Immaginatevi ora questa scena, come me la sono immaginata io: nel bosco si aggirano migliaia di stanchi soldati, i vestiti sporchi e laceri sono troppo grandi per la loro corporatura: da tempo soffrono la fame. Hanno mangiato già gli animali che potevano trovare, qui, su questi aspri monti. Sono finite le ghiande, le castagne e qualunque altro cibo. Non c’è nessuna notizia di soccorsi in arrivo e la via d’uscita da questa trappola passa per le spade e le lance dei loro nemici.
Il Re li ha chiamati a raccolta, i visi di tutti sono gravi. Forse vuole annunciare che è giunto il tempo di arrendersi all’Eunuco e ai suoi mercenari. Teia inizia a parlare con voce grave, ma determinata.
“Miei compagni, miei soldati, miei amici. Il nemico ha preso tutto quello che avevamo: le nostre ricchezze, le nostre terre, le nostre case, le vite dei nostri commilitoni e dei nostri cari. Oggi ci restano solo due cose: le nostre spade, e il nostro onore. Non posso illudervi con sogni di vittoria e di riscatto, posso solo chiedervi di usare quello che vi resta, le vostre spade, per difendere il vostro onore. I nostri avi non si sono mai arresi di fronte al potere soverchiante dei loro nemici e hanno sempre combattuto per la loro libertà: forse non possiamo più salvare il nostro regno, ma possiamo ancora rendere i nostri antenati fieri dei loro discendenti, così che ci guardino con benevolenza mentre ci accompagnano nella vita che verrà. Se questa deve essere la nostra ultima ora, facciamo in modo che sia cantata da chi vivrà ancora negli anfratti delle colline e delle montagne di questo paese. Un giorno si dirà che qui giacciono i nostri corpi, ma non il nostro coraggio. Combatterete al mio fianco?”*
Un urlo unisono si alza dalla folla, mentre le spade e le lance si alzano in cielo. Non è ancora tempo di arrendersi: oggi l’esercito dei Goti combatterà.
*Nota: a differenza del solito – tendo solo a quotare fonti antiche – questo discorso è inventato ma liberamente ispirato ad altri “discorsi” di capi gotici riportati da Procopio, a loro volta probabilmente frutto dell’immaginazione.
I Longobardi tornano a casa (per ora)

Dopo il suo trionfo a Busta Gallorum e l’identificazione del corpo di Totila, Narsete come prima cosa convocò i Longobardi. L’eunuco si era reso conto che questi alleati, così utili per vincere la battaglia, sarebbero stati un handicap nei mesi seguenti. Procopio sostiene che i Longobardi, dopo la battaglia e durante la marcia in Italia, si erano abbandonati a saccheggi e stupri, anche di chiese e membri del clero, visto che la maggior parte di loro non erano Cristiani. Questo è possibile, ma ricordiamo anche che i Longobardi erano malvisti dai Franchi: il generalissimo può aver avuto diverse ragioni per prendere la decisione che prese. Sta di fatto che, come Aragorn con i non-morti dunlandiani, Narsete decise di rinunciare ai loro servigi dopo la prima battaglia, e con la guerra tutt’altro che conclusa.
Narsete era oramai convinto di non dover più affrontare un grande esercito gotico sul campo di battaglia e decise quindi di rimandarli nelle loro case. Li coprì prima di doni e li pagò, dando ordine a Valeriano di accompagnarli e scortarli fino ai confini dell’Impero. I Longobardi tornarono in patria, e con loro portarono le storie di un paese caldo, dalle dolci colline e grandi città che – pur nella devastazione della guerra – sembrava decisamente più attraente della loro presente sistemazione in Pannonia. Nel viaggio di ritorno, non ho dubbi, segnarono bene nella loro memoria le vie e la conformazione di quello strano paese. Tra qualche anno saranno di ritorno.
Una volta accompagnati i Longobardi fino all’Adige, Valeriano li lasciò ai confini del Veneto dominato dai Franchi. Lui stesso invece andò a piazzare il suo esercito sotto le mura di Verona, reclamandone la resa. Il Comes gotico rimasto in città era pronto a consegnarla, ma i Franchi intervennero con il loro esercito, occuparono la città reclamandola al loro dominio e costrinsero Valeriano a battere in ritirata a sud del fiume Po.
L’ultimo Re

Intanto, a poco a poco, a Pavia si radunarono i soldati dell’esercito d’Italia che erano sopravvissuti al massacro di Busta Gallorum e che avevano ancora intenzione di combattere. Nel giro di poco tempo, si riunirono e decisero di eleggere come loro Re il coraggioso e giovane Teia. Il nuovo re fu alzato sugli scudi e i Goti poterono sognare un’ultima volta un regno indipendente.
