Totila è riuscito ad avere la meglio su tutti: su Costanziano, su Giovanni il sanguinario, perfino su sua maestà Belisario. La vecchia volpe lo aveva gabbato, riprendendo Roma, ma alla fine Totila ha avuto la meglio e la città è tornata nelle sue mani, mentre Belisario è stato costretto a tornarsene a Costantinopoli, con la coda tra le gambe. Tutta la penisola ora ubbidisce al Re d’Italia, salvo una manciata di scogli in mano agli imperiali.
Eppure Totila sapeva che non poteva esserci alcuna sicurezza finché non ci fosse stata pace con l’Impero. Tutti loro vivevano grazie a del tempo preso a prestito nella banca della fortuna. Finalmente Il messaggero torna da Costantinopoli, latore di tristi notizie: Giustiniano non lo ha voluto neanche ricevere. Totila sospira, ahimè sa cosa deve fare: alzare la posta.
Guerra d’Italia
Nello scorso episodio, abbiamo visto come la guerra d’Italia continuò per anni, in quello che sembra un apparente stallo: gli imperiali prendono una fortezza, Totila arriva per assediarla e conquistarla, nuovi rinforzi arrivano dall’oriente e il gioco continua. In realtà in tutti questi anni il territorio di Totila continuò ad espandersi e consolidarsi, mentre una ad una cadevano le fortezze imperiali. Il passo era però troppo lento: Totila prendeva le fortezze romane solo con lunghi assedi per fame, che richiedevano mesi e mesi, tempo che permetteva a Giustiniano di raggranellare ogni anno abbastanza rinforzi da inviare in Italia per evitare di perdere completamente la guerra. Questo perché, come ho più volte detto, negli anni 40’ l’Impero stava combattendo su troppi fronti e con forze debilitate dalla crisi e dalla pandemia. Giustiniano, dal suo punto di vista, riuscì abilmente a mettere il più possibile in stallo la guerra d’Italia, in attesa di ricostruire le sue forze.

In questo episodio, vorrei comporre il quadro riannodando alcuni fili sparsi della narrazione delle vicende del mediterraneo: gli ultimi episodi erano così carichi di pathos e informazioni a riguardo della guerra d’Italia, che non me la sono sentita di interrompere la narrazione per riferirvi cosa accadeva in contemporanea in Africa e in Oriente. Oggi vedremo quindi in che modo le guerre a Cartagine e in Lazica impegnarono le forze imperiali, spesso il lotte per la sopravvivenza. Vedremo scendere dalle foreste extra danubiane diverse ondate di Slavi, un segno di tempi a venire. Ma non temete, torneremo comunque a Totila, che in questo episodio espanderà i combattimenti verso nuovi teatri di guerra.
Giunto a questo punto della nostra storia della guerra gotica, ci terrei a specificare chi è davvero che sta combattendo questa guerra. Gli imperiali rimasti in Italia sono pochi, in totale meno di 10.000 e comunque sparsi in una serie di presidi nella penisola e in Sicilia. Sono però dei soldati veterani e professionisti, arruolati nei monti del Caucaso, tra le popolazioni del barbaricum e nella casta di duri soldati dell’illirico e dell’Asia minore che affonda le sue radici nelle legioni di Diocleziano. Barbero, notoriamente, disse che l’Imperatore Romano portò in Italia un esercito romano composto da Armeni, Goti, Unni, Greci, Siriani, Persiani e che parlavano tutte le lingue del mondo, tranne il Latino. Al 550, molti dei soldati ora in Italia ci sono rimasti per più di un decennio, immagino che il latino lo abbiano appreso, ma non hanno messo radici nel paese: da vari episodi narrati da Procopio è chiaro che le loro famiglie rimasero in oriente. Gli imperiali erano dei professionisti della guerra che combattevano per conto di chi li aveva assoldati, e che continuava a pagarli abbastanza saltuariamente.
