Salute e salve, e benvenuti alla Storia d’Italia! Episodio 71, Via Flaminia.
Nello scorso episodio abbiamo infine posto fine all’assedio e alla battaglia per Roma, anticipando però che la battaglia per l’Italia doveva ancora iniziare. Si tratterà di una guerra di nervi e di soldati combattuta tra Ravenna e Roma, nel campo di battaglia dell’Italia centrosettentrionale: la regione attraversata dall’asse portante del Regno, la Via Flaminia.
Milano sotto assedio, l’arrivo di Narsete, una battaglia sotto le porte di Rimini: in questo episodio la guerra dilagherà in tutta Italia. Eserciti percorreranno in lungo e in largo la penisola, sempre più dimentichi del vero dramma in corso.
Perché in tutto questo, mentre i principi giocano alla guerra, l’Italia muore di fame.
Il sistema sanguigno dell’Italia romana
Per comprendere i prossimi passi dobbiamo fare mente locale su quella che era la geografia dell’Italia centrale e settentrionale nella tarda antichità, perché sarà il principale teatro di guerra in questo periodo. Il centronord della penisola era diviso in varie province: la Venetia comprendeva il moderno triveneto, la sua metropoli era ancora Aquileia. Una delle regione che generano più confusione era la già citata Liguria, che non corrisponde affatto alla moderna Liguria ma alla Lombardia e al Piemonte a nord del Po, la capitale era Milano. La moderna Liguria e il Piemonte meridionale facevano parte della provincia detta Alpes Cottiae o Alpi Cozie, con capitale Genova. La moderna Emilia-Romagna era divisa tra la provincia dell’Emilia e la provincia detta “Flaminia” o “Piceno annonario”, con capitale Ravenna. L’Italia centrale era divisa principalmente in due regioni, la prima era la “Tuscia et Umbria” – praticamente le moderne Toscana e Umbria, assieme alla parte settentrionale del Lazio. La seconda era il Piceno mediterraneo, grosso modo le Marche e l’Abruzzo settentrionali. Un’ulteriore provincia, la Valeria, comprendeva Rieti e dintorni.

In queste regioni, ovviamente le località più strategiche erano posizionate nei dintorni delle principali vie consolari romane, oggi in gran parte ricalcate dalle autostrade moderne, anche se non del tutto. Oggi ad esempio l’asse viario principale passa per Firenze e Bologna, ed è questa la via più rapida per giungere a nord venendo da Roma. Al tempo dei Romani questo onore spettava invece alla via Flaminia, costruita dal console Gaio Flaminio Nepote, lo stesso che morì nel 217 avanti cristo nella disastrosa battaglia del Trasimeno, contro Annibale.
La Flaminia esce da Roma dalla porta omonima, ovvero la moderna Piazza del Popolo, e attraversa il Tevere a Ponte Milvio. Di qui taglia un’ansa del Tevere, lo riattraversa per poi giungere in Umbria fino a Narni, dove sono ancora visibili i resti dell’impressionante ponte di Augusto, uno dei più grandi, alti e larghi ponti costruiti dai Romani, testimonianza dell’importanza di questa via, seconda solo alla via Appia. La Flaminia si sdoppia dopo Narni, il ramo antico prosegue dritto verso Spello, mentre la cosiddetta Flaminia nuova passa per Terni e Spoleto. I due rami si ricongiungono nel nord dell’Umbria giungendo poi a Fossato di Vico, dove la strada vira verso est e passa attraverso gli appennini. Il punto chiave era la magnifica galleria del Furlo, costruita da Vespasiano e lunga circa 40 metri, pochi per oggi ma un impegno notevole per i tempi: in questa località era sorta anche una cittadina, che fungeva da baluardo militare: il suo nome era Petra, come la grande città del deserto giordano. Dopo la galleria del Furlo, la strada arriva a Fano, pochi km verso nord ci sono Rimini e poi Ravenna, la capitale del regno. Quest’asse viario, la Flaminia, era il cuore del regno d’Italia, congiungendo le due capitali: Roma e Ravenna e venendo percorso in continuazione dai messaggeri del Re: Teodorico ad esempio fece realizzare delle imponenti bonifiche nei dintorni di Spoleto. Quando i Longobardi invaderanno la penisola, questi conquisteranno però Spoleto e Narni, costringendo gli imperiali ad utilizzare un percorso parallelo, la cosiddetta via Amerina. Questo via era più antica della Flaminia, fu realizzata dagli Etruschi per collegare l’antica Veio con l’Umbria e poi deviata verso Roma dai Romani, dopo la distruzione di Veio nel quarto secolo a.C. Il primo tratto di venti miglia dopo Ponte Milvio fu inglobato dalla Cassia, poi da qui la via si dirigeva verso nord parallela e a pochi km di distanza dalla Flaminia, passando per Perugia. Da qui l’Amerina si dirigeva verso nord, ricongiungendosi poi alla Flaminia poco prima della galleria del Furlo. Questa via sarà il cuore del dominio bizantino in Italia, per secoli. Per più di un millennio sarà anche l’asse principale, attorno al quale si costituirà lo stato della chiesa.