Alla notizia dell’elezione, Narsete fece sapere a Valeriano di controllare in modo attento la linea costituita dal fiume Po, di nuovo la frontiera tra il Regno di Teia e l’Impero dei Romani, come all’inizio del regno di Totila.
Oramai però erano finiti i tempi in cui Pavia poteva pensare di combattere la guerra da sola: Teia inviò immediatamente dei messaggeri alle corti dei Franchi, chiedendo un’alleanza militare nella quale il Regno d’Italia sarebbe stato inevitabilmente in una condizione di partner subordinato. Teia ottenne probabilmente l’appoggio da Theodebald di Austrasia: un grande esercito di Franchi sarebbe giunto in Italia, appena fosse stato possibile organizzarlo. In cambio, Teia offrì in pagamento una grande fetta del tesoro reale rimasto, oltre che – con tutta probabilità – qualche forma di sottomissione alla superiore autorità franca. Il problema, per Teia, era che una gran parte del tesoro e delle insegne reali erano custodite nella fortezza di Cuma, in Campania: se Teia avesse voluto avere una possibilità di pagare i Franchi, avrebbe dovuto assicurarsi quel denaro: il problema era che tra Pavia e Cuma c’era l’esercito di Narsete.
Nel frattempo il generale-eunuco marciò da Gualdo Tadino verso il cuore dell’Umbria, conquistando Narni e Spoleto e dando ordine agli spoletini di ricostruire le mura fatte abbattere da Totila. Poi passò ad assediare Perugia: qui il presidio in teoria gotico era formato da soldati imperiali disertori, che litigarono tra loro per decidere se arrendersi oppure no. Il diverbio sfociò in una lotta armata, nella quale molti di loro perirono, incluso i due comandanti della guarnigione. Perugia tornò in mano imperiale.
Per gli imperiali la tappa seguente non poteva che essere Roma. Poco dopo la resa di Perugia, Narsete giunse sotto le mura della città eterna: qui c’era ancora un presidio di Goti, determinato a difendere l’antica capitale del mondo romano. E così Roma si accinse al suo quarto assedio in quindici anni. I difensori erano però poche migliaia e non avevano le forze di difendere l’intero circuito delle mura. In più dentro non c’era un Belisario e fuori non c’era un Witigis; quindi, questa volta le cose andarono più rapidamente. Narsete diede ordine di lanciare continui, piccoli attacchi in più settori delle mura, costringendo i Goti a dividersi in piccoli drappelli con il compito di difendere le varie porte, i punti più vulnerabili. Narsete ne approfittò: decise di inviare un forte contingente ad attaccare un tratto delle mura lasciate indifese. Questa unità era sotto il comando di Dagisteo, il generale che era stato richiamato dalla guerra in Lazica dopo le lamentele dei Lazi, ricordate? Gli uomini di Dagisteo scalarono le mura con l’ausilio di alcune scale. Quando i Goti si accorsero che un forte contingente di nemici era già sulle mura, si diedero subito alla fuga. Niente da fare, nonostante infinite occasioni temo che i Goti stiano terminando il tempo per iscriversi al mio corso “assedi, come farli e come subirli”.
L’ultima caduta di Roma fu forse la più sanguinosa: furiosi, i Goti in ritirata non risparmiarono i senatori romani presenti, mentre Procopio lascia capire che i soldati imperiali si abbandonarono a violenti saccheggi. Procopio incolpa soprattutto i barbari che militavano nell’esercito imperiale che, pur privi dell’ausilio dei Longobardi “trattarono come nemici tutti coloro che trovarono al loro ingresso nella città”.
L’assedio di Cuma

Gli ultimi vagiti della guerra accelerarono il disastro per la classe dei possidenti italiani: Teia fece uccidere 300 ostaggi che Totila aveva raccolto a nord del Po. Allo stesso tempo la notizia della presa di Roma si sparse verso la Campania, dove viveva la maggior parte dei senatori romani catturati da Totila. Questi decisero di tornare a Roma, ma le guarnigioni dei Goti presso l’Appia e la via Latina gli diedero la caccia, anche qui uccidendo chi potevano tra i senatori: a perire fu anche un nome famoso, Flavio Anicio Massimo, nipote dell’imperatore Petronio Massimo – ricordate i suoi 75 giorni gloriosi di regno? Il suo discendente era stato console nel 523 sotto Teodorico, organizzando anche dei giochi tra gladiatori e belve feroci al Colosseo. Poi, sotto Teodato, aveva sposato una principessa degli Amali, imparentandosi con il Re. Catturato da Totila dopo l’ultimo assedio di Roma, era stato tenuto prigioniero in Campania. Nella sua vita, si vede la parabola dell’intera classe senatoriale romana: un tempo era co-reggente con Teodorico, ora era morta o, ancor peggio, ininfluente.