Dall’altro campo è oramai scorretto dire che ci fosse un esercito “dei Goti”, come era ancora quello di Witigis, quindici anni prima, anche se va detto che pure in quell’esercito militavano persone di etnia latina. Molti dei Goti di Witigis erano stati deportati in oriente, tanti altri erano oramai morti o troppo anziani: quelli che combattevano per Totila erano in generale quattro tipologie di soldati. Innanzitutto abbiamo la terza generazione di Goti in Italia, oramai italiani in tutto e per tutto: l’Italia è la loro terra, non conoscono le paludi e i boschi dei Balcani se non nelle storie che gli raccontavano i loro vecchi. Se qualcuno avesse chiesto a Totila di dov’era, immagino che avrebbe risposto di Treviso. Generazioni di Goti erano cresciuti ai piedi delle Alpi, in Piemonte, o vicino Verona, Ravenna e nel Piceno. Ho più volte menzionato Giordane, un goto fattosi monaco e che si trasferì a Costantinopoli, ma c’erano stati anche dei Papi di origine gotica. I Goti mantenevano una loro identità, molti erano ancora ariani, probabilmente continuavano a poter parlare nella loro lingua originale, seppur con tante parole in latino. Ma l’orizzonte culturale, politico e identitario era il paese che si estende tra le alpi e il mare mediterraneo. Era questa la loro casa, per difenderla erano disposti a combattere fino alla morte.
Nell’esercito dei Goti c’erano anche tanti latini, la popolazione italiana autoctona. Da tempo le fila dei Goti rimasti in Italia non bastavano più per riempire i ranghi dell’esercito di Totila. È assai probabile che parte del sistema della tassazione prevedesse di inviare delle reclute per l’esercito, anche in via temporanea. Poi c’erano degli ex schiavi attratti dall’offerta di libertà in cambio del servizio militare, assieme a dei coloni ai quali Totila promise la piena proprietà delle loro terre se avessero servito nell’esercito. Infine erano numerosi anche i disertori imperiali: più e più volte Totila aveva preso una piazzaforte romana e i difensori si erano arruolati en masse nell’esercito d’Italia. Alcuni di loro, come riporta Procopio, avevano davvero fatto il salto in via definitiva. Il già citato Indulf, come vedremo, combatterà gli imperiali anche dopo la morte di Totila. Altri attendevano solo il momento giusto per fare un nuovo salto della quaglia, certamente non intendevano farlo ora che la causa imperiale in Italia sembrava disperata.
Insomma, quello di Totila non era un esercito “dei Goti”, ma un esercito multietnico e polifonico, al cui cuore c’era però un comun denominatore: disertori imperiali a parte, era un esercito di italiani.
Totila avanza al sud
Come detto, una volta in pieno controllo di Roma, per la seconda volta Totila provò a raggiungere un accordo di pace con l’Impero. Inviò a Costantinopoli un cittadino romano di nome Stefano per offrire un trattato di amicizia. Ma Giustiniano questa volta si rifiutò persino di accogliere l’ambasciatore con un’udienza. Quando lo venne a sapere, Totila non perse la sua determinazione. Occorreva colpire gli interessi imperiali dove faceva male, in modo da convincerli che la guerra non fosse più sostenibile.
Totila decise che la guerra andava portata al granaio che sosteneva gli sforzi imperiali sia in Italia che in Africa, l’isola che era scampata quasi intatta alla guerra e che era caduta agli imperiali già quindici anni prima. Totila marciò con tutto il suo esercito nella moderna Calabria, con l’obiettivo di invadere la Sicilia. Prima di farlo però, Totila decise di dare l’assalto alla città di Reggio Calabria, città chiave che era tenuta da una guarnigione imperiale. I soldati all’interno erano tra i più valenti guerrieri imperiali e riuscirono a respingere tutti gli attacchi, arrivando persino a fare una sortita contro i Goti. Alla fine Totila decise di lasciare un presidio con lo scopo di strangolare lentamente la città per fame e inviò il grosso del suo esercito contro la fortezza di Taranto, fortificata da Giovanni il sanguinario. L’antica città della Magna Grecia capitolò di fronte alle forze di Totila, lasciando agli imperiali solamente le fortezze di Ancona, Otranto, Ravenna, Reggio Calabria e Crotone. Tutto il resto della penisola era tornato nel regno d’Italia.

