Episodio 70: la battaglia di Roma – testo completo

Nell’ultimo episodio, Teodato è andato incontro al suo fato, i Goti si sono stretti attorno alla loro identità nazionale e al loro nuovo Re, Witigis, mentre Belisario è riuscito nell’impensabile: conquistare con appena qualche migliaio di uomini la grande città dell’occidente romano, la città che ha dato il nome ad una civiltà, un impero e un intero mondo: Roma.

Eppure la conquista di Roma, nelle parole di Churchill, si dimostrerà essere non l’inizio della fine della guerra, ma la fine dell’inizio: una nuova fase della guerra sta per iniziare, mentre l’intera potenza del regno dei Goti si raduna per giungere ad assediare il pugno di uomini che Belisario ha al suo comando. Quella che sta per iniziare sarà la più lunga e dura battaglia per il controllo della città eterna, combattuta nei quasi tremila anni della sua storia. Belisario, al suo ordine, ha un esercito tascabile con il compito immane di difendere le lunghissime mura aureliane. All’interno della città ci sono centinaia di migliaia di bocche da sfamare. Fuori, decine di migliaia di Goti.

Il racconto di qualsiasi assedio è inevitabilmente misurato contro l’Iliade, e pochi dei successori di Omero possono essere stati più consapevoli di questo illustre precedente letterario di Procopio, che osservava ogni atto della battaglia dagli spalti di Roma. Procopio ha quindi prodotto quella che è nient’altro che una saga omerica, e la cura che ha avuto nel preparare il suo racconto è dovuta in parte all’enorme importanza simbolica che ancora conservava nel sesto secolo la città di San Pietro e di Augusto, questo dopo che aveva perso ogni vero valore strategico. Quella che sta per iniziare non è una battaglia per il controllo di una città, ma per il dominio sull’anima del mondo romano.

La guerra nè greca, nè gotica

Nello scorso episodio un’intera tempesta gotica si è levata per investire Roma: Belisario, con i suoi 5.000 uomini, è riuscito a resistere alla buriana. Ora però immaginatevi di essere un soldato tra i Goti. L’accampamento è calmo, l’assedio continua da mesi. All’improvviso arriva trafelato un esploratore: corre fino alla tenda di Re Witigis. Poco dopo arriva l’ordine: uscire tutti dall’accampamento, formare i ranghi. Il sole brillante per un po’ nasconde la vista, ma poi vedete cosa sta accadendo di fronte a voi: le porte di Roma sono aperte, per la prima volta stanno uscendo i soldati dell’imperatore in forze, chiaramente determinati a dare battaglia.

La vostra mano si stringe nervosamente sulla spada. Oggi sarà un giorno di sangue: una grande battaglia sarà combattuta sotto le mura di Roma. Voi pregate solo di poter rivedere l’alba.

Belisario implora aiuto

Dopo il fallimento dell’assalto gotico, Belisario scrisse una lettera all’imperatore, implorando rinforzi. La prima di una lunga lista di missive disperate da parte del generale. Le richieste del generale, spesso andate deluse, hanno con il tempo costruito l’immagine di un Giustiniano tirchio, che lesina rinforzi a Belisario, compromettendo la sua grande campagna italiana. Citiamo un passo della lettera: “Siamo venuti in Italia, come tu hai ordinato, e abbiamo conquistato gran parte del suo territorio e preso anche possesso di Roma. Ma è successo che, avendo dovuto stanziare un gran numero di soldati sia in Sicilia che in Italia, il nostro esercito si sia ridotto a cinquemila uomini. Durante l’ultimo assalto alle mura, c’è mancato poco che la città venisse presa e che noi fossimo fatti prigionieri”. Belisario poi passa a richiedere rinforzi, lamentando che se non arriveranno presto la città cadrà e con essa la politica di riconquista dell’Italia di Giustiniano.

Roma durante l’assedio

Senza che però Belisario ne fosse a conoscenza, dei rinforzi erano già stati inviati da Giustiniano, ma i reparti in questione erano stati trattenuti in Grecia dal maltempo. Inoltre va ricordato come Giustiniano combattesse su più fronti: in questo momento preoccupava molto l’Africa; la rivolta di Stotzas infuriava ancora e l’imperatore era stato costretto ad inviare un forte esercito comandato da suo nipote Germano. Allo stesso tempo, il fronte balcanico era attivo, la guerra essendo concentrata attorno a Salona. Infine va detto che nel mondo antico la logistica aveva tempi molto lunghi: si era solo a Marzo, Belisario aveva preso Roma in Dicembre, occorrevano mesi per ricevere la richiesta di rinforzi, raggranellare le unità disponibili ed inviarle in Italia.

Il 4 Aprile del 537, i primi rinforzi di Giustiniano giunsero a Roma, evadendo i blocchi dei Goti: si trattava di 1600 cavalieri scelti, per lo più Unni e Slavi, accolti con grande sollievo dagli assediati. A questo punto Belisario si sentì forte abbastanza per prendere l’iniziativa. Infatti, nell’ultimo scontro, Belisario aveva notato che i Goti avevano lo stesso problema dei Vandali: non avevano una risposta al problema tattico di affrontare gli arcieri a cavallo dell’esercito imperiale.