Narsete, una volta presa Roma, inviò dei suoi uomini a riconquistare la fortezza di Petra Pertusa, per riaprire la Flaminia. Inviò altre truppe a prendere possesso di Fiumicino e Civitavecchia, i porti di Roma, e altri ad assediare la fortezza di Cuma, a sud. Narsete deve aver anticipato che questa azione avrebbe causato una reazione da parte di Teia, perché inviò Giovanni il sanguinario e l’Erulo Filemuth a controllare i valichi degli appennini, in Umbria e Toscana.
Teia giunge in Campania
Narsete aveva ragione: alla notizia dell’assedio di Cuma, Teia uscì da Pavia con i suoi ma, esperto delle vie d’Italia, riuscì ad evadere i blocchi di Giovanni il sanguinario e Valeriano e, passando lungo l’Adriatico, raggiunse l’Italia del Sud. Una volta valicati gli appennini vicino Napoli, si posizionò nei pressi del Vesuvio: il suo obiettivo era evitare che gli imperiali prendessero Cuma, la sua attuale posizione serviva a minacciare gli assedianti.
Quando Narsete venne a sapere che Teia era riuscito a passare, fece richiamare Valeriano, Giovanni e Filemuth e raccolse a Roma tutte le sue forze. Poi, al gran completo, gli imperiali marciarono sulla Campania, per andare a schiacciare questo nuovo Re dei Goti.

Nel frattempo Ragnaris, il comandante della fortezza gotica di Acerenza nella moderna Basilicata, venuto a sapere dell’elezione di Teia decise a rinnegare il patto di resa condizionata che aveva stretto con il comandante imperiale di Dryus. Ragnaris, in realtà, era un Unno che aveva defezionato per Totila, cosa che dimostra come ci troviamo di fronte a lotte di potere che non si dividono su strette linee etniche.
L’arrivo del grande esercito imperiale di Narsete costrinse Teia a ritirarsi in una ridotta dove fosse possibile resistere a lungo, in attesa dell’arrivo dei Franchi. I Goti si ritirarono verso quella che oggi è l’agro nocerino-sarnese e si stabilirono su una forte linea difensiva lungo il fiume Sarno. Non erano distanti da Pompei, l’antica città sepolta dal Vesuvio.
La valle del Sarno è descritta da Procopio come stretta e profonda, quindi nonostante la dimensione ridotta del fiume, costituiva comunque una barriera per gli imperiali. Inoltre i Goti avevano occupato l’unico ponte disponibile e lo avevano fortificato con delle torri di legno e delle grandi ballistae, le macchine da assedio romane a forma di enorme balestra. I Goti avevano accesso al mare e quello che rimaneva della loro flotta tirrenica gli permetteva di portare rifornimenti al loro accampamento.
Per due mesi la situazione rimase in stallo, mentre i due eserciti si limitavano a sfidarsi a duelli con gli archi, in una sorta di guerra di trincea ante litteram. Alla fine però Narsete fece giungere da Roma e dalla Sicilia le flotte imperiali. Vista la mala parata, il comandante della flotta del regno tradì Teia e si consegnò agli imperiali con tutte le sue navi. Nel frattempo Narsete aveva fatto costruire delle torri sul fiume dragone, dalle quali tormentava i Goti. Affamati e sempre più disperati, gli uomini di Teia convinsero il Re a ritirarsi sui monti Lattari, le montagne che fanno da colonna portante della penisola sorrentina. Presto però i Goti iniziarono a patire ancora di più la fame, perché non c’era alcun cibo commestibile nelle selve. Narsete si accampò alla base delle montagne, aspettando che il generale fame facesse il lavoro per lui.
L’ultima battaglia

Teia comprese allora che si era alla fine: radunò i suoi. E qui torniamo alla scena all’inizio del podcast: alla fine Il fiero popolo gotico, come sempre nella sua storia, non si rassegnò ad un tramonto codardo. Teia e i suoi discesero dai monti con la furia di uomini condannati a morte, cogliendo in parte di sorpresa gli imperiali, che furono costretti a formare i ranghi alla bell’e meglio, lì dove si trovavano, incuranti delle composizioni formali dei reparti.