La situazione, per gli imperiali, era oramai oltre la disperazione. Con il ritiro di Belisario il morale dei soldati era crollato, assieme alla loro volontà di resistere.
Giustiniano arretra ovunque
Nel frattempo, nei Balcani, la situazione era deteriorata ancora: ad invadere questa volta non furono i Kutriguri ma degli Slavi, in quella che fu la prima grande scampagnata di queste popolazioni nei Balcani, e certamente non l’ultima. Per la prima volta – riporta Procopio – questi popoli presero d’assalto le mura di diverse città, espugnandole. Una città romana con un forte presidio fu presa con uno stratagemma, i soldati catturati furono trucidati, molti di loro secondo il brutale rito dell’impalamento, altri con colpi di mazza. I civili furono schiavizzati e trascinati oltre Danubio. Ancora una volta i Balcani pagavano a caro prezzo le missioni militari in occidente e la guerra in Lazica, che avevano privato la regione di buona parte delle sue migliori forze difensive.
Quanto alla guerra in Lazica, vorrei descrivervi brevemente cosa accadeva in questi anni nella futura Georgia, perché aiuta a comprendere la sfide cui dovette far fronte Giustiniano per gestire in contemporanea i suoi tre fronti di guerra.
Come forse ricorderete, il conflitto era scoppiato perché Khosrau aveva deciso di tentare l’assassinio di Gubazes, Re della Lazica. Dopo il fallito attentato, Gubazes aveva deciso di passare di nuovo dalla parte dei Romani: se potessi avvertirlo, gli direi di restare con i Persiani, visto che alla fine sarà Giustiniano a metterlo a morte, tra qualche anno. Ma in questo frangente Gubazes era utile per riaprire la guerra in Lazica, soprattutto ora che Khosrau aveva provato a costruire una flotta sul Mar Nero, ricorderete che la legna accumulata a tal scopo finì “misteriosamente” in fiamme.

Nel 548, mentre moriva Teodora e Belisario tornava a Costantinopoli, Giustiniano aveva inviato un esercito di 8000 uomini a prendere la fortezza di Petra, che lui aveva fatto costruire in Lazica sul Mar Nero ma che era finita nelle mani dei Persiani dopo lo scoppio della guerra contro Khosrau, nel 541. A comandare la spedizione era Dagisteo, un generale che vedremo presto in azione anche in Italia, al seguito di Narsete. I Persiani della guarnigione, 1500 uomini, offrirono una valida resistenza: i Romani fecero crollare pezzi delle mura, assaltarono tratti isolati, scavarono tunnel: tutto l’armamentario dell’arte poliorcetica antica. Ma i Persiani, ridotti infine a soli 150 uomini, resistettero in attesa di soccorsi dalla Persia, che infine arrivarono. Il generale persiano Mihr-Mirhoe marciò dall’Iberia, la moderna Georgia centrale, attraverso i passi che la dividevano con la Lazica. Quando Dagisteo seppe dell’arrivo dei Persiani, abbandonò l’assedio lasciando dietro anche molto materiale bellico, mentre Mihr-Mirhoe riuscì a raggiungere Petra, lasciandovi altri 3.000 difensori e provviste anche per un lunghissimo assedio. Il problema per i Persiani era che non aveva i rifornimenti per restare con tutto l’esercito in Lazica; quindi, furono costretti a ritirarsi in Armenia. Il generale persiano lasciò comunque una forza di 5000 uomini ad occupare la Lazica.