Le altre vie principali del centro Italia erano l’Aurelia, che segue la costa tirrenica da Roma a Luni, e la Cassia che invece attraversa la Toscana, giungendo a Firenze: come oggi per la moderna A1, c’era una strada per andare verso nord e arrivare a Bologna, ma non era considerata molto agevole dai Romani, che spesso preferivano utilizzare la via Emilia Scauri che da Luni, vicino alla moderna La Spezia, attraversava le alpi apuane e giungeva a Parma: in sostanza il percorso della moderna autostrada della Cisa. Questa via era la via più rapida per andare da Roma vero la Liguria romana, ma allungava di molto il viaggio rispetto alla Flaminia per andare da Roma a Ravenna, le due città principali del regno. Un’altra alternativa per raggiungere Ravenna da Roma era la Salaria, che attraversava le province di Rieti e di Ascoli Piceno, per poi giungere al mare nei pressi della moderna San Benedetto del Tronto. La Tiburtina-Valeria, invece, collegava Roma a Tivoli e poi da qui ad Alba Fucens e poi, attraverso i monti dell’Abruzzo, giungeva ad Ostia Aterni, la moderna Pescara: in sostanza il percorso dell’A25, l’autostrada dei Parchi.
Nell’Italia padana, la via di gran lunga più importante era la via Aemilia, la via che ha dato metà del nome alla regione dell’Emilia-Romagna: l’antica via Aemilia partiva da Rimini, dove giungeva la Flaminia, e conduceva a Piacenza, il principale punto di passaggio del fiume Po, allora come oggi. Lungo la via Emilia i Romani avevano realizzato una serie di città, di nuova fondazione o costruite su città preromane. Le città dell’Emilia sono in generale tutte a circa un giorno di cammino l’una dall’altra. Queste città sono ancora oggi l’asse portante della regione, basti citare tra le altre: Cesena, Forlì, Imola, Faenza, Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma, Fidenza e infine Piacenza, una delle prime colonie romane a nord degli appennini.
Un’altra via strategica era la Postumia: congiungeva Genova a Piacenza, dove incrociava la via Emilia, e di qui menava attraverso Cremona e Verona alla metropoli di Aquileia. Da qui partiva la grande strada militare che, attraverso i Balcani, giungeva a Costantinopoli
Tenete a mente queste strade, perché saranno importanti.
Milano, capitale della….Liguria
Belisario aveva trionfato nell’assedio di Roma grazie ad un superbo esempio di guerra difensiva, condotta sempre in forte inferiorità numerica. Di fronte al generalissimo, ora però si dipanava una sfida ancora più grande: conquistare l’Italia centro-settentrionale. L’euforia iniziale era già scemata, ora che Belisario aveva compreso che la stragrande maggioranza del potere militare di Ravenna era proprio basata a nord di Roma: conquistando il sud, Belisario aveva messo sotto pressione i Goti da un punto di vista economico, ma non ancora militare.

La prima mossa di Belisario fu di attaccare i Goti dove meno se lo aspettavano: già durante l’assedio il vescovo di Milano, Dazio, era giunto a Roma, offrendo di far passare alla causa imperiale la sua città e la sua regione, quella che allora si chiamava la Liguria.
