone, solo una manciata di loro perì durante la presa della città.

Quando venne l’alba, Totila si recò a pregare a San Pietro. Sulle gradinate trovò il diacono Pelagio, con in mano le sacre scritture. Procopio riporta il loro discorso, che – seppur inventato – non credo fosse distante da quella che fu la realtà. Pelagio implorò il Re conquistatore risparmia i tuoi prigionieri, o signore!. Totila lo guardò tranquillo, rispondendo: “Adesso finalmente, Pelagio, tu vieni a supplicarmi. Eri di altro parere tempo fa”. Perché Dio mi ha fatto tuo schiavo. Risparmia i tuoi schiavi, mio signore. Totila guardò con calma il prelato, poi gli disse. Né tu, né nessun altro ha nulla da temere da me”. E fu così: gli uomini che si erano rifugiati nelle chiese furono lasciati in pace, anche se i soldati dei Goti si accanirono su quante ricchezze riuscirono a raccogliere. Dopo non molto, Totila ricevette la notizia che un grande deposito d’oro e preziosi era stato ritrovato: si trattava del ripostiglio di Bessa, che non aveva potuto svuotarlo nella fretta di abbandonare Roma. Poi al Re fu portata un’anziana signora: Rusticiana, la moglie di Boezio che aveva fatto abbattere tutte le statue di Teodorico dieci anni prima, alla conquista della città da parte degli imperiali. Totila però le fece salva la vita, cercando forse di rompere il ciclo d’odio che si trascinava da più di venti anni tra il suo regno e la fazione pro-imperiale a Roma. Procopio riporta che il Re fece proteggere le donne, nessuna delle quali dovette subire stupri come di solito avveniva nel corso di un saccheggio. Lo status di Totila tra gli italiani continuò a crescere: era forse questo re un degno erede di Teodorico?

Procopio riporta un celebre discorso di Totila ai suoi, dopo la conquista della città. Le parole vere non furono certamente queste, ma mi immagino che rispecchino il pensiero di Totila, quindi intendo riportarne un passo: “fino a non molto tempo fa, noi eravamo una massa di decine di migliaia di ottimi guerrieri, avevamo mezzi, cavalli, armi e godevamo del consigli di molti uomini anziani e saggi. Eppure fummo sconfitti da cinquemila greci e siamo stati ingiustamente privati del regno e di tutto quanto era nostro. Adesso noi, invece, sebbene ridotti a pochi, senza armi, in condizioni miserevoli, privi di qualunque risorsa abbiamo avuto la fortuna di sgominare più di ventimila nemici. Abbiamo perso allora perché ci eravamo comportati male nei confronti dei nostri sudditi italiani e Dio ci aveva abbandonato. Dio è al fianco di chi non commette il male, non di colui che è ingiusto e tracotante! L’insegnamento di questo conflitto è dunque chiaro: voglio che il nostro popolo si comporti con giustizia, moderazione ed equità. Mi pare chiara la politica di Totila: occorreva ricostruire un modus vivendi con gli italiani e doveva imprimere a fuoco nei suoi uomini che dovevano dimostrarsi superiori ai rapaci imperiali, in modo da conquistare il cuore della popolazione latina dell’Italia.

Totila, Re d’Italia, padrone di Roma, si reca in Senato

Poco dopo, Totila fece riunire quello che restava del Senato, e si recò nell’assemblea. Dice Procopio: Li redarguì e li biasimò aspramente perché, pur avendo ricevuto molti favori da Teodorico e Atalarico, pur avendo ricevuto cariche pubbliche e aver quindi condiviso il governo dello stato, liberi di godere delle loro considerevoli ricchezze; tuttavia, si erano comportati con tanta ingratitudine nei confronti dei Goti, loro benefattori. Non solo, chiamando i Greci contro la loro patria avevano condotta un’inqualificabile ribellione, a proprio danno, divenendo in tal modo, per un’improvvisa follia, traditori di loro stessi. Quali mali avevano subito per mano dei Goti e quali benefici avevano invece ricevuto da Giustiniano? Come ringraziamento erano stati destituiti di ogni potere ed erano stati umiliati dagli esattori fiscali, che li avevano tassati in tempo di guerra allo stesso livello di quanto pagavano in tempo di pace.”

Certo, non sono parole del tutto generose: ignorano l’uccisione di Boezio e Simmaco, o la follia del regno di Teodato, ma nel complesso le accuse di Totila, a posteriori, suonano corrette. Chissà quanti senatori italiani, qui e altrove, avrebbero pagato per poter tornare al 534. Quando l’Italia non conosceva guerra, pestilenze e carestie, quando i carri correvano nel circo, l’acqua scorreva negli acquedotti, le navi scaricavano provviste da tutto il mondo nei porti di Roma, Ravenna, Napoli e Siracusa, quando a governare l’Italia erano gli italiani, italiani di origine gota o italiani di origine latina, non dei signori della guerra di Costantinopoli. Totila lasciò che il silenzio rimbombasse nella sala dopo le sue parole, poi chiese che Pelagio e il caput senatus, di nome Teodoro, si mettessero in viaggio per Costantinopoli.

Era arrivato il tempo di trattare con Giustiniano, per porre fine alla guerra.

Cosa ci aspetta nell’episodio 79?

Nel prossimo episodio, Giustiniano non tratterà la fine della guerra, che continuerà a devastare la penisola in ogni suo angolo. Roma passerà ancora di mano, due volte, la guerra si estenderà sulle isole e sul mare. Ovunque la falce della morte e della distruzione continuerà a mietere vittime, in un’Italia sempre più silente sotto il freddo cielo di questi gelidi anni di peste, guerra e carestia.

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