Nell’anno seguente però, il 549, Dagisteo ricevette rinforzi da Costantinopoli e invase la Lazica con un esercito di 14 mila uomini, sorprendendo le forze lasciate da Mihr-Mirhoe e distruggendole. Il vantaggio dei Romani era che le loro linee di comunicazione e rifornimento erano molto più corte; quindi, si potevano permettere di operare con più uomini all’inizio della stagione di guerra in Lazica, mentre i Persiani dovevano necessariamente ritirarsi oltre le montagne ogni inverno e potevano tornare solo in estate.
A questo punto i Romani si rimisero ad assediare Petra, l’imprendibile fortezza che avevano costruito anni prima: tagliarono l’acquedotto ma i difensori non sembravano patire la sete, questo perché i Romani non sapevano che i Persiani avevano realizzato un acquedotto sotterraneo su tre livelli, così che, quando i Romani tagliarono il primo, diedero per scontato che questo fosse stato interrotto, ma l’acqua continuò a fluire al di sotto.

L’assedio continuò per tutta l’estate del 549, proprio mentre anche Roma era assediata per la seconda volta da Totila. Khosrau non era ancora pronto a rinunciare alle sue ambizioni caucasiche: un nuovo, immenso esercito entrò in Lazica, ruppe l’assedio e rifornì la città. I Lazi furono molto irritati dal comportamento di Dagisteo, che secondo loro non aveva combattuto con sufficiente determinazione i Persiani, accusandolo neanche troppo velatamente di essere un traditore. Se ne lamentarono con Giustiniano, che si decise per l’anno seguente a richiamare Dagisteo e nominare un nuovo generale per la guerra in Lazica. In questi ultimi anni, come vedremo, Giustiniano non si avvarrà di giovani generali, come nella sua gioventù, ma farà ricorso a dei terribili vecchi, spesso con un curriculum militare non proprio stellare. Eppure il fiuto di Giustiniano per gli uomini e le loro capacità non lo tradirà neanche questa volta: i terribili vecchietti riusciranno infine, negli anni 50’ di questo tragico secolo, a portare a compimento i suoi disegni. Per la guerra in Lazica contro l’arcinemico persiano, Giustiniano scelse colui che aveva perso Roma in modo ignominioso, il nostro vecchio amico di stirpe gotica, il settantenne Bessa.
Operazione Husky
Nell’estate del 550, una volta ottenuto il controllo di buona parte del sud Italia ancora in mano imperiale, Totila decise di attraversare lo stretto di Messina, sempre tenendo sotto controllo Reggio Calabria che, poco tempo dopo, si arrese. Il presidio imperiale di Messina provò a fermare le forze di Totila, ma i soldati dovettero presto ritirarsi al riparo delle mura. Totila riuscì quindi a penetrare nel cuore della Sicilia e presto buona parte dell’isola gli si arrese, tranne le principali fortezze imperiali di Palermo e Siracusa. Si trattò di un colpo durissimo per l’Impero: la Sicilia era la chiave strategica per mantenere i contatti con la provincia africana e il suo grano riforniva gli sforzi imperiali in tutto l’occidente. La perdita delle città rimaste avrebbe potuto compromettere l’intera politica dell’imperatore.
Era evidente che Giustiniano doveva inviare un nuovo comandante in capo delle forze imperiali in Italia. Alla fine Giustiniano decise che fosse importante avere una persona amata e rispettata dai locali. Pertanto l’imperatore nominò a questo ruolo il senatore Liberio: non vi biasimo se non ve lo ricordate, ma è davvero una persona importante di questa storia. Al 549 il nostro Liberio aveva 84 anni ed aveva servito nell’ordine: Odoacre, Teodorico, Amalasunta, Teodato e Giustiniano. Praticamente l’intera storia italiana successiva al 476 passa attraverso questa incredibile figura. Era stato lui a sistemare i Goti in Italia, su mandato di Teodorico, lui a governare la Provenza quando era stata conquistata dalle armate del Regno d’Italia, lui a consigliare Amalasunta e poi ad abbandonare Teodato quando questi aveva ucciso la sua benefattrice. Ora venne rispedito in Italia. E la sua carriera nel mediterraneo non era ancora finita!