Quando i Goti levarono finalmente l’assedio a Roma, Belisario decise di rispondere all’offerta e inviò a nord circa mille uomini al comando della sua guardia del corpo Mundila. Alla spedizione si unì un uomo di rango senatoriale, un ex prefetto del pretorio di nome Fidelio, nativo di Milano, per fornire copertura politica alla secessione della Liguria verso l’Impero. Il piccolo esercito viaggiò via mare fino a Genova, da qui si recò rapidamente verso il cuore della futura Lombardia. Mundila e i suoi caricarono su dei carri un grande numero di scialuppe, una precauzione utilizzata per attraversare rapidamente e in sicurezze le acque del grande fiume della pianura padana, il Po. La principale guarnigione gotica della regione era a Pavia ma fu presa completamente alla sprovvista: quando arrivarono notizie che gli imperiali erano già a nord del Po, il Comes gotico decise di andare loro incontro e affrontarli in campo aperto. Il risultato fu il solito: una pianura cosparsa di cadaveri coperti di frecce. Un buon numero di Goti riuscì però a sfuggire, a malapena, asserragliandosi a Pavia. A questo punto le forze di Mundila poterono entrare a Milano, non Fidelio però: il suo cavallo lo tradì nei pressi delle mura di Pavia e i Goti lo uccisero, un altro membro della classe senatoriale italiana divorata dalla guerra. Una volta al sicuro dietro le imponenti mura di Milano, Mundila divise il suo esercito tascabile e inviò delle guarnigioni ad occupare Bergamo, Como e Novara, in modo da tenere il grosso della Liguria per l’Impero.
Questa notizia fu un colpo duro per Re Witigis: si apriva un nuovo fronte nella guerra contro l’impero. C’erano però molti Goti che vivevano nel moderno Piemonte e Witigis inviò presso di loro suo nipote Uraias, per radunarli in un’armata capace di riprendere le città del nord Italia. Witigis chiese inoltre aiuto ai suoi alleati Franchi: rinforzi giunsero da oltralpe, in gran parte Burgundi da poco assoggettati ai Franchi, e Uraias poté mettersi al comando di un forte esercito, quello che sarà per i prossimi anni l’esercito gotico della Liguria. Uraias giunse sotto le mura di Milano, l’antica capitale imperiale e ancora la seconda più popolosa città della penisola: la grande metropoli fu posta sotto assedio, mentre la città era difesa solo dalla guarnigione cittadina e appena 300 dei soldati imperiali di Mundila. L’intera regione fu attraversata da truppe che sequestrarono i rifornimenti per portarli nelle città, sia che fossero gli imperiali sia che fossero i Goti. Se posso fare un riferimento ad un episodio passato, il 52 per l’esattezza, è proprio in questi anni che fu sepolto l’anello di Stefano e Valatrud, gli sposini goti e romani, forse nella speranza di disseppellirlo a guerra conclusa: come sappiamo, rimase per sempre nel terreno.
Guerra di posizione
Witigis non poteva utilizzare la Flaminia per tornare in nord Italia perché questa via era bloccata dei presidi imperiali di Perugia e Spoleto, e quindi decise di prendere la Cassia. Per impedire i movimenti di Belisario verso nord, Witigis inviò delle forti guarnigioni ad Orvieto e Chiusi, in modo da presidiare la Cassia e proteggere la Toscana, una regione che era rimasta fedele al governo di Ravenna. Il più forte distaccamento gotico, forte di 4.000 uomini, fu inviato a Osimo, nelle Marche, in modo da proteggere gli approcci verso nord lungo l’adriatico: un esercito che fosse arrivato in Adriatico attraverso la Salaria o la Tiburtina-Valeria avrebbe dovuto risalire la costa, finendo per incontrare Osimo, nei pressi di Ancona, a bloccare la strada. Altre guarnigioni furono inviate da Witigis a Urbino e Petra, per bloccare la Flaminia anche all’esercito imperiale, come era preclusa a lui. Con il resto dell’esercito, Witigis si diresse verso Rimini, in modo da intrappolare e assediare Giovanni il sanguinario: ricorderete che la città era stata presa nell’episodio precedente, costringendo Witigis ad abbandonare l’assedio di Roma per timore di perdere Ravenna.

Procopio sostiene che nell’occupare Rimini, Giovanni andò contro gli ordini di Belisario che avrebbe ordinato di non lasciare alle sue spalle dei nemici e quindi di non occupare città al di là di importanti presidi gotici, come appunto Osimo e Urbino: non sono certo che questo ordine ci fu davvero, perché al solito sembra voler distogliere il lettore da possibili critiche al generale. Sta di fatto che Belisario inviò altri mille soldati lungo la Via Flaminia, al comando di Martino e Ildiger, con il compito di rafforzare Giovanni e convincerlo ad abbandonare Rimini, una città oramai nel profondo del territorio tenuto dai nemici.