I Goti, per quest’ultima battaglia, abbandonarono i loro cavalli, forse un sintomo che avevano compreso che non avrebbero mai infranto lo schieramento imperiale con una carica di cavalleria, come aveva provato a fare Totila pochi mesi prima. Lo stesso fecero gli uomini di Narsete. La battaglia dei Monti Lattari, come è oggi conosciuta, fu quindi una lotta di fanti contro fanti, come ai bei tempi andati. Gli imperiali compresero che i nemici erano alla disperazione e alla fame, e avrebbero combattuto con sprezzo del pericolo, senza ritirarsi. Questa battaglia sarebbe stata decisa dal coltello del macellaio, non da abili tattiche e strategie.
Lo scontro iniziò la mattina presto di una giornata di ottobre del 552. Teia si posizionò al centro dello schieramento, facilmente riconoscibile nella sua armatura reale, con la spada sguainata e la lancia protesa in avanti, in primissima fila: gli imperiali pensarono che la battaglia sarebbe stata risolta facilmente: sarebbe stato sufficiente uccidere Teia per far desistere gli altri, e su questo concentrarono i loro sforzi. Procopio a questo punto narra del coraggio di Teia, una narrazione che vibra di ammirazione per l’indomito barbaro, l’ultimo nemico a non arrendersi di fronte alla suprema forza di Roma. È un topos letterario, ma è anche una pagina di grande letteratura. Leggiamola assieme: “Ma egli, protetto dallo scudo, ricevette senza danno tutti i colpi e si gettò improvvisamente sui nemici, uccidendone parecchi. Continuò a combattere in questo modo fino alla terza parte del giorno: il suo scudo era coperto di dodici dardi tanto che non poteva più muoverlo come voleva né respingere gli assalitori. Allora, senza muoversi dalla prima linea, rimase fermo, come se fosse piantato al suolo, con lo scudo imbracciato, continuando a uccidere gli assalitori con la destra, a difendersi con la sinistra e a gridare a gran voce il nome dello scudiero. Appena questi gli fu a fianco, tendendogli un nuovo scudo, Teia fece a cambio con il suo. Ma nel farlo, per un solo attimo il suo petto rimase scoperto e, sventuratamente, proprio in quell’istante venne trafitto da una freccia e morì all’istante”.

Si scatenò un duro scontro per impadronirsi del corpo del Re, vinto alla fine dai romani che infissero la testa di Teia su un palo, mostrandolo agli altri Goti: un chiaro segno che li intimava alla resa. Ma i Goti, privi di Re e ancora più disperati, decisero di continuare a combattere. Quando scesero le tenebre, i Goti stavano ancora lottando. I due eserciti si separarono per dormire, ma tutti rimasero nell’armatura, consapevoli che all’alba si sarebbe combattuto il secondo round. Il mattino dopo, la battaglia continuò ferocemente, mentre i Goti combattevano come animali braccati che non hanno nulla da perdere. Sapevano che non potevano vincere, ma intendevano portarsi con loro quanti più soldati imperiali possibile.
Alla fine della seconda giornata, i Goti erano laceri, esausti, coperti di ferite ma ancora invitti. I loro capi inviarono dei messaggeri a Narsete: riconoscevano di non poter più vincere e che Dio chiaramente non era dalla loro parte. Però si rifiutavano categoricamente di diventare sudditi dell’imperatore: se Narsete li avesse fatti andar via, non avrebbero più causato guai all’Impero. In cambio della resa, chiedevano di riavere le loro ricchezze che erano state confiscate dagli imperiali nell’ultimo disastroso anno di guerra. Narsete era contrario ad accettare la proposta ma alla fine Giovanni il sanguinario andò contro il suo antico soprannome e cercò di convincere Narsete a risparmiarli: inutile combattere ancora, condannando molti imperiali alla morte, com’era inevitabile, perché non è facile combattere contro uomini che erano decisi a morire.
Alla fine Narsete si fece convincere: i Goti che si arresero ottennero un lauto pagamento, giurarono di non prendere mai più le armi contro i Romani e si ritirarono, oltre il Po.
Le ultime parole di Procopio, che chiudono gli otto libri del suo libro “le guerre”, sono queste: “Cosi i Romani ripresero possesso di Cuma e di tutto il resto e dopo diciotto anni ebbe termine la guerra gotica, che Procopio ha raccontato”. Fine, the end.
Procopio: un grande storico

Prima di passare oltre, e analizzare quanto corretta sia questa affermazione, vorrei dire però due parole su Procopio, lo storico che ha nutrito decine di puntate di questo podcast.
L’opera di Procopio è semplicemente monumentale ed offre uno spaccato vivissimo e interessante dell’intero periodo. Procopio è un ottimo scrittore, che sa tenere alta l’attenzione del lettore, scrive in uno stile ricercato ma non prolisso. Si tratta di un testimone diretto di una buona parte degli eventi, che risultano quindi arricchiti di una moltitudine di dettagli. Quello che interessa è anche il punto di vista dello scrittore: non attribuisce alla volontà di Dio o alla virtù degli uomini il successo o le sconfitte – come molti storici antichi e medievali – ma si sforza di mettere alla luce l’apparente irrazionalità della storia e delle vicende umane.