Giustiniano, consapevole di non aver molto tempo a disposizione, si decise a preparare una flotta di soccorso da inviare in Sicilia, carica di reparti di fanteria e cavalleria, mettendola a disposizione di Liberio. Una volta partiti però, Giustiniano ci ripensò: forse l’ottantaquattrenne era troppo anziano e troppo inesperto in faccende militari per riuscire nell’impresa. Come aiutante, l’imperatore decise di affiancargli l’armeno Artabane, la cui storia è assolutamente affascinante ma che non ho potuto raccontare finora. Ne approfitto per aggiornarvi anche sulla guerra in Africa, nella quale Artabane fu coinvolto e che era troppo complicata e lontana dagli avvenimenti per poterla narrare negli scorsi episodi.
L’Africa si ribella (di nuovo)
Nel 543, mentre Totila prendeva Napoli, la guerra in Africa si era riaccesa con una ribellione dei tripolitani: ricordiamo che l’Africa riconquistata dall’Impero era formata da diverse province, le più importanti erano la regione di Cartagine, la Numidia ad Ovest della capitale e la Byzacena a sud. Gli imperiali tenevano anche la Tripolitania e una catena di porti fino alle colonne d’Ercole. Uno dei capi dei Mauri della Byzacena – corrispondente alla Tunisia meridionale – di nome Antalus si mise a capo della rivolta, visto che suo fratello era stato ucciso dai Romani e le sovvenzioni a lui dovute erano state cancellate, probabilmente un altro caso di austerity di Giustiniano. L’anno seguente – il 544 – Solomone, il Magister Militum per Africam, affrontò i ribelli nella Byzacena, perdendo la vita assieme a buona parte del suo esercito, in un completo disastro per le forze imperiali in Africa. Alla sua morte divenne plenipotenziario a Cartagine suo nipote Sergio, l’uomo che aveva dato il via alla guerra uccidendo i capi dei tripolitani. Sergio però era malvisto sia dai locali – comprensibilmente – che dalle truppe romane. Ad aggiungere confusione al tutto, il nostro vecchio amico Stotzas era tornato sul campo dalle profondità della Mauretania, chiamando a sé i vecchi ribelli africani e i pochi Vandali rimasti: in una seguente battaglia, i Romani furono di nuovo sconfitti da Stotzas, una vittoria ancora peggiore di quelle di Pirro, visto che Stotzas perse la vita.

La situazione a questo punto era troppo grave, l’intera provincia rischiava di essere perduta. Mentre Totila per la prima volta stringeva d’assedio Roma, Giustiniano aveva inviato un piccolo esercito a Cartagine comandato da un certo Areobindo, un parente del nostro vecchio amico Aspar e dell’Areobindo marito di Anicia Giuliana. Un tempo la sua era stata una famiglia di barbari Alani di religione ariana, oramai erano romani ortodossi come tutti gli altri.
Il piano di Areobindo era di mettere Mauri contro Mauri, in particolare Antalus – capo dei Mauri della Byzacena – contro Cutzinas, il capo dei Mauri della Numidia. Un vecchio trucco romano: se i nemici sono troppo forti, semina zizzania tra loro. Il problema era che anche Areobindo aveva la serpe in seno: un ufficiale di nome Guntharis, che decise di prendere il potere a Cartagine e costruire un regno personale. Sul finire del 545 Guntharis scatenò una rivolta, Areobindo si rifugiò in una chiesa ma fu convinto da Guntharis a venire a palazzo e a non temere per la propria vita. Chissà se Guntharis disse “Areobindo stai sereno” prima di farlo pugnalare a morte quella sera stessa. Tutto questo avveniva mentre Totila stringeva Roma d’assedio per la prima volta.