I soldati imperiali furono bloccati nella loro avanzata dalla guarnigione di Petra, la città-fortezza a guardia del tunnel del Furlo, la galleria di Vespasiano: i soldati imperiali non riuscirono a prendere le mura con la forza ma si arrampicarono sul monte sovrastante la città e fecero rotolare dei grandi massi sulle case, spaventando i difensori al punto da convincerli alla resa. I Goti si offrirono di unirsi alla causa imperiale e furono aggiunti da Martino ed Ildiger al loro esercito. Non è né la prima né l’ultima volta che questo accadrà, da entrambe le parti: tenetelo a mente, perché la guerra antica non era spesso una guerra combattuta in base a principi etnici e nazionalistici. Dei buoni soldati erano dei buoni soldati, per entrambi i combattenti: bastava offrire le giuste condizioni di arruolamento e poi pagarli.
Superata Petra, gli imperiali giunsero ad Ancona, il grande porto dell’adriatico, dove in contemporanea giunse una flotta romana, che sbarcò una forte guarnigione per la città, che divenne da allora la principale base delle operazioni per gli imperiali, mentre la vicina Osimo ospitava la più grande guarnigione gotica del centro Italia.

I soldati di Martino e Ildiger presero alcuni reparti di fanteria sbarcati ad Ancona e si recarono quindi a Rimini e riferirono gli ordini di Belisario: la fanteria doveva restare a Rimini, mentre il generale ordinava ai 2.000 cavalieri d’élite di Giovanni di rifugiarsi ad Ancona. L’obiettivo era di evitare che queste truppe indispensabili al prosieguo della guerra finissero assediate dal ben più numeroso esercito di Witigis. Giovanni però sentiva che la sua posizione era forte e difendibile e si rifiutò di obbedire, trattenendo però presso di sé la fanteria. Ildiger e Martino furono costretti a tornare ad Ancora a mani vuote.
Giovanni comprese ben presto il suo errore, quando all’orizzonte vide comparire la grande armata di Witigis, che aveva passato gli appennini attraverso la via Emilia Scauri e poi era discesa lungo la via Emilia fino a Rimini. L’esercito di Witigis, una volta dedotti gli uomini inviati nei vari presidi in centro-Italia, era ancora forte probabilmente di circa 15 mila uomini. Per Giovanni era oramai troppo tardi per fuggire, i suoi uomini si prepararono all’assedio.
L’assedio di Rimini
Verso giugno del 538, Belisario fu pronto a partire da Roma con il grosso del suo esercito: Belisario prese la Salaria, giungendo ad Ascoli Piceno, per poi risalire la costa adriatica.
Intanto a Rimini le cose si stavano mettendo male per gli assediati, nonostante la solita imperizia gotica negli assedi. Witigis aveva fatto costruire una torre d’assedio, questa volta trainata a forza di braccia e non da animali: quella lezione l’aveva appresa. Alla vista della macchina da guerra, Giovanni comprese che qualcosa andava fatto, per evitare al superiore esercito di Witigis di sciamare sulle mura di Rimini: a tal fine, Giovanni ideò un piano molto ardito.


Giovanni in persona, assieme ad un gruppo dei suoi soldati più fidati, fece una sortita notturna, nel massimo silenzio. Gli uomini armati soprattutto di pale, non di spade. Le pale servirono a scavare un profondo fossato giusto di fronte a dove la macchina si sarebbe dovuta muovere. Il giorno dopo Witigis si accorse dello stratagemma: i Goti non potevano spostare facilmente la torre lateralmente, quindi Witigis diede ordine di riempire il fossato con delle fascine e trascinarci sopra la macchina da guerra. Il risultato fu prevedibile: il peso della macchina schiacciò le fascine e la torre si inclinò pericolosamente: sono questi i casi nei quali viene voglia di usare lo storico meme del capitano Picard che fa un “facepalm”. Davvero, se fossi vissuto ai tempi mi sarebbe venuto voglia tenere una masterclass per i Goti, intitolata “assedi, come subirli e come condurli”.
