Episodio 79, la guerra va a sud – testo completo

Nel bel romanzo “il canto del Germano” di Francesco Brocchi, ambientato in questa cupa guerra greco-gotica, ad un certo punto il Goto Ragnaris chiede ad un soldato Unno al soldo degli imperiali perché a loro avviso i Goti non riescono a vincere. “perché non sapete fare la guerra” – risponde l’Unno – “non sapete né conquistare né tenere una città, vi manca l’astuzia per il combattimento urbano, il sangue freddo e la Poliorcetica”. Ragnaris, con tristezza, ammette che ha ragione: “se non fosse stato per la peste, avremmo già perso”.

In questo episodio, Totila farà di tutto per dimostrare che l’Unno ha torto, per convincere i suoi che c’è ancora una speranza di vittoria, che si può ancora convivere con l’Impero dei Romani. la guerra si estenderà questa volta all’Italia del sud, una regione ancora relativamente risparmiate dalla guerra. Perché l’unica cosa che conta davvero è portare Giustiniano sul tavolo della pace: per farlo Totila dovrà neutralizzare Giovani il sanguinario e sconfiggere il più grande di tutti, Belisario.

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La prima ambasciata di Totila

Totila, dopo aver preso Roma, aveva inviato Pelagio e il caput senatus Teodoro a Roma, con il compito di negoziare con l’imperatore una fine della guerra. Con loro portarono un messaggio scritto del Re, che diceva: “Ti vogliamo chiedere di concedere anche a noi i vantaggi di un pacifico accordo. A questo proposito, ricordiamo il bellissimo esempio di Teodorico e Anastasio, i quali hanno regnato non molto tempo fa e hanno fatto prosperare i loro regni nella pace e nel benessere. Se anche tu desideri altrettanto, sarai da me considerato come un padre e potrai servirti di noi come alleati contro chiunque vorrai”.

Era un messaggio deferente e che puntava a ricostruire la pace con l’Impero, riconoscendo l’imperatore come l’autorità suprema del mondo romano. Giustiniano lesse il messaggio, ascoltò le proposte degli ambasciatori e quindi li congedò immediatamente dando solo questa risposta: aveva affidato il corso della guerra a Belisario, solo lui aveva l’autorità per trattare con Totila. Tradotto: non sei al mio livello, sei solo un ribelle che può negoziare la resa con il mio generale. Per Giustiniano il regno dei Goti era finito quando Witigis aveva consegnato Ravenna, con quell’atto si era estinto legalmente: Totila era solo un capobanda di ribelli.

Giustiniano nel celebre mosaico di San Vitale

L’origine degli Slavi

Nel frattempo, in Italia, il nobile meridionale che si era alleato con Giovanni – ve lo ricordate? Si chiamava Tulliano – decise di arruolare tra i suoi contadini un piccolo esercito per mettersi a guardia dei passi che conducevano in Lucania, in modo da bloccare il ritorno di Totila. Assieme a loro c’erano trecento guerrieri slavi, che Giovanni aveva portato con sé dai Balcani. Si avete sentito bene: è la prima volta che parlo di guerrieri slavi. Credo valga la pena introdurre questo agente della storia medievale che oggi costituisce uno dei tre terzi linguistici in cui è grosso modo divisa l’Europa.

L’origine degli Slavi è un argomento molto controverso e sul quale non c’è alcun consenso: quasi tutti i paesi slavi si contendono l’origine di questo gruppo. Nella storia entrano proprio grazie a Procopio e i suoi contemporanei, nessun autore romano li cita prima di questa data. Procopio in particolare parla di due popoli slavi: gli Anti e gli Sclaveni.

Sembra appurato da studi linguistici che la lingua proto-slavica sia parente prossima del proto-baltico; quindi, gli slavi erano probabilmente originari dell’Europa centrale. L’area più probabile è quella della Moravia, nella moderna repubblica Ceca. Gli archeologi hanno anche trovato una cultura materiale associabile agli slavi: la cosiddetta cultura di Praga-Korchak, caratterizzata da resti poverissimi e che si estende dalla repubblica Ceca fino all’Ucraina occidentale. È caratterizzata da ceramiche molto semplici, villaggi di non più di una decina di case, composte da una parte scavata nel terreno e una parte in legno sovrastante. Si tratta di un livello di cultura materiale molto inferiore a quello prevalente nell’area un paio di secoli prima e associata tradizionalmente con i popoli germanici, Vandali e Goti sopra tutti: ricorderete che questi avevano grandi villaggi, una metallurgica sviluppata e addirittura produzioni avanzate come il vetro.