Guntharis a questo punto propose un accordo ad Antalus: si sarebbero spartiti l’Africa tra di loro, a lui Cartagine, ad Antalus la Byzacena. È a questo punto che entra in scena il nostro Artabane, un armeno che inizialmente si era unito a Guntharis.
Artabane decise di ingraziarsi l’imperatore liberandolo del “tiranno” Guntharis e coinvolse nella congiura un gruppo di Armeni di cui era a capo: l’intera congiura fu organizzata in lingua armena, riuscendo a rimanere segreta, visto che allora come oggi questa lingua era sconosciuta a chi non veniva dalle montagne dell’Asia Minore. Prima di partire per una campagna militare, Guntharis invitò a cena i suoi generali e Artabane sedette sul divano alla sua destra, un grande segno di onore. In perfetto stile “trono di spade”, o forse più correttamente nello stile di Teodorico, Artabane e gli Armeni uccisero Guntharis durante il banchetto, assieme alle sue guardie del copro. Il dominio di Guntharis era durato appena 36 giorni. Gli Armeni e i loro alleati aprirono dunque le porte della città ai pochi soldati imperiali lealisti rimasti, che si erano asserragliati nella città di Hadrumetum. Poco dopo in città era arrivato un nuovo esercito imperiale, inviato a Cartagine da Costantinopoli in questo caotico 546, mentre Roma cadeva nelle mani di Totila. Interessante notare come i soccorsi arrivarono a Cartagine, ma non a Belisario che si affannava a difendere Roma dalla sua fortezza di Porto. Giustiniano deve aver considerato che fosse più importante impedire la completa perdita dell’Africa piuttosto che intervenire con più forze in Italia, dove la guerra poteva sembrare in stallo, soprattutto grazie agli sforzi di Belisario. I nuovi arrivati che sbarcarono nella capitale africana erano al comando di Giovanni Troglita, un veterano della spedizione di Belisario del 533.
Prima di continuare la storia di Artabane, vorrei anche dirvi cosa accadde in Africa tra il 546 e il 550, in modo da portare questa regione in pari con la nostra narrazione: Giovanni Troglita si dimostrò un generale capace, anche se il suo primo scontro contro i Mauri della Byzacena e della Tripolitania risultò nuovamente in una sconfitta. Nel 548 però, con l’aiuto dei Numidi di Cutzinas, Giovanni Troglita riuscì a trionfare contro i suoi nemici nella battaglia della pianura di Catone: diciassette dei leader dei Mauri furono uccisi e infine la provincia, seppur devastata dalla guerra, dalla carestia e dalla pestilenza, ebbe la pace. Uno dei fronti delle eterne guerre di Giustiniano si spense con questa vittoria: Belisario aveva impiegato appena sei mesi per abbattere la monarchia dei Vandali, ma c’erano voluti quindici anni per davvero pacificare la regione e costruire un governo funzionante dell’Africa romana. A posteriori, se Giustiniano avesse dedicato più attenzioni all’Africa, nel 534, l’Impero avrebbe potuto pacificarla più rapidamente, senza impelagarsi in decenni di guerre intermittenti in Nordafrica e altri venti anni di guerra in Italia. La fretta di Giustiniano di invadere la penisola fu un enorme errore di arroganza: Giustiniano avrebbe potuto iniziare la guerra in Italia quando voleva e alle sue condizioni, lo fece invece in modo affrettato, mentre Cartagine e la sua regione non erano ancora fermamente nelle sue mani. L’ambizione è una tipica caratteristica di Giustiniano, un’altra è però l’arrogante e frenetica irruenza delle sue azioni, che costò caro sia all’impero che alle popolazioni conquistate.