Witigis, sempre più irritato, diede l’ordine di recuperare la torre e trascinarla verso un altro punto delle mura. Ovviamente Giovanni non intendeva assecondarlo: con un discorso volto ad infondere coraggio, probabilmente una delle invenzioni letterarie di Procopio, Giovanni diede ordine a tutti i suoi di attaccare i numericamente superiori nemici, lasciando solo pochi uomini sugli spalti: il loro obiettivo era distruggere la torre d’assedio. Ne seguì una dura battaglia, nella quale i Goti persero molti uomini. A lungo andare però, il loro superiore numero iniziò a pesare: alla fine gli uomini di Giovanni furono respinti e i Goti riuscirono con grande fatica a trascinare via la torre. Giovanni raggiunse comunque il suo obiettivo strategico che era di indurre Witigis a rinunciare ad un assalto diretto alle mura: Witigis si arrese a prendere la città per fame. Per sua fortuna, e per sfortuna degli assediati, questi non avevano molti rifornimenti a loro disposizione. Witigis non aveva bisogno di tutti i suoi uomini per l’assedio, inviò quindi un altro forte contingente ad Osimo, con l’obiettivo di congiungersi con i soldati lì presenti: assieme avrebbero dovuto muovere contro Ancora.
Quando il comandante di Ancona vide che veniva contro di lui un forte esercito, decise inspiegabilmente di uscire dalla fortezza e dispiegare i suoi alla base del promontorio sul quale era ed è costruita la città. Alla vista però del numero dei nemici, i soldati imperiali fuggirono verso il castello che dominava il promontorio, venendo falcidiati dalla cavalleria gotica. Per poco i Goti non presero d’assalto le mura della fortezza, conquistando Ancona: Procopio riporta che fu soprattutto il valore di due soldati imperiali ad impedirlo, un Goto di nome Ulimuth e un Unno di nome Gubulgudù, due bucellari. Ho riportato il loro nome perché sia chiaro quanto multietnico fosse l’esercito imperiale.
Belisario vince a suo modo
Belisario era pochi km più a sud, quando gli giunse notizia che un altro dei grandi protagonisti della rivolta di Nika era appena sbarcato sulla costa adriatica, proveniente da Costantinopoli: si trattava ovviamente dell’eunuco Narsete, a capo di 5.000 uomini tra foederati Eruli, armeni e soldati imperiali assortiti. Narsete di origine non era un generale, ma, come si confaceva ad un eunuco a quei tempi, era un burocrate della corte di Costantinopoli. Come vedremo, avrà modo di dimostrare di essere un comandante militare non inferiore a Belisario, sarà lui infatti il protagonista dell’endgame della guerra d’Italia, oltre il plenipotenziario d’Italia per quasi vent’anni.

I due eserciti imperiali si incontrarono a Fermo, avevano ora circa 12000 uomini ai loro ordini e ci fu immediatamente un consiglio di guerra per decidere il da farsi. Narsete era dell’opinione che si dovesse andare in soccorso di Giovanni, del quale era amico e alleato, mentre Belisario era in dubbio; forse perché Giovanni gli aveva disubbidito, forse perché temeva cosa sarebbe potuto accadere alle loro linee di comunicazione se avessero lasciato dietro di sé la guarnigione di Osimo. In quel frangente giunse un trafelato messaggero da Rimini: era riuscito ad eludere le vedette gotiche: la città era allo stremo, le vettovaglie erano terminate e Giovanni credeva che entro una settimana avrebbe dovuto arrendersi al nemico, assieme ai suoi uomini.
Il consiglio di guerra decise che era indispensabile levare l’assedio di Rimini, il problema era che comunque Belisario aveva una forza inferiore a quella del nemico. Il nostro generale preparò attentamente uno dei suoi soliti piani, quel tipo di azione psicologica preparata a tavolino in cui era l’indiscusso maestro del suo tempo. Invece di inviare tutti i soldati in un’unica direzione, divise le sue forze in tre parti. La principale era formata dalla maggior parte delle truppe di Narsete e sarebbe andata a Rimini lungo la via costiera, la seconda sarebbe salita sulla flotta presente ad Ancona e avrebbe navigato fino a Rimini, con l’ordine però di non sbarcare prima che l’assedio fosse stato spezzato, Belisario condusse i suoi uomini per vie interne, passando per l’abbandonata città di Urbisalia, distrutta dai Goti di Alaric, 130 anni prima.