Ilustrazione moderna di Perun, dio del fulmine, principale dio del Pantheon degli antichi Slavi

Sono state avanzate molte tesi per spiegare questa apparente regressione della civiltà nell’Europa centrale: in generale, sembra legata al collasso della civiltà germanica – fiorita tra il I e il V secolo – in seguito all’invasione dell’area da parte degli Unni. L’idea che mi sono fatto è che quelli che un giorno saranno chiamati come slavi erano da sempre nella regione e furono anzi conquistati dagli espansionistici germani durante la loro migrazione verso oriente. I Germani – Goti, Vandali, Burgundi – erano la casta militare di questi territori ma, quando molti di loro finirono a servire gli Unni o scapparono nell’Impero romano, le popolazioni proto-slaviche restarono. In un’Europa centrale regredita verso lo status della sussistenza, gli Slavi si adattarono alla nuova realtà, vivendo nelle foreste e in modo semplice, adorando il loro Dio del fulmine e del tuono, Perun. Con il tempo divennero dei feroci guerrieri, molto adatti soprattutto a combattere nei terreni più accidentati. Se i Romani e i Germani percepivano delle montagne o delle foreste come degli ostacoli insormontabili, gli Slavi riuscivano a penetrare in forze, filtrare nelle retroguardie del nemico e attaccarlo di sorpresa. Presto la frontiera del Danubio inizierà a subire i loro attacchi: i Balcani non saranno mai più gli stessi.

La guerra va a sud

E ora andiamo a sud, come l’Anello del potere dopo Isengard, e torniamo ora a Tulliano, i suoi contadini guerrieri e gli Slavi. Totila inviò in Lucania un piccolo esercito, ma questo fu annientato dagli uomini di Tulliano, con il determinante contributo degli Slavi. A questo punto Totila decise che avrebbe dovuto regolare la questione con Giovanni il sanguinario e Tulliano di persona: si accinse quindi ad abbandonare Roma. Era consapevole però di non avere le forze per tenere Roma e in contemporanea affrontare i nemici sul campo: il suo vantaggio principale era di avere il più grande esercito mobile d’Italia, se avesse iniziato a frammentarlo cercando di presidiare il territorio presto questo vantaggio sarebbe svanito e si sarebbe tornati allo stallo, che Totila non poteva permettersi: il tempo era dalla parte dell’Impero.

Se non poteva presidiare Roma, ma era costretto ad abbandonarla per affrontare Giovanni, l’alternativa era una sola: distruggere la possibilità per gli imperiali di tenere Roma. Procopio riferisce che Totila pianificasse di distruggere e radere al suolo l’intera città, ma questo è altamente improbabile e fuori carattere, un’azione di tale gratuito vandalismo avrebbe fatto rivoltare l’intera penisola contro Totila. Quello a cui allude Procopio credo fosse una politica molto più prosaica e molto più efficace, già attuata da Witigis e dallo stesso Totila: abbattere le mura della città. Senza le mura, gli imperiali non avrebbero potuto rioccupare Roma e tenerla di fronte al suo superiore esercito da campo.

Porta Asinaria, a Roma, una delle più belle e meglio conservate dell’intero circuito. Così dovevano apparire le mura ai tempi della guerra greco-gotica

Procopio riferisce di come Belisario scrisse a Totila per dissuaderlo dai propositi di distruzione, e gli mette in bocca delle parole che sembrano molto moderne: “ora di tutte le città esistenti sotto il sole, per generale riconoscimento Roma è la più grande e la più famosa. E non è stata costruita per la volontà di un solo uomo, né in pochi anni, ma è stata una lunga serie di imperatori e generazioni di uomini valenti a rendere possibile che si adunassero in essa tutte le opere d’arte più belle del mondo. Essi hanno lasciato un segno della propria eccellenza per le genti future, tanto che un insulto a questi monumenti apparirebbe senza dubbio un grave crimine ai danni degli uomini di ogni tempo”. Dubito che Belisario scrisse questa lettera, ma le parole di Procopio sono forse un testimone dell’indole del nostro storico, vibrano di amore per l’arte e il passato con la passione che doveva animare Procopio: un uomo del sesto secolo, che vedeva molto del passato cadere nell’oblio e che con tutte le sue forze voleva preservarlo. Molta dell’animosità nei confronti di Giustiniano che gronda dalle pagine delle storie segrete si spiega con il fatto che Procopio vedeva nell’Imperatore un’agente distruttivo delle tradizioni, della bellezza e della cultura degli antichi.

Totila non distrusse Roma, ma danneggiò in parte le sue mura: forse ci fu davvero un’esortazione da parte di Belisario che lo convinse a non abbatterle completamente, quello che era stato probabilmente il suo proposito originale. Nella mentalità del sesto secolo, una città senza mura non era davvero una città e non poteva restare a lungo un grande centro urbano: in questo modo credo si spieghi l’affermazione di Procopio che “Totila intendeva distruggere Roma”.

Dopo aver danneggiato circa un terzo del circuito murario, Totila lasciò una piccola guarnigione sul monte Algidus, l’odierno monte Ceraso, sopra Velletri, in modo da controllare i movimenti di Belisario. Con il resto dell’esercito mosse contro Giovanni, portandosi dietro anche i senatori di Roma. Procopio sostiene che la città di Roma, all’inizio del 547, rimase completamente deserta: se fu così, si trattò dell’unico caso nella sua storia plurimillenaria.