Leggendolo, ho imparato a conoscerlo: mi ha colpito la sua sensibilità per l’arte e l’architettura, quell’amore per il passato che lo rende così familiare e affascinante a chi vive di amore per la storia. Per non parlare del suo atteggiamento nei confronti della religione. Sulle questioni riguardanti Dio, a volte Procopio dimostra uno scetticismo che è completamente inusuale tra i suoi contemporanei, cito un passo, relativo alle diatribe sulle nature di Cristo: “Quanto a tale controversia io, sebbene ne sia informato, non voglio assolutamente farne cenno, perché mi sembra una sorta di stolta follia indagare quale possa essere la natura di Dio: all’uomo è già difficile, a me pare, capire chiaramente le questioni umane, senza dubbio è ancora più difficile per gli uomini capire quelle che riguardano la natura di Dio! Non voglio affermare nient’altro riguardo a Dio, se non che Egli è infinitamente buono e tiene ogni cosa in suo potere”. Un atteggiamento talmente atipico per la sua epoca, da mettere in dubbio quello che sappiamo non solo su di lui, ma forse sul suo intero mondo. Gibbon, nel XVIII secolo, ci vide un illuminista ante-litteram, io non mi sento di condividere: Procopio è evidentemente convinto dell’esistenza di Dio ed è anche estremamente superstizioso, di una superstizione antica, quasi pagana.
Ovviamente, come un uomo dei suoi tempi, i suoi scritti vanno interpretati e non sempre presi alla lettera: sono il punto di vista di un uomo ricco dell’Impero, molto acculturato, misogino e tradizionalista. Le storie segrete sono ancora più problematiche, perché pur essendo una fonte rilevante e interessantissima per comprendere la corte di Giustiniano e il suo tempo, vanno lette con ben chiaro in mente il genere letterario nel quale si inserivano: d’altronde, nessuno darebbe del demone senza testa a Giustiniano. Eppure tutto ciò non può mettere in ombra i grandi meriti dello storico di Cesarea: è evidente che l’opera non poggia solo sull’esperienza diretta – e già questo sarebbe un grande vantaggio – ma anche su uno studio approfondito delle fonti, le interviste di testimoni oculari e in generale un colossale lavoro di ricerca, almeno per i tempi. Ammirevole anche lo spirito dell’opera: Procopio cerca sempre di immedesimarsi nell’altro, di vedere il punto di vista dei nemici dell’Impero, anche se va detto che tende a mettere sulla bocca dei nemici le critiche che anche lui si sentirebbe di fare a Giustiniano e al suo governo. Procopio, inoltre, nonostante sia evidentemente attratto dalle vicende dei ricchi e potenti, si sforza di parlarci anche di come vivevano e vedevano le cose le persone comuni, travolte dal turbinio della storia, nella migliore tradizione storiografica romana e greca.
Infine Procopio va lodato per il suo coraggio: a differenza di Tacito, di tanti altri storici e perfino del mio amatissimo Ammiano Marcellino, Procopio nelle sue “guerre” non scrive solo di passati imperatori, ma descrive in minuziosi dettagli le opere del regime in corso, dei suoi cortigiani e di tutti gli uomini potenti del suo tempo. Si tratta di argomenti molto pericolosi per la carriera, o perfino per la vita. Per la maggior parte dei suoi contemporanei, Procopio emana giudizi senza peli sulla lingua: non ci sono eroi nelle sue storie – salvo forse Belisario nella prima parte e Totila nella seconda, e anche a loro non sono risparmiate critiche.
Nonostante l’animosità nei confronti di Giustiniano, Procopio mantiene uno stile e un contenuto il più possibile imparziale: l’imperatore è lodato quando prende decisioni sagge e razionali, anche se Procopio non gli risparmia frecciate quando ritiene che fallisca nel suo compito di nocchiero dell’Impero. Verso la fine dell’opera, è evidente nel testo l’orrore che Procopio prova per la devastazione inflitta all’intero mondo mediterraneo dalle ambizioni di conquista di Giustiniano: più volte si sente costretto a far notare come l’Africa o l’Italia siano state sì pacificate, ma ad un prezzo terribile, sia per quelle terre che per la sicurezza dell’Oriente.