Lo stratagemma di Belisario era infatti di condurre una guerra psicologica, riporta Procopio “Belisario non cercava lo scontro diretto, perché vedeva che i barbari erano ancora spaventati a morte per le disfatte subite. Quando si sarebbero accorti che da ogni parte arrivava contro di loro un esercito di nemici, Belisario calcolava che si sarebbero volti in fuga”.
Ora immaginatevi di essere una delle vedette dei Goti: il vostro compito è pattugliare le alture poste alle spalle dell’accampamento che assediava Rimini. All’improvviso vedete le insegne dei soldati imperiali avvicinarsi, riconoscete immediatamente lo stendardo di Belisario: i soldati vi attaccano e vi costringono alla fuga. Senza perdere tempo a contare esattamente i soldati in arrivo, correte all’accampamento per avvertire i generali. Però assieme a voi giunge la notizia che anche dalla costa si sta muovendo un forte esercito: nessuno è stato in grado di contare esattamente il numero dei soldati in arrivo. I generali confabulano con il Re quando qualcuno indica il mare: la flotta imperiale è giunta a Rimini! Gli spalti delle navi brulicano di soldati! Il panico si diffonde nell’accampamento, Witigis fa appena in tempo a suonare la ritirata, ma gli uomini sono già impegnati ad evacuare l’area prima che la trappola scatti: nessuno vuole finire intrappolato contro le mura di Rimini, circondati da tre eserciti e dagli uomini di Giovanni.
E fu così che Witigis si ritirò di fronte a tre piccoli eserciti che avrebbe potuto agevolmente sconfiggere uno ad uno con le sue forze superiori, fuggendo in direzione di Ravenna: è proprio vero che a volte la guerra è solo psicologia. Belisario aveva vinto una grande battaglia senza dover neanche sguainare le spade.
Due galli in un pollaio
Giovanni fuoriuscì da Rimini emaciato, magro ma sempre combattivo: Belisario deve averlo rimproverato, questi invece pare aver dato tutto il merito dell’operazione a Narsete, l’unico a suo dire che aveva voluto soccorrerlo. Quel che accadde è che da allora le forze imperiali si spaccarono a metà, con Giovanni il sanguinario e Narsete in perenne opposizione tattica e strategica a Belisario.
Il seguente consiglio di guerra mise alla luce i contrasti. Belisario suggerì che i loro obiettivi erano ora due: andare in soccorso degli assediati a Milano e fare qualcosa del forte esercito che i Goti avevano lasciato ad Osimo, vicino Ancona. Narsete disse però che a suo modo di vedere occorreva sottrarre ai Goti l’Emilia, una regione molto fertile da cui i Goti oramai dipendevano, ora che Witigis si era asserragliato a Ravenna. Inoltre, a suo modo di vedere, in questo modo avrebbero impedito a Witigis di uscire in soccorso di Osimo ed intrappolare le forze imperiali tra l’incudine e il martello.
Belisario ad un certo punto si stufò di discutere e disse che si sarebbe dovuto fare come diceva lui, in quanto comandante supremo: d’altronde aveva una lettera di Giustiniano, che di suo pugno diceva “Noi abbiamo inviato in Italia il nostro tesoriere Narsete ma è nostra volontà che Belisario sia il comandante supremo. Nell’interesse dello stato, che tutti gli obbediscano”. Narsete ribatté semplicemente, da perfetto azzeccagarbugli, che quello che suggeriva Belisario era contro l’interesse dello stato, quindi non era tenuto ad obbedirgli. Ne seguì una lunga diatriba, alla fine però tutti decisero di portare l’assedio ad Urbino, mentre un forte distaccamento fu inviato in Umbria per assediare Orvieto. Urbino però, allora come oggi, era in una posizione molto forte, in cima ad una collina: Belisario provò a negoziare con i difensori, offrendogli di arruolarsi nell’esercito imperiale, ma questi rifiutarono di arrendersi. Allora Belisario diede ordine di costruire un lungo camminamento protetto per permettere ai soldati di giungere sotto le mura di Urbino senza pericoli di essere fatti bersagli di dardi e frecce. Si trattava di un lavoro lungo e faticoso, visto il quale, Narsete decise che era arrivato il tempo di attuare il suo piano originale. Il giorno dopo, nonostante i tentativi di Belisario di convincere Narsete a restare, gli uomini dell’Eunuco e di Giovanni il sanguinario abbandonarono l’assedio di Urbino e si recarono nella futura Romagna. Narsete rimase a Rimini, mentre Giovanni provò a prendere con la forza Cesena, che però non cadde. Giovanni, indomito, proseguì lungo la via Aemilia fino ad Imola e la conquistò. Da quel momento in poi quasi tutte le città dell’Emilia si arresero al generale romano.