Guerra, guerra ovunque

Giovanni non restò in attesa del suo nemico, ma si rifugiò ad Otranto. Nel frattempo Totila costrinse i senatori sotto il suo controllo a scrivere a tutti i loro contadini e coloni sparsi nel sud Italia una lettera. Procopio ne narra il testo: “Mandarono allora in Lucania alcuni loro servi per invitare gli agricoltori della regione, loro dipendenti, a desistere dalla difesa del passo e a tornare a coltivare le proprie campagne come avevano sempre fatto, riferendo loro che avrebbero potuto tenere per sé i prodotti della terra che sarebbero spettati ai proprietari”. Era l’offerta che Totila aveva già fatto: fedeltà alla corona in cambio dell’indipendenza dai loro padroni, ma è probabile che questa offerta non fosse arrivata ancora alle loro orecchie, perché i latifondisti si erano guardati bene dall’informarli.

Esercito romano ai tempi di Giustiniano

Immagino che Tulliano avesse convinto i coloni e contadini a combattere per lui dicendo che stavano combattendo per l’Impero romano e contro un barbaro usurpatore. Ma cos’erano questi vaghi concetti ideali a paragone della proprietà sulla loro terra? A quest’annuncio le forze di Tulliano si dissolsero nel vento e l’intero meridione tornò sotto il controllo di Totila: Tulliano fu sconfitto, Giovanni dovette rinchiudersi ad Otranto. Totila decise di fare base sul Gargano, per coordinare le operazioni nel mezzogiorno.

Nel frattempo gli imperiali provarono a tornare all’offensiva in Umbria. A Spoleto i Goti avevano abbattuto le mura cittadine ma avevano fortificato l’anfiteatro per renderlo una fortezza presidiabile da un piccolo drappello di soldati, alcuni Goti e molti disertori imperiali. Grazie al tradimento di alcuni di loro, l’Unno Oldogan – il comandante imperiale di Perugia – riuscì a riconquistare Spoleto agli imperiali.

Belisario invece, presi mille uomini della sua guarnigione di Porto, decise di andare ad ispezionare la deserta Roma. Appena uscito però, i contadini del Lazio – beneficiati da Totila grazie alle sue riforme economiche – si recarono immediatamente ad avvertire il presidio Gotico a Velletri. I Goti tesero diverse imboscate agli imperiali che, dopo duri combattimenti, furono costretti a ritirarsi a Porto.

Belisario “riconquista” Roma

Giovanni invece decise di continuare la guerra di posizione realizzando un’altra fortezza con la quale presidiare il sud Italia: con alcuni uomini si recò a Taranto, che allora come oggi era costruita su una piccola isola nel golfo, che divide quello che i tarantini chiamano il Mar Grande dal Mar piccolo. La città non aveva assolutamente delle mura “moderne”, ovvero con la tecnologia superiore del sesto secolo, ma Giovanni fece iniziare immediatamente dei lavori di fortificazione, raccolse tutta la popolazione tarantina e del circondario nell’isola e vi mise un forte presidio, che fungesse da spina nel fianco dell’esercito italiano.

Totila, per tutta risposta, fortificò la città di Acherontia, l’odierna Acerenza, in Basilicata, vi lasciò 400 uomini a controllare Giovanni e con il resto mosse contro Ravenna.

Acerenza: cattedrale romanica, costruita sui resti della chiesa paleocristiana

Nel frattempo Belisario, nelle parole di Procopio “meditò un progetto molto audace e lungimirante, che da principio sembrò pazzesco a tutti coloro che ne udirono parlare ma che poi si rivelò invece un’idea geniale ed ebbe un risultato di straordinaria importanza”. Di cosa si trattava? Ma di rioccupare Roma, ovviamente.

Belisario guidò tutti i suoi uomini nell’abbandonata metropoli e poi li mise farneticamente al lavoro, facendogli accumulare pietre, rocce e pezzi di edifici nei varchi creati dagli abbattimenti di Totila. Poi fece piazzare una palizzata di fronte ai tratti di mura riparati frettolosamente, mentre era ancora presente il fossato che aveva fatto scavare dieci anni prima, durante il precedente assedio di Roma. Di fronte alle danneggiate porte, furono piazzate le munitiones, i cavalli di frisia dell’esercito romano utilizzati per tenere lontani i cavalieri nemici.

In soli 25 giorni il lavoro era completato: quando Totila venne a conoscenza della cosa, durante la sua marcia verso Ravenna, accorse immediatamente verso Roma ma fu furioso di trovare che Belisario aveva già fortificato la città e vi si era rinchiuso dentro, con tutte le provviste necessarie a sostenere un assedio. La vista della città così faticosamente conquistata di nuovo nelle mani imperiali mandò su tutte le furie Totila, che lanciò uno dei suoi rari assalti frontali. Normalmente il Re dei Goti utilizzava con estrema parsimonia le sue forze, consapevole che dovessero durare nel lungo periodo. Narra Procopio: “I barbari avevano sperato di espugnare la città al primo assalto, pieni d’ira si erano messi ad aggredire gli avversari con un furore che li rendeva coraggiosi al di là delle loro forze, mentre i Romani controbattevano con inusitata energia perché il pericolo li rendeva più coraggiosi”.