Vuoi ascoltare la prima parte di questa epopea? Ascolta il precedente episodio:

Guerra di posizione

Porta Salaria nel ‘700, è stata demolita sotto il fascismo

Belisario diede ordine a 200 bucellari di uscire dalla Porta Salaria e recarsi fino ad una collina poco distante. Il loro obiettivo era di ingaggiare una rapida battaglia con un reparto nemico, utilizzando però solo gli archi: quando avessero finito le frecce, avrebbero dovuto ritirarsi il più velocemente possibile. Il piano funzionò alla perfezione: i bucellari tempestarono di frecce i Goti. Questi chiamarono a raccolta un buon numero dei loro e si gettarono all’attacco degli imperiali, che si ritirano verso le mura. i Goti li seguirono, ma furono bersagliati delle balestre sulle mura cittadine. Gli imperiali non avevano perso un singolo uomo, i Goti avevano avuto centinaia di perdite.

Nei giorni seguenti Belisario utilizzò lo stesso stratagemma altre due volte, sempre con unità e comandanti diversi scelti tra le sue guardie del corpo. Ogni volta le sortite ebbero successo, con abbondanti perdite tra i Goti e quasi nessuna tra gli imperiali. Witigis era sempre più frustrato: erano loro gli assedianti e si trovavano regolarmente attaccati dagli assediati. Witigis decise quindi di tentare la stessa tattica, inviando 500 cavalieri su una collina, quasi a provocare i Romani ad attaccare. Belisario inviò contro i Goti un migliaio di cavalieri che si limitarono a circondare la collina e utilizzare i Goti come allenamento per il tiro al bersaglio. I Goti ovviamente non potevano restare a fare i piccioni e caricarono le superiori forze imperiali: nella seguente battaglia, i Goti furono pesantemente sconfitti. Procopio arriva a riportare che lo stesso avvenne una seconda volta, con Witigis che selezionò i migliori tra le sue truppe, forse pensando che la sconfitta fosse stata dovuta allo scarso coraggio dei suoi, salvo avere lo stesso risultato: i 500 uomini furono di nuovo sconfitti, con gravi perdite.

Procopio, come vedremo, ha l’abitudine di non nascondere la capacità degli avversari, eppure in questo caso è evidente il suo scorno per i Goti, incapaci di comprendere il nocciolo della questione: non erano gli imperiali ad essere più coraggiosi, si trattava semplicemente di una differenza di armamento, gli archi degli imperiali non avevano una controparte tra i cavalieri Goti, che usavano al massimo un giavellotto come arma da lancio. C’è da dire inoltre che in tutte queste azioni, Belisario utilizzò i suoi migliori ufficiali, ovvero i comandanti dei suoi bucellari, i più esperti combattenti dell’intero mondo mediterraneo.

Fu a questo punto che Belisario confidò ai suoi amici che era oramai certo della vittoria: come i Vandali, i cavalieri Goti non avevano una soluzione al problema posto dai professionali arcieri imperiali a cavallo. Citiamo il discorso di Belisario riportato da Procopio: “quasi tutti i Romani e i loro alleati unni sono abili arcieri anche a cavallo, mentre nessuno dei Goti possiede tale capacità. I loro cavalieri usano le lance e le spade, mentre gli arcieri sono appiedati e necessitano di una protezione da parte della fanteria gotica, pesantemente armata. A meno che lo scontro non sia corpo a corpo, i cavalieri dei Goti potevano essere colpiti e uccisi a distanza. Quanto alla fanteria, non riusciranno certo a sostenere uno scontro con uomini a cavallo”. Belisario aveva quasi completamente ragione: il problema, come sempre, era nel quasi.

Dall’assedio alla battaglia campale

In seguito ai recenti successi, lo stato maggiore di Belisario iniziò a discutere la possibilità di una battaglia campale che ponesse fine una volta per tutte all’assedio: come nel caso di Callinicum, vi ricordate l’episodio 62? Procopio riferisce che Belisario fosse inizialmente contrario a combattere ma fu convinto oppure costretto dai suoi generali e dalla popolazione civile. Il contrasto con il passo che ho appena letto è stridente: a mio avviso è assai più probabile che Belisario credette davvero di poter battere con il suo piccolo esercito – forte di circa 7 mila uomini – le più numerose forze nemiche, pur ridotte dalle perdite subite durante l’assedio. Quella che segue sarà quindi la più grande battaglia campale di questa fase della guerra, eppure si tratta di un episodio poco conosciuto. La battaglia di Roma è invece fondamentale per comprendere il prosieguo dell’epico assedio della città eterna.

La prima mossa del generale fu di inviare un piccolo distaccamento dei suoi cavalieri attraverso il Tevere nei campi di Nerone, con l’unico obiettivo di convincere il generale dei Goti lì presente a non riunirsi al corpo principale dei suoi connazionali: per ingannare i Goti, ai pochi soldati professionali Belisario aggiunse una moltitudine di volontari, cittadini di Roma che volevano menare le mani, senza averne la capacità. Belisario diede loro ordine di non attaccare in alcun caso i Goti: si trattava di artigiani, per nulla abituati al mestiere della guerra. Quasi mi immagino Belisario chiedere ad ognuno di loro: quale è il vostro mestiere? “il vasaio” “il tessitore”, rispondono i volontari. Al che Belisario urla “Bucellari, qual è il vostro mestiere?” “Augh, Augh, Augh!”. Si lo so, già citato e no, nel caso abbiate il dubbio: 300 non è un film storico, però questo non vuol dire che non sia epico.