La caduta di Urbino
Nonostante il mezzo tradimento di Narsete e Giovanni, Belisario era sempre determinato a prendere Urbino. Diede ordine di scalare la collina al riparo della lunga rampa e galleria di legno che aveva fatto costruire nei giorni precedenti. I soldati usarono anche delle macchine da guerra dette “Stoa” in greco o “vinea” in latino, una specie di pergolato mobile che veniva utilizzato come schermo dai soldati e veniva trasportato fin sotto le mura, difendendoli dagli attacchi. All’insaputa di Belisario però, i Goti in città ne avevano avuto abbastanza. Si era infatti seccata improvvisamente la principale sorgente della città, senza la quale era impossibile sostenere un assedio.
I Goti si arresero e si consegnarono al generalissimo. Belisario allora decise di recarsi a Roma e svernare lì, ma fece una piccola deviazione per raggiungere Orvieto: alla vista del generale anche questa città umbra cadde. Belisario poté entrare dunque a Roma e mettere in atto la seconda parte del suo piano. Inviò infatti una parte consistente dei suoi uomini a rompere l’assedio di Milano. Eravamo a dicembre del 538 e la guerra sembrava andare sempre meglio per gli imperiali, oramai in controllo di buona parte dell’Italia. Quelli che però soffrivano davvero erano gli italiani: gli eserciti contrapposti avevano percorso in lungo e in largo il centronord della penisola, requisendo vettovaglie e ogni genere di rifornimenti. Tutto questo mentre l’Italia stava entrando nella fase più acuta della grande carestia che colpì il mondo mediterraneo a fine anni 30’ del quinto secolo.
La carestia
Il 539 sarà l’anno peggiore per la terribile carestia che aveva colpito l’Italia: l’origine della carestia era nell’eruzione in Islanda di cui ho già parlato, eruzione che aveva abbassato le temperature, diminuendo la produttività dei campi. Nel mondo antico spesso le carestie erano localizzate in aree specifiche, permettendo quindi allo stato di compensare importando grano e cereali da altre parti dell’Impero. Ora però tutta l’agricoltura del mediterraneo era in sofferenza.

A questo fattore si aggiungevano le necessità della guerra, moltiplicando la sofferenza. La guerra non ostacolava solamente il normale flusso logistico, ma aveva anche impedito in molti luoghi la semina o il raccolto. La popolazione dell’Emilia, sempre più affamata, cercò rifugio nel Piceno, più vicino al mare e quindi in teoria più facile da rifornire. In toscana gli abitanti macinavano le ghiande delle querce, cercando di sopravvivere. Ecco quanto narra Procopio: “naturalmente moltissimi caddero vittime di ogni specie di malattie e soltanto pochi riuscirono a superarle e a salvarsi. Nel Piceno si parla di non meno di cinquantamila contadini che morirono di fame e molti di più ancora furono le vittime nel nord della penisola, io stesso ne fui testimone. Le persone diventavano magrissime e gialle in viso. Con il progredire della malattia, scompariva tutta l’umidità della pelle che diventava incredibilmente secca, come il cuoio, poi il colore livido si mutava in nero. Il loro volto sembrava attonito e avevano uno sguardo folle e spaventato. Morivano per lo più consunti dalla mancanza di nutrimento, ma alcuni morivano anche se gli si dava improvvisamente cibo, perché occorreva dargli da mangiare poco alla volta, come dei bimbi appena nati. Taluni, forzati dalla fame, si cibarono di carne umana”.
Quella che avete ascoltato è la cronaca di un orrore e di un disastro senza precedenti. Stringere la cinghia era qualcosa di comune in quei tempi come in tutte le società preindustriali: perfino avere un po’ di morti per fame era considerato uno degli accidenti della vita, qualcosa che accadeva regolarmente; ma una carestia talmente mortale era qualcosa di straordinario: Il fatto stesso che Procopio si senta in dovere di narrarne i dettagli dimostra che questo tipo devastante di carestia non fosse ai tempi una cosa comune, tutt’altro. l’Italia aveva avuto tanti problemi, ma oramai da decenni se non centinaia di anni nessuno pativa la fame in questo modo, perché sempre lo stato era riuscito a soccorrere in qualche modo i cittadini affamati. Nel 539 però, lo stato non c’era più, la guerra imperava ovunque e la fame e le malattie iniziavano il loro terribile lavoro di distruzione della fabbrica sociale dell’Italia antica.