Alla fine i Goti si ritirarono, sconfitti: Il giorno seguente Totila lanciò di nuovo i suoi all’attacco, ma gli imperiali riuscirono nuovamente a respingere i nemici, che subirono molte perdite e trascinarono negli accampamenti una gran quantità di feriti. Per la prima volta Totila era stato sconfitto.

La risposta di Totila allo smacco di Belisario, che sembrava essersi fatto beffe dei Goti rioccupando la città che avevano conquistato con così grandi fatiche, ebbe un effetto sul morale dei suoi uomini. Totila si ritirò a Tivoli e fece abbattere tutti i ponti sul Tevere a nord di Roma, in modo da ostacolare i movimenti di Belisario. I nobili e i comandanti dell’esercito si presentarono però a Totila, lamentando la sua conduzione della guerra. A questo punto della storia, è evidente che per Procopio Totila è una sorta di eroe: Procopio arriva a lamentarsi dell’ingratitudine dei suoi sottoposti “tale è la natura degli uomini, modificano continuamente il giudizio delle persone in base al risultato delle loro azioni e si lasciano guidare dal capriccio del caso. Ma incoerenze di tal genere sono inevitabili, perché sono dovute alla natura umana”.

Spero anche voi troviate curioso che Procopio tratti con tale ossequio un nemico dei Romani, anche se va detto che in – in quanto nemico di Giustiniano – forse aveva dei punti-simpatia con Procopio. In generale, è qualcosa che sbigottisce, innanzitutto perché il governo di Giustiniano non si preoccupò di censurare l’opera, che era evidentemente popolare tra le élite orientali, in secondo luogo perché Procopio poté permettersi atteggiamenti antipatriottici senza paura di essere censurato dalla corte dei suoi pari, la classe senatoriale dell’Impero. Ne deduco diverse cose: innanzitutto, evidentemente Giustiniano e le sue guerre erano molto impopolari, almeno in una presso una larga fetta della classe dirigente orientale. Secondo: Giustiniano si curava molto di cosa pensassero vescovi e prelati, appassionato com’era di teologia, ma della storiografia classicheggiante nello stile dei pagani non sapeva cosa farsene. Probabile che non lesse mai l’opera di Procopio.

Di fronte all’insoddisfazione dei suoi nobili, Totila avrebbe redarguito i suoi uomini ricordandogli con parole chiarissime come li aveva trovati: sconfitti e rassegnati. Il discorso di Totila è una delle pagine più belle di Procopio, anche se inventato – come al solito – mi piace immaginare che le cose non andarono tanto diversamente: “Vedo che voi, miei compagni d’arme, nutrite contro di me un ingiustificato rancore. È normale che nelle vicende umane si debba qualche volta registrare un insuccesso. Credete davvero che Belisario abbia riportato su di voi una gloriosa vittoria? Su di voi che avete preso le armi con me, come vostro capo, sebbene già ridotti alla condizione di prigionieri di guerra e fuggiaschi, e avete dimostrato più volte di saperlo sconfiggere in combattimento? Non commettere mai errori, in nessun momento, è prerogativa solo di Dio.

Totila contro Giovanni il sanguinario

Totila aveva notato che Giovanni e Belisario non erano in accordo tra loro: non avevano mai congiunto i loro eserciti, si decise quindi ad affrontarli uno alla volta. Prima di tutto però intendeva prendere Perugia, caposaldo imperiale nelle sue retrovie. Mentre era preso da questo assedio, gli giunse però notizia che Giovanni aveva colpito ancora.

Porta Marzia a Perugia: segue l’antico tracciato delle mura romane.

Giovanni aveva infatti ideato un altro dei suoi piani arditi: prese il migliaio di cavalieri d’élite al suo comando e si fiondò dalla Lucania in Campania, con l’obiettivo di liberare i senatori prigionieri di Totila. Anche questi aveva inviato un drappello di 400 cavalieri in Campania, con l’obiettivo di controllare la situazione: inavvertitamente, i due piccoli eserciti si incontrarono a Minturno, sul Garigliano, e qui si scatenò una dura battaglia. I Goti, in inferiorità numerica, furono annientati. Poco dopo Giovanni riuscì a raggiungere i senatori e a liberarli: un obiettivo importante, visto che ormai la causa imperiale era sposata a quella della classe dirigente senatoriale, vista la politica di Totila che puntava a liberare i contadini italiani delle loro obbligazioni nei confronti dei padroni.

Giovanni spedì i senatori in Sicilia, meno un paio che restarono in Italia perché probabilmente filo-gotici. A questo punto Giovanni si ritirò nuovamente in Lucania, mettendo il suo accampamento in una località che riteneva facilmente difendibile, circondata da montagne e con una stretta via di accesso: probabilmente qualche località nel Vallo di Diano, quella che oggi è la parte meridionale della provincia di Salerno.