La battaglia di Roma: schieramento iniziale: Belisario invia Valentino in zona Vaticano per bloccare i Goti di Marciano (in realtà un italo-romano di fede gotica?), mentre dei volontari si schierano presso castel S.Angelo. Il grosso dell’esercito di Belisario muove contro quello di Witigis/Vitige, in gran parte cavalleria davanti, con la fanteria come supporto. Tipico schieramento di Belisario (focalizzato sulla cavalleria). Dal libro “Belisarius, the last roman general” di Ian Hughes

Belisario diede quindi l’ordine alla parte principale del suo esercito di uscire dalla Porta Pinciana e dalla Porta Salaria, schierandosi a nord di Roma in formazione, con davanti la cavalleria e la fanteria in retroguardia. Durante l’assedio una buona parte dei fanti aveva acquisito dei cavalli e aveva passato l’assedio ad esercitarsi da cavalieri, Belisario schierò quindi un esercito in grandissima parte a cavallo, forse 5 mila dei settemila circa a sua disposizione. I rimanenti fanti furono posizionati da Belisario dietro ai cavalieri, con l’unico ruolo di fornire un punto di resistenza e raggruppamento in caso di ritirata della cavalleria. Nel corso di tutte le guerre di Belisario, abbiamo visto come questi dimostrasse un atteggiamento molto dubbioso nei confronti della fanteria: sembra che il generale ritenesse sostanzialmente inutile il loro apporto in una battaglia campale. Due ufficiali di Belisario di nome Principio e Tarmuto gli fecero però presente che a loro avviso la fanteria era in grado di combattere in un ruolo più importante e pregarono Belisario di essere trasferiti dalla cavalleria al comando della fanteria: erano gli ufficiali di fanteria, sostennero, ad essere di bassa qualità, non i soldati semplici.

Belisario acconsentì, ma non cambiò lo schieramento della battaglia: con la cavalleria in prima fila e la fanteria in riserva. I Goti si schierarono in modo molto più tradizionale: al centro avevano la loro fanteria pesante, armata nel classico stile dei soldati romani tardoimperiali. D’altronde i Goti utilizzavano le fabbriche imperiali del norditalia per armarsi di spade, scudi, elmi ed armature. Ai lati della fanteria c’erano le due ali di cavalleria dei Goti, mentre dietro la fanteria c’erano le unità di arcieri appiedati dei Goti. Witigis schierò i suoi quanto più lontano possibile dalle mura di Roma: se gli imperiali fossero stati sconfitti, avrebbero avuto diversi chilometri da percorrere per tornare al sicuro, allora sarebbe scattato il massacro.

La battaglia

La battaglia iniziò con gli imperiali che tempestarono di frecce i Goti: i soldati dell’esercito d’Italia ricevettero però l’ordine di subire stoicamente la tempesta di frecce, proteggendosi come potevano. Le perdite tra i Goti si accumularono, ma dopo un po’ di tempo gli imperiali iniziarono a terminare le frecce, mentre lo spazio tra i due eserciti andò riducendosi, grazie alla lenta avanzata dei due eserciti.

il generale Valentino, a capo del contingente nei campi di Nerone, sull’altro lato del Tevere, fece lo stesso, facendo cadere una pioggia di frecce sui Goti. Questi resistettero stoicamente finché videro sbalorditi una massa di fanti caricare nella loro direzione: da dove venivano questi soldati? Forse Belisario aveva deciso di attaccare in forze la loro unità con l’obiettivo di distruggere prima loro e poi passare il fiume a Ponte Milvio per prendere i connazionali alle spalle? Indecisi sul da farsi, i Goti si ritirarono abbandonando perfino il loro accampamento, non sapendo che gli uomini che li avevano caricati altri non erano che i volontari di Belisario che, senza aver dovuto far nulla tranne apparire minacciosi, ebbero l’onore di poter saccheggiare il campo dei nemici. I Goti si accorsero poco dopo che quelli che stavano saccheggiando le loro proprietà non erano però dei temibili guerrieri, ma dei civili rivestiti d’armatura. Al segnale del loro comandante, i Goti caricarono i volontari e ne fecero strage, dimostrando ancora una volta che il mestiere delle armi non si improvvisa.

Nel frattempo la battaglia principale era passata al corpo a corpo, con i Goti che avevano stoicamente resistito alla tempesta di frecce. Il loro numero superiore iniziò a farsi sentire, mentre diverse cariche di cavalleria da parte degli imperiali si infransero sull’ordinata e disciplinata fanteria gotica. Questi fanti non erano della pasta a cui i soldati di Giustiniano erano oramai abituati. Pesantemente armati con scudo e lancia, mantennero la formazione e respinsero ogni attacco. A questo punto Witigis sentì che era arrivato il suo momento: diede il segnale e l’ala destra della sua cavalleria caricò gli stanchi soldati imperiali. I cavalieri imperiali furono respinti e si ritirarono verso la linea dei fanti. La maggior parte di loro si diede alla fuga, ma non l’unità comandata da Principio e Tarmuto: i loro uomini si schierarono in formazione difensiva, in modo da dare l’occasione ai cavalieri di riformare lo schieramento: poco dopo arrivò lo schianto con la cavalleria gotica: i fanti imperiali tennero il campo.