Il sacco di Milano
I soldati che Belisario aveva inviato in Emilia, con il compito di soccorrere Milano, erano comandati dal generale Martino che però si fermò a Piacenza, sulle rive del Po, indeciso se passare il fiume, anche considerando che le forze nemiche parevano di molto superiori alle sue. Pensò dunque che una buona scusa per indugiare fosse chiedere i rinforzi delle truppe di Giovanni, che occupavano il resto dell’Emilia, Martino inviò una richiesta a Belisario di unirle alle sue. Mentre aspettava la risposta, Martino ricevette un messaggero disperato da Milano, un certo Paolo che aveva perfino attraversato il Po a nuoto pur di raggiungerli: la situazione a Milano era disperata, e Mundila implorava un aiuto da parte dei soldati imperiali. Martino lo rimandò indietro con le sue rassicurazioni: non preoccupatevi, arriveremo presto – disse – ma non si mosse.
Belisario nel frattempo ordinò a Giovanni il sanguinario di unirsi a Martino: Giovanni però si comportò come suo solito, e fece sapere a Belisario che lui prendeva ordini solo da Narsete: qui vediamo all’opera la concorrenza e la rivalità tra i due generali, con risultati disastrosi. Molto tempo prezioso fu perso inviando messaggeri in giro per l’Italia, mentre Milano moriva di fame. Alla fine Narsete ordinò a Giovanni di soccorrere Martino. Giovanni giunse sul Po, ma si ammalò e l’esercito non volle muoversi senza di lui, quindi Martino e Giovanni rimasero ancora una volta inattivi.
Erano ancora bloccati a Piacenza quando finalmente Mundila, a Milano, gettò la spugna. Dei messaggeri del generale gotico Uraias offrirono un salvacondotto ai soldati imperiali, se avessero ceduto la città: Mundila chiese se l’accordo si estendeva anche alla popolazione civile della seconda città d’Italia. I Goti restarono in ominoso silenzio. Mundila accettò l’accordo e i Goti non fecero loro nulla di male: i cittadini milanesi guardarono sfilare via i soldati che avevano chiamato a loro protezione, temendo il peggio. Subito dopo i soldati di Uraias, molti di loro Burgundi arrivati da oltralpe, entrarono a Milano: la città era prostrata dalla fame, molti erano già morti, ma fu nulla rispetto a quello che aspettava i milanesi. Uraias aveva deciso che doveva fornire alla popolazione italiana un trattamento esemplare, per evitare ulteriori tradimenti.
Goti e Burgundi saccheggiarono con estrema violenza l’antica capitale: gli uomini furono passati a fil di spada, donne e bambini furono schiavizzati e offerti in pagamento ai Burgundi. La città fu ridotta ad una rovina fumante. Poco dopo anche le altre città della Liguria romana – Bergamo, Como e Novara, si arresero all’esercito di Uraias. Questo avvenne alla fine dell’inverno del 538-539.
La nuova stagione di guerra si aprì dunque con un mix di buone e cattive notizie per gli imperiali: Roma era stata salvata, ovunque in centro Italia le armate imperiali avevano occupato territori, lasciando solo pochi presidi in mano ai Goti. Di converso l’intera strategia di Belisario in Liguria era fallita, ora Uraias avrebbe potuto utilizzare il suo esercito per ricongiungersi con Witigis.
La partita a scacchi era destinata a durare ancora un po’, soprattutto se Belisario non fosse riuscito a porre rimedio alla confusa situazione nel comando imperiale, con due generali in competizione tra loro e che si parlavano a stento. Era oramai evidente che c’era spazio per un solo generalissimo in occidente.
Nel prossimo episodio vedremo le ultime mosse della prima fase della guerra: in un crescendo, Belisario riuscirà a rinchiudere i Goti nella loro fortezza più impregnabile. I goti arriveranno a fargli un’offerta straordinaria, l’offerta di una vita, un’offerta che, nelle parole di Don Corleone, non si può rifiutare.
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