Totila però aveva immediatamente abbandonato l’assedio di Perugia alla notizia dell’impresa di Giovanni: era deciso a non aggiungere un’altra beffa a quella fattagli da Belisario. Fece passare il suo esercito per vie secondarie e inaccessibili, fino a far sgattaiolare i suoi 10.000 uomini fino alle retrovie di Giovanni: vi giunse di notte e, per impedirgli di scappare, Totila diede l’ordine di attaccare con il buio. Nella confusa battaglia che ne seguì, molti degli uomini di Giovanni riuscirono a sfuggire alla trappola con il favore delle tenebre, disperdendosi nei monti. Il suo esercito però, se così si può chiamare, non esisteva più.

Giustiniano non vuole perdere

Belisario aveva scritto un’altra lettera disperata a Giustiniano, questi si convinse quindi ad inviare dei rinforzi in occidente, visto che la tregua con Khosrau reggeva: forse non poteva vincere la guerra in Italia, ma era determinato a non perderla. Arrivarono trecento Eruli, ottocento armeni e il Magister Militum dell’Armenia, Valeriano, con mille dei suoi bucellari. Questi sbarcarono in Puglia, ostacolati solo in parte dagli uomini di Totila, e finirono per convergere verso Taranto, dove arrivò anche Giovanni il sanguinario in seguito alla sua sconfitta.

Giustiniano aveva informato Belisario dell’arrivo dei rinforzi. Il generalissimo decise di recarsi a Taranto per ricongiungersi con i nuovi arrivati: lo scopo di Belisario era sempre quello di mettere su un esercito sufficientemente numeroso da poter scendere in campo contro i Goti, cosa che ancora non aveva. Lasciò la maggior parte dei suoi uomini a Roma e con 900 dei suoi partì per Taranto via nave, facendo scalo in Sicilia ed evitando la flotta di Totila. Una tempesta però costrinse le sue navi a fare scalo a Crotone. La città non era difesa da mura, quindi Belisario mandò la maggior parte dei suoi uomini ad occupare la fortezza di Rossano Calabro, dove c’era una piccola guarnigione lì lasciata da Giovanni.

Totila però non dormiva e, sempre per vie nascoste, giunse a Rossano con tremila cavalieri. I soldati di Belisario erano in quel momento all’esterno della fortezza e furono sconfitti e ricacciati dai guerrieri di Totila. Gli imperiali se la diedero a gambe in direzione di Crotone. Quando Belisario lo seppe, fece immediatamente salire sulle navi gli uomini che gli restavano e se ne tornò a Messina. Finì così il 547, un anno confuso della guerra dove entrambi i contendenti avevano ottenuti vittorie e rovesci ma che nel complesso aveva solamente portato altra miseria e distruzione all’Italia, allargando la guerra al sud della penisola, ora percorso dagli eserciti in lungo e in largo.

Antonina in missione

Durante l’inverno Belisario deve aver pianificato le prossime mosse, perché all’inizio della primavera era già ad Otranto, dove arrivarono altri 2000 soldati inviati in soccorso della guerra italiana da parte di Giustiniano, che non poté inviare più soldati perché le nubi della guerra tornavano ad addensarsi sulla Lazica, mentre la guerra continuava a tenere occupato un largo contingente imperiale in Africa: ricordo sempre che l’Italia era solo uno dei tre teatri di guerra in corso.

Belisario aveva però un’arma segreta da inviare a Costantinopoli per negoziare per conto suo: sua moglie Antonina, la principale confidente di Teodora. Belisario sperava che Antonina riuscisse ad intercedere con Teodora e Giustiniano, altrimenti il generalissimo disperava di poter ricavare alcunché dalla guerra in Italia.

Antonina giunse a Costantinopoli ma quello che trovò fu un’imperatrice malata: nella totale costernazione di Giustiniano, Teodora si stava consumando, probabilmente affetta da un cancro. Il 28 giugno del 548 la più grande imperatrice dei Romani passò nel mondo dei morti, con sé prese anche la gioia di vivere di Giustiniano. L’imperatore rimase completamente affranto, in un mondo dove le unioni erano più pratiche che ideali, lui aveva trovato la sua regina del cuore e della mente. più di vent’anni prima aveva rischiato tutto pur di averla al suo fianco, poi era stata lei a proteggere lui, in particolar modo durante la crisi di Nika e quando Giustiniano si ammalò di peste. Ma l’influenza di Teodora non si era limitato a questo: l’impronta dell’imperatrice era ovunque, nella legislazione, nelle opere pubbliche, nella politica estera e religiosa: diversi episodi fa ho fatto riferimento a come cambiò la legislazione riguardo lo status delle donne, utilizzando la sua notevole influenza per proteggere i diritti di vedove e figlie. Re e Regine di ogni parte del mondo avevano scritto a lei direttamente, Teodora aveva acquisito un ruolo politico che aveva supremamente irritato i senatori della classe di Procopio, tradizionalisti e misogini. La sua influenza fu talmente pervasiva che non è possibile sapere dove inizia Giustiniano e finisce Teodora. Il suo mosaico a Ravenna, così evidentemente e scandalosamente paritario rispetto al marito, è simbolico della sua importanza e rilevanza. L’impero, in ogni aspetto, finora aveva avuto due imperatori.