Game over?

Belisario comprese allora che la battaglia era oramai perduta e diede l’ordine di ritirata: i cavalieri provarono a disincagliarsi ma il loro destino sarebbe stato assai più gramo se non fosse stato per i fanti di Principio e Tarmuto, che tennero il centro del campo e impedirono con il loro coraggio che i cavalieri fossero decimati dai loro inseguitori, dei veri Leonida alle Termopoli. E proprio come Leonida, Procopio riporta le loro gesta: “Principio cadde sul posto, con tutto il corpo dilaniato e intorno quarantadue fanti. Tarmuto, brandendo due giavellotti isaurici, uno per ciascuna mano, non cessò di trafiggere avversari finché non dovette desistere perché tutto il corpo era coperto di ferite. Quando suo fratello Ennes accorse in aiuto con alcuni cavalieri, si rialzò e riuscì a mettersi in salvo ma, appena raggiunta la porta Pinciana, crollò a terra: i suoi commilitoni lo adagiarono su uno scudo e lo portarono in città, dove morì dopo due giorni”.

I Goti riuscirono ad avvicinarsi a questo punto fino alle mura, forse sperando di prendere la città grazie alla confusione seguente la sconfitta degli imperiali: sugli spalti però vegliavano i cittadini romani, che si rifiutarono di aprire le porte, lasciando gli imperiali fuori dalle mura. Quando però i Goti videro che le mura erano ben presidiate, temendo le macchine da guerra e gli archi dei Romani, si ritirarono. La battaglia di Roma era terminata in una bruciante sconfitta, ma l’esercito imperiale era sopravvissuto: to fight another day, direbbero gli inglesi, per non dire che si erano dati alla fuga.

Perché Belisario fu sconfitto? Certamente pesò la differenza di effettivi, 7 mila contro almeno 25 mila soldati. Eppure la spiegazione è per me anche nell’eccessiva sicurezza di Belisario, che sembra aver confidato, oltre che nelle frecce, nella capacità dei suoi cavalieri di mettere in fuga il centro dello schieramento nemico, composto da fanti. Ma la fanteria dell’esercito d’Italia era quanto di più vicino ci fosse all’antica fanteria romana tardoimperiale: i Goti avevano resistito fino a che il loro superiore numero aveva avuto la meglio degli assalitori, con una tempestiva carica di cavalleria. Gli imperiali erano stati sconfitti e ora la sorte di Roma era di nuovo in bilico.

Roma dubita dell’Impero

Dopo la battaglia di Roma, i due generali tornarono al loro gioco del gatto con il topo: Belisario comandò diverse sortite fuori dalle mura, la maggior parte coronate da successo, ci dice Procopio, cosa che ci informa che qualcuna non lo fu. Arrivò il solstizio d’estate e con esso la notizia che da Costantinopoli erano arrivate le paghe dei soldati, al seguito di un ufficiale di corte. Questi era a Terracina, ma non aveva il coraggio di recarsi a Roma per paura dei Goti.

Belisario

Belisario sapeva quanto fosse importante l’oro di Costantinopoli per mantenere calmi e fedeli i soldati al suo servizio. Il problema era come farlo arrivare a Roma: Belisario organizzò quindi un’intera messinscena. Fece uscire i suoi soldati come per una rivincita della battaglia di Roma, mentre inviava i suoi migliori bucellarii nel campo di Nerone per incutere paura ai soldati lì presenti: qui si sviluppò una scaramuccia. Witigis fece uscire anche i suoi dal campo, attendendosi la battaglia e quindi distraendo le sue forze dal pattugliamento delle mura a sud. In serata però entrambi gli eserciti tornarono negli accampamenti e l’oro entrò a Roma, indisturbato. Molti altri scontri di minore entità si svolsero nei giorni seguenti, ma Procopio a questo punto si rende conto che non vuole tediare i suoi lettori: ci riferisce però che durante l’assedio si svolsero in totale settantanove battaglie di varia entità.

L’estate era arrivata, con essa la fame: la città era circondata da mesi, alcune provviste riuscivano ad entrare ma mai in numero sufficiente a sfamare i soldati e la popolazione rimanente. Presto iniziarono a serpeggiare in città le malattie, perché le pestilenze sono sempre le sorelle della carestia, che indebolisce i corpi a virus e batteri. Quando venne a sapere queste notizie dai disertori, Witigis decise di stringere ancora di più il cappio attorno a Roma: le vie a sud della città non erano sufficientemente presidiate e quindi il Re fece fortificare l’area dove si incontrano due dei quattordici acquedotti di Roma, tra le via Appia e Latina, creando una piccola fortezza presidiata da migliaia dei suoi soldati, rendendo assai difficoltoso raggiungere la città provenendo da sud.