In definitiva, le guerre e le storie segrete sono delle opere che consiglio a tutti: sono la via più semplice e diretta per immergersi davvero nell’Impero romano del VI secolo. Una nota a chi vorrà cimentarvisi: consiglio assolutamente di leggere l’edizione in vendita con tutte le guerre, anche la persiana e vandalica, e non solo perché alcuni dei passaggi più belli sono lì (Nika, la peste, la conquista di Cartagine) ma perché ho la sensazione che molti lettori, perfino molti storici, si siano concentrati soprattutto sulla guerra d’Italia perdendosi però il quadro completo: leggendo delle altre guerre in corso, è evidente per esempio come le continue lamentele di Procopio a riguardo del supposto disinteresse di Giustiniano nella guerra d’Italia sono mal riposte.
Detto questo, sento una profonda gratitudine nei confronti di messer Procopio da Cesarea: fornendoci sia il punto di vista ufficiale e bilanciato, sia quello ufficioso e polemico, Procopio ha realizzato un mosaico coloratissimo, composto di migliaia di tessere, non solo quelle relative a guerre, politica e potenti, ma anche altre utili a ricostruire un’infinità di dettagli sulla vita del suo tempo. Grazie a Procopio, sappiamo del sesto secolo molto più di quanto conosciamo a riguardo di quasi tutti gli altri secoli di storia romana. Chi vorrà accingersi alla lettura, troverà una vera fonte miracolosa, una macchina del tempo per gettarsi a capofitto in quella che ho definito, molti episodi fa, come una delle grandi storie del genere umano: l’epopea di Giustiniano, Gelimer, Belisario, Teodora, Khosrau, Teodato, Witigis e Totila sarebbe per noi assai meno viva e vivida senza il dono che Procopio fece ai posteri, lui che può essere considerato l’ultimo grande storico dell’antichità.
I Goti siamo noi
Prima di lasciarvi, vorrei spendere alcune parole sul destino dei Goti. Un ascoltatore di questo podcast potrebbe dire che questo finora è stato il podcast della storia dei Goti e non andrebbe davvero molto lontano dalla verità. Abbiamo iniziato a parlarne nell’episodio 3, in relazione a Costantino e alla sua conquista dei Tervingi. Nel corso dei seguenti decenni, hanno iniziato a giocare un ruolo politico nel mondo romano, ricorderete che Athanaric si inserì nella successione a Giuliano l’Apostata e poi raggiunse un accordo con Valente su un’isola al centro del Danubio. Siamo andati più a fondo nella loro storia nell’episodio 14, dedicato al Barbaricum. Abbiamo conosciuto Ulfilas, l’uomo che li convertì al cristianesimo ariano. Poi li abbiamo visti sciamare attraverso il Danubio, sconfitti e spaventati, accolti come rifugiati da uno stato romano incapace di mantenerli in vita. Abbiamo assistito alla ribellione di Fritigern, poi all’orrore che inflissero al Comitatus di Valente ad Adrianopoli. Abbiamo marciato con loro al fianco di Teodosio, nella battaglia del Frigido. Poi li abbiamo visti ribellarsi assieme ad Alaric, diventando i Visigoti. Alaric e Stilicone hanno ballato una danza mortale ma, con la caduta in disgrazia di Stilicone, Alaric è infine giunto in Italia, per negoziare un accordo con l’impero. Al fallimento delle negoziazioni con Ravenna, abbiamo assistito al saccheggio di Roma, il primo in 800 anni. Poi ci siamo spostati con loro in Gallia, dove hanno raggiunto un accordo con Flavio Costanzo, fondando il regno di Tolosa. Mentre i Visigoti soggiornavano nel mondo romano, abbiamo accompagnato gli Ostrogoti nella loro cattività al servizio degli Unni, al seguito di Attila ci siamo recati in Gallia e lì, sui Campi Catalaunici, i Goti di Romania e i Goti di Pannonia si sono scontrati in un’epica battaglia in cui morì il Re dei Visigoti, l’ispirazione per il Theoden di Tolkien.
I Visigoti hanno creato in seguito un grande regno nell’occidente ex romano mentre gli Ostrogoti hanno dovuto ricostruire le loro case nei Balcani, per poi tentare per anni di costringere Costantinopoli a dargli terre e condizioni migliori. Infine siamo stati al fianco di Teodorico e Zenone, quando questi hanno preso due piccioni con una fava, raggiungendo l’accordo che ha portato gli Ostrogoti in Italia. Li abbiamo seguiti nella loro battaglia contro Odoacre, nella quale hanno ricevuto il contributo dei cugini occidentali, i Visigoti. Questi sono stati però sconfitti dai Franchi di Clovis e sono stati costretti a migrare in Spagna, costruendo un nuovo regno a Toledo, presto finito sotto l’egida di Teodorico. Nel frattempo abbiamo assistito alla nascita e allo sviluppo del regno d’Italia, con la fulgida stagione di Teodorico. Poi la storia si è fatta via via più cupa: un precipitoso declino ha afflitto i successori di Teodorico, abbiamo subito con loro i colpi di ariete della diplomazia costantinopolitana. Abbiamo visto Amalasunta associare il cugino Teodato al trono, per poi venire uccisa. Belisario è sbarcato in Italia e il resto è la storia che vi ho appena narrato.