Ma importanza e rilevanza non vuol dire che la sua influenza fu sempre positiva: difese aggressivamente il suo trono da nemici veri e presunti. La sua rivalità con Giovanni il Cappadoce e Belisario, gli altri grandi della corte di Giustiniano, finì per divorare il primo e screditare il secondo. C’è da chiedersi, in questo caso, se davvero la volontà dell’imperatrice fu un valore aggiunto. Sono invece convinto che sia nel complesso ingenerosa un’altra critica che viene spesso fatta nei suoi confronti – quella di aver sostenuto a spada tratta i monofisiti, prevenendo una ricomposizione dello scisma. Come ho avuto più volte modo di dimostrare, le azioni della coppia imperiale sembrano prese all’unisono, con l’obiettivo di sanare la spaccatura nella chiesa imperiale seguita al concilio di Calcedonia.

In definitiva Teodora resta un mistero: una donna potente e temuta, che era riuscita ad elevarsi davvero dalle più umili origini possibili fino alle vette più alte della società romana, attirandosi le invidie di molti ma rimanendo sempre un passo davanti a loro. Aveva regnato per ventuno anni e tre mesi, Augusta di nome e di fatto. Il suo nome non passerà mai nell’oblio.

Niente di nuovo sul fronte occidentale

Il 548 fu un anno disperato per le forze imperiali: la guarnigione di Roma si rivoltò contro il suo comandante Conon e lo uccise, accusandolo di aver fatto la cresta sulle loro provviste di grano. I rivoltosi inviarono un messaggero a Costantinopoli, chiedendo un’amnistia e soprattutto la paga arretrata che Giustiniano gli doveva. La minaccia era semplice: in caso contrario avrebbero consegnato Roma a Totila. Giustiniano si piegò alle loro richieste.

Mappa dei movimenti di forze di questo episodio

Nel frattempo Totila assediava gli imperiali rimasti nella fortezza di Rossano Calabro, dove c’erano anche diversi personaggi importanti, tra i quali Tulliano, il latifondista meridionale che si era alleato con Giovanni. Totila offrì il suo solito patto agli assediati: se non avessero avuto rinforzi entro metà estate, avrebbero consegnato la fortezza.

Belisario giunse ad Otranto e qui si riunì con Giovanni e Valeriano. Si trattava dei più importanti generali rimasti in Italia e che per la prima volta si riunivano in uno stesso posto. Il consiglio di guerra si decise a inviare una spedizione via mare nell’odierna Calabria, in modo da soccorrere gli assediati di Rossano. Quando si avvicinarono a Rossano, Totila fece però schierare i suoi uomini sulle spiagge, in modo da impedire lo sbarco: gli imperiali non se la sentirono di affrontare un esercito più numeroso in un attacco anfibio, sempre una manovra molto delicata per un esercito; quindi, si allontanarono per sbarcare invece a Crotone. Qui un secondo consiglio di guerra dei tre generali si decise a dividere di nuovo le forze: Belisario sarebbe tornato a Roma, per rimettere ordine alla situazione in città dopo l’assassinio di Conon, Giovanni con appena mille uomini avrebbe attraversato l’Italia verso il Piceno, in modo da attaccare i Goti che vivevano lì, cercando di distrarre Totila dall’assedio: una manovra che – ricorderete – era stata decisiva durante il primo assedio di Roma. Valeriano avrebbe ripreso il mare e si sarebbe recato ad Ancona, in modo da sbarcare nel Piceno anche i suoi uomini.

A Rossano è custodito un celebre manoscritto del VI secolo, un vangelo in greco su porpora con delle miniature magnifiche. E’ stato ritrovato solo nel XIX secolo.

Quando Totila seppe delle azioni degli imperiali, inviò duemila dei suoi cavalieri in Piceno in modo da contrastare Giovanni e Valeriano, ma tenne ben stretto l’assedio a Rossano: Totila, lo ho già detto, era di una pasta diversa da Witigis. Infine gli uomini assediati si arresero: come con tutti gli altri, Totila offrì agli imperiali la possibilità di arruolarsi nel suo esercito, chi non voleva lo lasciò andare disarmato e privo dei suoi beni. Solo ottanta soldati imperiali si allontanarono, gli altri si unirono a Totila. Tulliano e altri latifondisti italiani furono fatti prigionieri: anche loro ebbero salva la vita, ma Totila confiscò tutte le loro terre.

This is the end

Nel frattempo, Belisario giunse a Roma, in una città vuota e con una guarnigione riottosa e disperata. Era evidente che la città attendeva solo di cadere di nuovo. Per cinque anni Belisario si era affrettato a correre da un lato all’altro della penisola, sempre viaggiando via mare perché il territorio e i contadini erano dalla parte di Totila. Ravenna, Ancona, Otranto, Crotone, Porto, Roma, Messina…era stato un viandante in cerca di qualunque occasione per dare una svolta alla guerra. Aveva perso Roma, ma l’aveva anche riconquistata. Con la sua abilità era riuscito a mettere in stallo una guerra che gli imperiali avrebbero dovuto perdere già anni fa. Ma con le forze che Giustiniano era stato in grado di dargli, non c’era stata mai l’occasione di ribaltare la situazione. Senza contare che l’Imperatore era stato distratto dalla guerra persiana fino al 545: per pochi anni era sembrato che la guerra in Italia sarebbe presto tornata nelle priorità di Giustiniano, ma le cose erano già cambiate.