Allora davvero ogni speranza che la situazione migliorasse abbandonò i cittadini di Roma: era diventato impossibile uscire dalla città e mietere, con estrema difficoltà, il grano che cresceva nei campi. I cittadini di Roma si affollarono attorno a Belisario, protestando e chiedendo una soluzione. Riporta Procopio le loro parole “Ci troviamo precipitati in questa disastrosa situazione e ci accorgiamo che è stata pura follia mantenerci fedeli all’imperatore”. Molti di loro chiesero di combattere una grande battaglia campale: meglio perire con la spada in pugno che di fame.

Belisario mantenne però il sangue freddo: l’unica speranza era di resistere fino all’arrivo dei rinforzi da Costantinopoli. “in guerra, non si può affidare tutto alla temerarietà. Occorre invece una saggia ponderazione, per misurare con esattezza il momento opportuno per ogni azione”, disse Belisario. Delle parole che lo Strategikon di Maurizio avrebbe applaudito a mani aperte.

Non tutti debbono essere stati rassicurati da Belisario: nottetempo, qualcuno tentò di aprire le porte del tempio di Giano, il tempio che un tempo veniva aperto quando Roma era in guerra. Forse si annidavano ancora dei pagani in città, forse si trattava di superstiziosi che volevano seguire le tradizioni della città. E’ curioso che il fatto sia riportato da Procopio: si tratta di uno dei labili indizi che potrebbero svelare le simpatie pagane di Procopio, anche se questo non è dimostrato né dimostrabile.  

La missione di Procopio di Cesarea

Belisario era però molto preoccupato e all’inizio dell’autunno diede l’incarico al nostro Procopio di recarsi a Napoli e lì raggranellare ogni possibile rifornimento sia di uomini che di viveri e portarli quanto prima a Roma.

la porta ostiense, detta già nella tarda antichità “Porta San Paolo”

Procopio uscì con alcune guardie, di notte, dalla porta San Paolo, l’antica via per Ostia: eluse le staffette dei Goti della loro fortezza sull’Appia e giunse in Campania sano e salvo. Le guardie tornarono a Roma e riferirono che i Goti non erano particolarmente attenti nel bloccare la città. Allora Belisario decise di alzare ancora la posta: inviò mille dei suoi cavalieri a Terracina, per occuparla e costruire una fortezza sul mare, dalla quale far affluire rifornimenti a Roma. Allo stesso tempo comandò agli Unni di fortificare l’area della Basilica di San Paolo che si trovava fuori dalle mura della città lungo la via per Ostia ed era stata finora risparmiata dalla guerra, visto che i Goti rispettavano le grandi basiliche di San Pietro e San Paolo e, a detta di Procopio, non gli procurarono alcun danno durante l’intero assedio.

Gli Unni non avevano di questi problemi, come dire? religiosi. Fortificarono l’area con un terrapieno e da allora i Goti non osarono più avvicinarsi alla via ostiense, lasciando aperta una vitale via d’accesso a Roma, utilizzata per i rifornimenti e l’ingresso di nuove truppe.

San paolo fuori le mura

Belisario inviò inoltre un contingente di soldati a Tivoli, con il compito di fortificare la città e bloccare i rifornimenti provenienti da est agli assedianti, già resi difficoltosi dal fatto che gli imperiali tenevano diverse fortezze verso nord. Tutte queste manovre tattiche furono prese da parte di un esercito, lo ricordiamo, di numero assai inferiore ai suoi opponenti, con l’aggravante che gli imperiali erano stati appena sconfitti in una battaglia campale. In questo Belisario dimostra una grande audacia e flessibilità strategica, proprio quello che in questo frangente parve mancare a Witigis. Per effetto di queste azioni i Goti iniziarono ad avere problemi di vettovagliamento, patendo loro stessi la fame e trasformandosi da assedianti in assediati. Anche tra i Goti fece visita madame pestilenza: ci furono molti morti, cosa che forse spiega la loro scarsa mobilità dei Goti in questa fase dell’assedio.

Nel frattempo Procopio era attivo in Campania: raccolse 500 uomini e un gran numero di rifornimenti alimentari, il tutto mentre il Vesuvio minacciava una delle sue violente eruzioni, qualcosa che spaventò non poco il nostro storico. Tutto era quasi pronto quando finalmente sbarcarono nel porto di Napoli dei veri rinforzi, inviati da Giustiniano: si trattava di ben 3.000 isaurici. In contemporanea sbarcarono ad Otranto ottocento cavalieri scelti, al comando di Giovanni il sanguinario, il nipote di Vitaliano: ricordate il ribelle ai tempi di Anastasio, fatto uccidere da Giustiniano? Altri 1000 cavalieri sbarcarono invece a Taranto: Giustiniano aveva dato fondo alle sue risorse e inviato quanti più rinforzi gli era stato possibile raggranellare nel corso dell’estate, a quanto pare tratti soprattutto dai due eserciti presentali.