Detta così, quella gotica è un’epopea che attraversa tutto il podcast e che ora è finita. Certo, in occidente c’è ancora un regno dei Visigoti. Le vicende di quel regno, distrutto nell’ottavo secolo dagli Arabi, fanno parte della storia alto-medievale spagnola, ma hanno poca influenza sulle vicende della penisola italiana. Non è un caso che il più grande storico dei Goti, Helwrig Wolfram, termini la sua storia con la battaglia dei Monti Lattari: gli Amali erano la vera dinastia imperiale dei Goti, il regno d’Italia il vero cuore del potere gotico, almeno dopo la distruzione del regno di Tolosa. Nel 536 la casa degli Amali era stata estromessa dal potere, nel 540 il regno era stato sconfitto ed era parso perduto: la stagione di Totila e Teia, pur nella sua eroica bellezza, non poteva che essere un amaro epilogo. In uno dei primi episodi di questo podcast ho detto che questa non sarebbe stata l’ultima volta che avreste sentito parlare dei Goti e non lo sarà neanche del tutto questo episodio, ma certamente oggi termina qualcosa, che non tornerà.
Eppure, anche privi di un regno, che fine hanno fatto i Goti? Cosa gli accadde, emigrarono in massa? Furono deportati? Furono tutti uccisi?
Un tempo la storiografia ottocentesca credeva che si fossero dispersi nell’Europa barbarica dopo la battaglia dei Monti Lattari. D’altronde molti sminuivano la loro importanza nella storia della penisola: i Goti non avevano lasciato tracce di insediamenti, la loro sembrava una mano invisibile che era passata sull’Italia senza lasciare grandi tracce, salvo qualche monumento a Ravenna. I Goti, in sostanza, non parevano aver influito sulla storia dell’Italia, a differenza di quanto avverrà con i Longobardi.
In parte questa impressione è dovuta al volere stesso di Teodorico: preservare le leggi e le istituzioni romane fu la sua politica, il suo regno era davvero il regno dei Goti e degli Italiani. Ci si aggiunse anche una certa prevenzione di storici e archeologi: di fronte ad una meravigliosa chiesa ricoperta di mosaici, come il battistero di Albenga, o la chiesa di Casaranello nel Salento, o una grande villa presso Ravenna, la reazione era di solito sempre la stessa. Molte di queste opere furono attribuite al V secolo, semplicemente perché non si credeva che fosse possibile realizzarle nel VI.
Oggi sappiamo che così non è. L’impatto del Regno, pur nella sua breve durata, fu profondo. Le sue radici però furono spezzate dalla guerra e avvizzirono: la nascente simbiosi ed etnogenesi tra Goti e latini, alla ricerca di una nuova sintesi italiana, fu interrotta. Eppure neanche allora i Goti scomparvero.
Dopo la sconfitta dei Monti Lattari, ancora per anni il volere dell’Impero non si estese al di là del fiume Po: come vedremo, nelle Venezie, la popolazione locale, la leadership dei Goti e i Franchi formarono una sorta di alleanza che tenne l’area per molti anni. In Liguria, molte città rimasero a lungo in mano alle autorità regie e alle aristocrazie locali, oramai prive di un Re. Eppure prima o poi anche queste ridotte di potere gotico-italiano furono conquistate, come vedremo.
Si può trovare indizi del fato dei Goti grazie ai documenti e all’archeologia: a Ravenna sono conservati dei papiri del tempo di Narsete. In uno di questi, una certa Germana cede un terzo della sua eredità ad un prete che sarà il guardiano legale di suo figlio Stefano. Nell’eredità c’è una schiava, Ranihilda, probabilmente una prigioniera della guerra gotica, e anche le povere cose di Guderit, un servo di suo marito e le cui proprietà, alla sua morte, erano tornate al padrone. Guderit è a sua volta, chiaramente, un goto. Il papiro riporta minuziosamente le sue proprietà: un baule con chiave, una pentola da cucina in ferro, un bollitore rotto, un attrezzo per la semina, una pietra per arrotare gli strumenti, una scatoletta, una brocca, un cestino per grano, un’anfora, una tinozza, una misura di grano, una camicia colorata, una camicia scolorita, una tovaglia, un vecchio mantello e un mantello militare, il sagum. Da quest’ultimo elemento comprendiamo che forse Guderit aveva militato nell’esercito. Certo è che i suoi poveri possedimenti dimostrano come ci fossero anche molti poveri tra i Goti di Ravenna.