Nel 548, Khosrau decise di mettere a frutto la sua de facto conquista della Lazica. Innanzitutto ne aveva avuto abbastanza di Gubazes, il Re della Lazica che lo aveva invitato nel paese per liberarsi dei Romani e che sembrava già rimpiangere la sua decisione. Khosrau inviò degli uomini nel paese per assassinarlo. L’altra mossa, più strategica, fu di inviare una grande quantità di legname dalla Mesopotamia in Lazica, utile a costruire una flotta da mettere sul Mar Nero, in modo da contenderlo agli imperiali. Gli agentes in rebus romani non dormivano però: il carico di legname andò “misteriosamente” a fuoco e Gubazes fu avvertito del pericolo che correva. Il Re si convinse quindi a fare di nuovo voltafaccia, inviando un messaggero a Costantinopoli: era pronto a tornare sotto la protezione dei Romani, se Giustiniano lo avesse aiutato nella guerra contro i Persiani.

L’occhio dell’Imperatore – ogni riferimento a Sauron è del tutto casuale – era quindi fisso verso l’oriente quando Antonina e Belisario reclamavano rinforzi per la guerra in Italia. Quando Belisario venne a sapere che la guerra contro i Persiani sarebbe ricominciata, capì che non avrebbe mai cavato un ragno dal buco da questa guerra italiana. Già non riusciva ad avere rinforzi sufficienti ora, figurarsi quando l’Impero fosse stato di nuovo impegnato in una guerra totale in oriente. Belisario fece sapere a Giustiniano che chiedeva di essere richiamato in patria: era stanco della guerra in Italia e non credeva più che potesse essere vinta. Giustiniano gli accordò la possibilità di tornare a Costantinopoli. Sul finire di quell’anno, Belisario si imbarcò su una nave a Porto: non sarebbe mai più tornato in Italia

A Costantinopoli gli fu dato il ruolo di comandante della guardia imperiale, è probabile che mantenne un ruolo di consigliere politico di Giustiniano, che ne aveva certamente bisogno a causa della morte della moglie. La sua storia di comandante militare sarebbe però dovuta finire qui, e in parte fu così, salvo un’ultima avventura che non vedo l’ora di narrarvi.

La flotta dei Goti: la guerra sbarca sul mare

In Italia, nel frattempo, era caduta anche la fortezza di Perugia, una delle ultime città in mano imperiale. Poco dopo uno dei lancieri di Belisario – di nome Indulf, di chiara origine barbarica – si arrese a Totila e si offrì di mettere al suo servizio le sue notevoli doti di comandante navale. Totila gli affidò il compito di allestire una seconda flotta del regno, questa volta sul Mare Adriatico. Indulf si mise al lavoro e, prima della fine del 548, la flotta era pronta. Lo scopo di Totila era di continuare ad alzare il prezzo della guerra per Giustiniano: occorreva colpire regioni che erano state al riparo dalla guerra per portare l’imperatore sul tavolo delle trattative.

Indulf prese il mare e navigò verso la Dalmazia: qui saccheggiò un paio di città, in modo da attirare l’attenzione del Duca della Dalmazia, a Salona, che inviò la flotta imperiale dell’Adriatico per stanarlo, composta di decine di dromoni da guerra. Indulf però li attese in agguato e mandò la flotta imperiale in fondo al mare, per poi tornarsene in Italia. L’Impero non era più il padrone dell’Adriatico.

Il terzo assedio!

All’inizio della stagione di guerra del 549, Totila passò con il suo esercito ad assediare Roma, di nuovo: no, non siamo nel film “il giorno della marmotta”. Dentro la città erano rimasti 3.000 soldati imperiali. Totila riuscì però a prendere da subito Porto e bloccare i rifornimenti alla città, stringendo il cappio con la sua solita metodica efficienza. A Costantinopoli si era trasferita praticamente tutta la chiesa romana e buona parte della classe dirigente della città. In particolare Papa Vigilio fece notevoli pressioni su Giustiniano per intervenire in Italia, ma i due erano ai ferri corti per la questione dei tre capitoli, una storia che non posso raccontarvi qui perché merita il suo episodio dedicato. Basti dire che l’imperatore non era intenzionato in questo frangente ad assecondare gli italiani.

Assedio di Roma

L’assedio durò di nuovo lunghissimi mesi, Procopio riporta solo che diverse volte i Goti provarono ad assalire le mura, ma non sembra molto ben informato: sarebbe poco caratteristico di Totila, un Re che economizzava sempre i suoi soldati, evitando di perderli in inutili assalti alle mura. Totila era consapevole che i suoi uomini non erano degli specialisti di poliorcetica – ad essere generosi – quindi aspettava di solito che la sua grande alleata, la fame, facesse il suo corso.