Nel giro di pochi giorni, i soldati si riunirono a Napoli: Giovanni prese il controllo di tutte le forze e decise di marciare uniti lungo la via Appia, con un grande numero di carri carichi di rifornimenti al seguito. In questo modo, se fossero stati attaccati dai Goti, gli imperiali avrebbero potuto costruire una fortezza con i carri, una tipica tattica dei popoli germanici. La colonna si diresse verso Roma, seguita anche dalla flotta imperiale. I soldati di Giovanni passarono da Terracina e inviarono un messaggero a Roma per informare del loro imminente arrivo il generalissimo.

Belisario temeva che la colonna fosse intercettata e distrutta dall’esercito gotico; per evitarlo decise di organizzare una sortita in forze: fece rimuovere le pietre con le quali aveva bloccato la Porta Flaminia, come narrato nello scorso episodio. I Goti avevano capito che questa porta era sbarrata e non si attendevano un attacco da quella parte. Il giorno dopo, Belisario ordinò a 1000 cavalieri di uscire dalla Porta Pinciana e di attaccare uno degli accampamenti nemici, facendo piovere frecce sui Goti. Questi presero mano alle armi, l’allarme fu suonato e tutti i Goti degli accampamenti vicini iniziarono a convergere sugli assalitori. A questo punto gli imperiali fecero dietrofront e si diressero verso la Porta Pinciana, tirandosi dietro una grande massa di nemici. Quando i Goti furono vicini alle mura di Roma, la Porta Flaminia si aprì per la prima volta dall’inizio dell’assedio e Belisario condusse il resto dei suoi e attaccò sul fianco destro i Goti, con l’ausilio della nostra coppia di amici: l’effetto sorpresa e l’attacco sui fianchi. Ora anche i 1000 cavalieri originali volsero i cavalli e attaccarono il nemico di fronte, presi su due lati i Goti fuggirono disordinatamente, venendo falciati dalla cavalleria imperiale. I Goti si ritirarono nei loro accampamenti a leccarsi le ferite, mentre la colonna dei rifornimenti imperiali giunse sana e salva dentro Roma, oramai con più provviste e più difensori di quanto avesse mai avuto sin dall’inizio dell’epico assedio.

La trattativa

Fu l’ultima goccia che fece traboccare il vaso: Witigis inviò a Belisario degli ambasciatori per negoziare la pace, ora che era chiaro che non avrebbe mai preso Roma. Tre ambasciatori giunsero a Roma, uno dei quali un cittadino romano molto stimato dai Goti: gli storici si sono arrovellati su chi potesse essere costui, forse Cipriano, forse lo stesso Cassiodoro. E’ importante comunque ricordare che una parte importante della società italiana era rimasta fedele al Re dei Goti e degli Italiani.

L’ambasciatore espose le sue ragioni: “La guerra non ha portato all’affermazione definitiva né dell’una né dell’altra parte. Ora noi, per parte nostra, abbiamo deciso di discutere l’opportunità di porre fine alla guerra”. Belisario invitò dunque gli ambasciatori ad esporre il suo pensiero su come raggiungere questo obiettivo. Quello che segue è un passo interessantissimo di Procopio, perché illustra il punto di vista di chi si opponeva agli imperiali. Parlarono infatti i Goti: “Voi Romani ci avete fatto un gran torto prendendo senza alcun motivo le armi contro di noi, vostri amici e alleati. Noi Goti non abbiamo conquistato il territorio italiano strappandolo a forza ai Romani, già Odoacre se ne era impadronito detronizzando il legittimo imperatore Romolo Augustolo. Zenone, sebbene desiderasse vendicare il suo collega nell’Impero, non fu capace di abbattere il potere di Odoacre e perciò convinse Teodorico, il nostro Re, a mettere fine alle ostilità tra loro e ad andare a vendicare l’offesa recata da Odoacre a Romolo Augustolo, per poi governare egli stesso in piena legalità l’Italia e i Goti. Noi non abbiamo dominato l’Italia illegalmente e abbiamo conservato le sue leggi e la sua forma di governo, esattamente quali erano sotto gli Imperatori. Abbiamo anche rispettato scrupolosamente le credenze religiose dei Romani, tanto è vero che nessun italiano fino ad oggi ha abiurato la sua fede, né di sua iniziativa né per costrizione, mentre lo stesso non si può dire dei Goti, molti dei quali sono passati alla vostra fede. Se qualcuno può dimostrare che quello che abbiamo detto non è vero si faccia avanti e ci smentisca!

 E ora voi, che non avete mosso un dito quando l’Italia era vessata da Odoacre e dai suoi barbari, ora voi venite qui senza averne alcun diritto e trattate ostilmente noi che abbiamo acquistato legittimamente questa terra. Partite dunque, e riportate via tutte le vostre cose e quello che avete preso con i vostri saccheggi”.

Trovo straordinario che Procopio abbia riportato in modo così fedele e bilanciato quella che doveva davvero essere l’opinione dei Goti, i quali come prima cosa nelle trattative con i Romani ci tennero a stabilire che la loro presenza in Italia era legale. Un dominio sancito da trattati e che era stato per anni di mutuo beneficio per Goti ed Italiani. Sembra un’orazione di avvocati nel foro durante un processo legale: certo, non possiamo sapere se davvero gli ambasciatori dei Goti dissero questo, ma non dubito che il nocciolo della sostanza fu quello. Il regno d’Italia si basava su un accordo ben chiaro con l’Impero, accordo che, dal punto di vista dei Goti, era stato disatteso dall’Impero.