Un altro papiro è ancora più interessante, è stato ritrovato negli archivi di Rieti: si tratta di una causa che risale al 557, 5 anni dopo la battaglia dei Monti Lattari. Si tratta di una procedura legale intentata da Gudahals, una nobildonna gotica che fece causa contro tre uomini: Aderid – vir inlustris – Rosemund e Gunderit – vir magnificus. Dai nomi sappiamo che sono tutti Goti, ma il tribunale a cui si riferirono era ovviamente il tribunale romano della città. I titoli romani di due tra i Goti testimoniano che mantennero dei ruoli politico-militari anche nell’Italia di Narsete.
Secondo Gudahals, I tre uomini avevano occupato dei terreni che appartenevano a lei e ai suoi due figli, Lendarit e Landerit. Il consiglio di Rieti decise quindi di nominare un certo Flaviano al ruolo di arbitro, con il compito di stabilire i giusti confini tra le proprietà della vedova e degli altri tre Goti. In questa causa abbiamo un segno di quello che avvenne dopo la fine del Regno: molti Goti tornarono semplicemente a casa. Possiamo vedere come, nomi a parte, si comportino esattamente come ogni altro proprietario di terra romano, o dovremmo cominciare a dire italiano?
Non fu questo il caso di tutti: altri più a nord, come vedremo, saranno inseriti nel sistema militare imperiale a difesa della penisola e rimasero spesso più attaccati alle loro tradizioni e identità. Non è impossibile che molti di loro si unirono ai Longobardi e, con il tempo, divennero loro stessi Longobardi, come d’altronde faranno i latini, più tardi.
In questi frammenti di testimonianze storiche c’è dunque la risposta alla domanda iniziale: che fine fecero i Goti? Ma è evidente, privi di un forte elemento distintivo come il regno, o il servizio militare, o l’appartenenza ad una casta guerriera, i Goti si fusero nel paesaggio che avevano fatto loro. Vissero ed ebbero figli, che a loro volta si sposarono con la bella vicina con un nome romano. Coltivarono la terra, sotto il sole e sotto la pioggia, mentre gli anni trascorrevano e le generazioni cambiavano. Nonostante la guerra, alla fine il processo iniziato sotto Teodorico arrivò a compimento e la nazione gotica si fuse con i latini. Quindi alla domanda: “dove sono finiti i Goti?” la risposta è semplice. I Goti siamo noi. I loro discendenti camminano nelle nostre strade e la loro storia è altrettanto italiana di quanto lo sia quella romana: siamo discendenti di entrambi, anche se ovviamente non nella stessa proporzione.
La fine?
Abbiamo visto come Procopio scriva un’elegante fine alla guerra gotica: arrivati alla fine del libro, molti lettori credono sulla parola lo storico di Cesarea e pensano che davvero la guerra fosse finita lì. Eppure in Procopio c’è un indizio di problemi a venire: mille Goti, comandati dal disertore imperiale Indulf, abbandonarono le trattative con Narsete prima che fossero concluse, decisi a continuare la guerra in qualche modo. Riuscirono a sfuggire alla rete degli imperiali e dalla Campania si ritirarono a Pavia. Qui però, consapevoli di quanto poco rimanesse dell’Italia gotica, decisero che fosse inutile eleggere un nuovo Re. Teia aveva mandato a chiamare i Franchi, e i Goti attesero con fiducia che qualcuno in primavera valicasse le Alpi, per portare di nuovo la guerra in Italia.
Perché, checché ne dica Procopio, la guerra non è finita. Nel prossimo episodio, faremo conoscenza con il continuatore di Procopio, Agazia, la principale fonte di quello che accadde immediatamente dopo la battaglia dei Monti Lattari. Poi valicheremo le Alpi per giungere nella Franchia dei Merovingi, una nuova potenza che è l’araldo di tempi a venire.
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Molto bello!
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Interessante la domanda finale di questo ottimo racconto: che fine fecero i Goti superstiti? Mi risulta che ancora nel 564 il generale Narsete dovette affrontare una roccaforte gotica ed eliminarla; segno che gruppi di Goti continuarono a restare autonomi fino a poco prima dell’invasione longobarda del 568 – 569. Gli stessi Longobardi all’inizio del loro insediamento nella penisola italiana trovarono località del Piemonte occupate dai Franchi negli anni precedenti. Forse anche in queste cittadelle i Goti scampati a Narsete trovarono rifugio.
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