Roma era ben rifornita di provviste, tutti si erano aspettati un nuovo assedio, ma quando l’estate finì assieme all’autunno, il cibo iniziò comunque a scarseggiare, mentre nessun soccorso arrivava da Costantinopoli, impegnata in una mortale guerra in Lazica contro i Persiani. Alla fine gli Isaurici – sempre loro – decisero di tradire la città: da anni non ricevevano la paga, erano affamati e sapevano come sarebbe finita questa faccenda, ora che l’inverno impediva alle navi di portare rinforzi da Nuova Roma. Gli Isaurici fecero sapere a Totila che erano pronti ad aprire la porta sotto il loro controllo, ovvero Porta San Paolo, dove la via Ostiense esce fuori dalle mura Aureliane, presso la Piramide di Caio Cestio.

Totila conquista Roma, di nuovo

La notte del 16 gennaio del 550, Totila mise in atto il suo piano per riprendere la città. Fece mettere sul Tevere due lunghe navi, cariche di soldati. Questi si avvicinarono alle difese cittadine da sud e diedero fiato alle trombe, segnalando alla guarnigione cittadina che un attacco era in corso presso il fiume a sud. La maggior parte delle forze in città accorse in quel punto, ma gli Isaurici ne approfittarono per aprire la porta e far entrare il vero esercito di Totila, che questa volta era determinato a distruggere la guarnigione romana. L’area sul Tevere era infatti molto vicina a Porta S. Paolo e l’esercito di Totila riuscì ad intrappolare il grosso degli imperiali lì, trucidandoli tutti. 400 uomini, al comando di un certo Paolo, riuscirono a scappare a cavallo fino al mausoleo di Adriano, sull’altro lato del Tevere, che come sappiamo era stato trasformato in fortezza. Qui riuscirono a resistere tutta la notte agli assalti dei Goti. Al mattino Totila in persona si presentò al Mausoleo e gli disse di non gettare via la vita: offriva loro la possibilità di tornarsene a Costantinopoli o di arruolarsi nel suo esercito. La maggior parte di loro, alla fine, di fronte alla clemenza del Re scelse la seconda opzione.

E così Totila, per la seconda volta, tornò in possesso di quello che restava di Roma.

Una nota interessante su questa seconda conquista di Roma da parte di Totila è che ne troviamo traccia nel Liber Pontificalis, la biografia dei Papi, di solito molto dura con i nemici della Chiesa. Saranno i vertici della chiesa romana, nei secoli seguenti, a costruire la leggenda del Totila sanguinario e distruttore, Totila eretico, Totila uccisore degli italiani, Totila devastatore dell’ordine sociale. Eppure nella biografia di Vigilio, Totila non è visto in questo modo: nel Liber si riporta che il Re fece suonare le trombe per avvertire la popolazione civile che la città era in procinto di essere conquistata, in modo da dargli il tempo di mettersi in salvo. Come detto sopra, non furono queste – probabilmente – le intenzioni del Re, ma che così furono percepite la dice lunga sulla sua vera fama presso i suoi contemporanei.

Totila cercò immediatamente di capitalizzare questa nuova vittoria: fece portare a Roma i senatori che erano ancora nelle sue mani e fece sapere che intendeva ripopolarla, sia con Romani che Goti. Vi fece trasportare provviste in modo da farvi tornare parte della popolazione e fece anche riparare per quanto possibile i danni degli ultimi anni. Fece perfino organizzare una corsa al Circo Massimo: i Bianchi, i Rossi, i Verdi e i Blu corsero in suo onore, mentre il Re si affacciava dagli spalti del palazzo imperiale. Per quanto ne sappiamo, fu l’ultima corsa del millenario circo, secondo Livio in uso fin dai tempi della Roma monarchica: Totila forse voleva simboleggiare un nuovo inizio, fu invece la fine.

Totila fece anche battere delle nuove monete d’oro a Roma: tutto questo sembrava declamare a tutti: sono un nuovo Teodorico, sono il legittimo Re di questo paese, sotto di me torneremo a tempi più felici. Poco prima Totila aveva chiesto ai sovrani dei Franchi di avere come moglie una principessa dei Merovingi, ma questi avevano risposto che non avevano alcuna intenzione di dare una principessa reale della casa di Clovis ad un pretendente al trono, uno che comunque non sarebbe mai stato davvero il Re d’Italia. Totila non era il legittimo Re d’Italia, non agli occhi di Giustiniano o degli altri Re del mediterraneo.

Solo la pace con l’Impero avrebbe garantito la sopravvivenza del regno. Totila inviò dunque per la seconda volta degli ambasciatori a Giustiniano, offrendo la Dalmazia e la Sicilia all’Impero, oltre che l’alleanza del Regno dei Goti e un tributo regolare ogni anno. Giustiniano si rifiutò di vedere l’ambasciatore di quel ribelle di Totila, anzi lo fece imprigionare.

La risposta di Giustiniano a Totila fu una sola: la guerra totale.

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