Belisario non era per nulla interessato a questi discorsi, la sua risposta fu secca: l’Italia apparteneva all’Impero Romano, gli Ostrogoti erano solo degli abusivi in Italia. Quanto a Zenone, è vero che aveva mandato in Italia Teodorico per sconfiggere Odoacre, ma non per cedere per sempre il paese a Teodorico e i suoi Goti. Erano loro che avevano rotto i patti con l’Impero, non restituendo l’Italia al suo legittimo proprietario. Da bravi cittadini dell’Impero dei Romani, Belisario e i Goti continuarono dunque a duellare sui principi legali, il passatempo preferito dei Romani di ogni epoca. Ma alla fine si giunse alla negoziazione vera e propria. I Goti offrirono la Sicilia all’Impero: Belisario, per schernirli, offrì in cambio la Britannia, come per dire che la Sicilia non era in mano dei Goti e non avevano alcun diritto di offrirla in cambio di alcunché. I Goti allora esplorarono un’altra offerta: erano disposti a cedere l’Italia meridionale, fino alla Campania e Napoli. Belisario a questo punto disse che la cosa andava sottoposta all’Imperatore per la sua approvazione. A questo punto i Goti offrirono una tregua per alcuni mesi, il tempo necessario ai loro emissari di giungere a Costantinopoli e tornare con la risposta dell’Imperatore: la proposta fu accettata da Belisario, che aveva tutto l’interesse a comprare tempo per far giungere altri rinforzi e rifornimenti a Roma.

Giovanni il sanguinario

Durante la tregua, che durò da Novembre 537 al Febbraio del 538, i Goti abbandonarono Porto, che fu rioccupata dagli imperiali: infatti i Goti lì presenti soffrivano la fame, perché il mare era oramai controllato dalla flotta imperiale. Per la stessa ragione i Goti abbandonarono Civitavecchia, anch’essa fu occupata dai soldati di Belisario. Belisario inviò anche delle truppe ad occupare Albano laziale, formando quindi una rete di fortilizi e presidi attorno ai Goti, visto che già controllava delle piazzeforti in Umbria. Diciamo che la sua applicazione della tregua fu alquanto disinvolta e i Goti iniziarono a temere di essere stati gabbati: si lamentarono con Belisario, ma questi gli rise in faccia: erano loro che abbandonavano dei presidi, non era certo colpa sua se li rioccupava.

Ma la manovra più aggressiva di Belisario doveva ancora arrivare: oramai Roma era ben difesa e il generalissimo decise di far svernare 2.000 dei suoi migliori soldati nella città di Alba Fucens, nel moderno Abruzzo, l’ultima citazione nella storia di questa città: la città verrà presto abbandonata, come tante altre città romane durante la guerra gotica. Per inciso, Alba Fucens è a pochi km da dove sono nato io, nei suoi scavi c’è una piccola chiesa romanica, realizzata con materiali di spoglio: è dove si sono sposati i miei genitori e vi assicuro che vale la visita. Chiedo scusa per lo spot turistico, ma il mio Abruzzo è di solito tagliato fuori dalla storia, e ho usato l’occasione per parlarne un po’.

Scavi di Alba Fucens. la citazione di Procopio è l’ultimo segno di vitalità per questa antica colonia latina, la città verrà abbandonata durante la guerra gotica, o poco dopo.

Belisario mise Giovanni il sanguinario a capo del contingente di soldati d’élite inviati ad Alba Fucens: la sua missione era di restare fermo fintantoché reggeva la tregua. Se Giovanni si fosse però accorto che la tregua veniva violata, il suo compito era di invadere il Piceno, ovvero le moderne Marche e Abruzzo costieri, un’area molto importante per i Goti: come ho detto in passato, molti di loro avevano casa e famiglia in questa zona. Il compito di Giovanni sarebbe stato di saccheggiare ogni luogo dove vivevano i Goti, prendendo in schiavitù le mogli e figli dei guerrieri che assediavano Roma. Gli italiani invece non andavano toccati in alcun modo, l’obiettivo di Belisario era sempre di dividere la popolazione latina dall’esercito un tempo a sua difesa. Giovanni avrebbe dovuto tenere ben stretta la sua preda, che sarebbe poi stata divisa tra tutti i soldati imperiali. Con queste istruzioni dettagliate, Giovanni partì per Alba Fucens. La guerra è sempre un affare da macellaio, vorrei comunque attirare la vostra attenzione sull’uso disinvolto del terrore e della schiavizzazione di innocenti da parte di Belisario.

Game over

Witigis divenne sempre più impaziente mentre vedeva che gli imperiali distribuivano presidi in giro per l’Italia centrale: si decise o forse fu pressato a tentare un nuovo assalto alla città. Prima i Goti esplorarono la possibilità di utilizzare gli ingressi degli acquedotti, come aveva fatto Belisario a Napoli, ma questi erano bloccati e comunque i Goti furono avvistati dalle sentinelle di Roma. Poi i Goti provarono a montare un attacco alla Porta Pinciana, ora che le guardie erano un po’ più rilassate: mentre formavano lo schieramento di attacco furono però attaccati dai cavalieri imperiali e messi in fuga. Infine Witigis provò a pianificare un attacco in direzione delle mura fluviali di Roma, in corrispondenza di quella che oggi è detta ansa barocca, l’area di Piazza Navona e del mausoleo di Augusto. Per farlo, Witigis convinse due Romani a distribuire vino drogato alle guardie, uno dei due però tradì il complotto a Belisario. Questi spedì il secondo congiurato, mutilato ma vivo, all’accampamento dei Goti. Belisario ritenne che i patti della tregua fossero stati violati e ordinò a Giovanni di mettere in atto il suo piano.

Giovanni il sanguinario fu all’altezza del suo soprannome e della sua fama di uomo d’iniziativa: una scia di sangue gotico si sparse tra le case e i villaggi dei Goti del Piceno: i villaggi furono bruciati, le donne violentate e schiavizzate, i bambini trascinati via dai soldati imperiali. lo zio di Witigis, Il locale Comes gotico, provò a resistere e difendere il suo popolo: la guarnigione del Piceno non aveva però nessuna speranza contro la crema dell’armata imperiale e furono tutti massacrati fino all’ultimo uomo da Giovanni. Questi evitò accuratamente le città di Osimo e Urbino, due piazzeforti ben difese, e accolse invece l’invito dei cittadini di Rimini ad occupare la loro città, giungendo rapidamente in Romagna ed occupando la città dove un giorno nascerà il più grande regista italiano.

Giovanni entrò perfino in corrispondenza con Matasunta, la figlia di Amalasunta e la sposa forzosa di Witigis: Matasunta odiava il marito, che considerava un usurpatore, e tramò con Giovanni per cedere Ravenna ai soldati imperiali. La decisione di Giovanni di rischiare l’occupazione di Rimini era una mossa audace e strategica: Rimini era vicinissima a Ravenna, Witigis non poteva correre il rischio di perdere la sua capitale, dopo aver perso Roma.

Il calcolo di Giovanni si dimostrò esatto: Witigis non sapeva di Matasunta, ma comunque la minaccia a Ravenna era troppo per il Re: i Goti erano affamati, erano stati più volte sconfitti, i soldati imperiali parevano saltare fuori da ogni dove come funghi, gli ambasciatori inviati a Costantinopoli non tornavano. E fu così che il primo marzo del 538, a un anno e nove giorni dall’inizio dell’assedio, Witigis diede ordine ai suoi di fare le valige e partire. Belisario non aveva alcuna intenzione di lasciarli andare tranquillamente: quando metà del loro esercito ebbe passato il Ponte Milvio, Belisario scatenò i suoi uomini contro i Goti; molti morirono trafitti dalle frecce o a causa dell’acciaio degli imperiali, molti altri fecero la fine dei soldati di Massenzio, accalcandosi sul ponte Milvio e finendo nelle acque del Tevere. Per citare il bollettino della vittoria di Armando Diaz, i resti di quello che era stato uno dei più potenti eserciti del mondo risalirono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.

Uno dei più grandi assedi della storia

Sono assolutamente stupito che questo assedio e questa epopea omerica di coraggio e determinazione, da entrambe le parti, non sia più conosciuta in Italia. Ci sono tutti gli elementi di ogni tragedia e di ogni romanzo: Davide contro Golia, l’ingegno ed il coraggio, la determinazione e la disperazione, l’intrigo e l’incrociarsi delle spade. Forse per gli italiani è difficile immedesimarsi davvero con entrambi i combattenti: i Goti percepiti semplicemente come barbari, gli imperiali come dei Greci, dei Bizantini. In realtà, i Goti erano oramai italiani, nati in Italia e parte della fabbrica sociale del paese, gli imperiali di converso erano i veri eredi della civiltà e della tradizione militare romana. Entrambi potevano accampare diritti su Roma, entrambi lo fecero, senza peraltro curarsi troppo dell’opinione dei suoi cittadini, per la maggior parte del tempo degli spettatori attoniti del dramma.

Spero però di aver dimostrato che non occorre parteggiare per una delle parti per sentirsi parte di un dramma, per sentirsi a fianco di ogni combattente e di ogni civile intrappolato in eventi più grandi di lui. Spero anche voi abbiate patito la fame, vi siate ammalati, vi siate preoccupati della costante minaccia di una battaglia, o della morte, in una battaglia che pare più il resoconto di un fronte della prima guerra mondiale, tornando a Diaz, che quello di una guerra antica.

Eppure l’epica battaglia di Roma non fu il culmine della guerra. Perché, parafrasando questa volta il Signore degli Anelli, la battaglia per Roma è finita, ma la battaglia per l’Italia sta per iniziare.

Grazie mille per l’ascolto! Vorrei ringraziare Simone Guida di Nova Lectio per aver prestato nuovamente la sua voce a Belisario, grazie anche a Riccardo Santato il Goto, per la voce e per le musiche. Vi ricordo che potete trovare tutte le puntate, i testi del podcast, mappe, fonti e genealogie sul mio sito italiastoria.com. Se volete sostenermi, c’è anche una sezione con questo fine, oppure potete diventare Patreon su http://www.patreon.com/italiastoria. Alla prossima puntata!

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