Ma torniamo ad Artabane e al 546. Vedendo che per lui in Africa non c’era un comando sufficientemente interessante per la sua smisurata ambizione, Artabane si trasferì immediatamente a Costantinopoli. D’altronde era un uomo ambizioso. Il suo piano era di sposare una delle nipoti di Giustiniano, che aveva conosciuto a Cartagine, entrando nella famiglia reale. Artabane fu fatto Magister Militum Praesentalis e Patrizio, insomma con un grado sufficiente a permettere la sua augusta parentela, segno che Giustiniano era d’accordo. Tutto era pronto ma proprio in quel momento si presentò a Costantinopoli una donna armena, vestita poveramente: disse di essere la moglie di Artabane e reclamava di condividere con il suo smemorato marito la sua nuova prosperità a corte. Teodora, sempre pronta a difendere i diritti delle donne, le diede ragione e proibì il matrimonio di Artabane con la principessa imperiale.
Artabane, deluso da questa vicenda, arrivò a tramare per abbattere Giustiniano e nel 549 – dopo la morte di Teodora – organizzò una congiura con l’aiuto di diversi connazionali, con l’obiettivo di mettere Germano, il cugino di Giustiniano, sul trono. I congiurati furono però traditi e arrestati. Artabane fu condannato alla prigionia nel palazzo, ma – incredibilmente per una persona talmente pericolosa – non fu messo a morte. Immagino che Giustiniano, con guerre attive su tre fronti, pensasse che un generale capace potesse sempre tornare utile. E così fu: quando, nel 550, fu evidente che serviva un vero militare da inviare in Sicilia, Giustiniano si decise a liberarlo. Artabane, con pochi uomini, fu inviato con delle navi per raggiungere la flotta di Liberio prima che questi partisse da Cefalonia per la Sicilia.
Germano, l’erede
Liberio però, all’arrivo in Epiro di Artabane, era già partito. La sua spedizione sbarcò a Siracusa, città che era sotto assedio da parte dei Goti. Qui la forza numerica degli imperiali giocò contro di loro, visto che furono presto a corto di cibo. Totila, infatti, aveva dato ordine di denudare le campagne siciliane di tutto il grano disponibile. Liberio decise quindi di salpare e portarsi a Palermo, dove forse sperava di trovare nuove provviste. Artabane, di converso, fu colpito da una terribile tempesta e per poco non morì nella traversata, quando finalmente riuscì ad arrivare in Sicilia la stagione di guerra del 550 era già conclusa.
Giustiniano, nel frattempo, aveva deciso di nominare una nuova persona come comandante supremo della guerra in Italia: suo nipote e potenziale erede, Germano, l’uomo che Artabane aveva voluto mettere sul trono. Lo ricorderete forse come il generale che riconquistò l’Africa dopo la prima rivolta di Stotzas e che si affrettò ad Antiochia durante l’invasione di Khosrau, affrettandosi anche ad abbandonarla.
Germano era però un uomo di grandi ambizioni e di fine istinto politico. Comprese che contro Totila occorreva utilizzare qualcosa d’altro oltre la forza bruta. Quello di cui Germano aveva bisogno era la legittimità a governare l’Italia.
Da poco era morta sua moglie e Germano decise quindi di risposarsi, ma non con una nobile romana. Come moglie, Germano scelse l’ultima principessa degli Amali, la casa regnate semi-imperiale dei Goti. Si trattava di Matasunta, la figlia di Amalasunta. Avrebbero i Goti combattuto con ardore la nipote di Teodorico e suo marito? A tal fine, è possibile che Germano commissionò ad un certo Giordane la produzione di una breve storia gotica, riassunto della storia di Cassiodoro, storia che è così evidentemente legata al matrimonio di Matasunta con Germano, unione che viene esaltata da Giordane come la fusione tra Romani e Goti. Giordane, come vi ricorderete, è una delle principali fonti della storia gotica, come narro in “Il miglior nemico di Roma”.

Germano si recò a Serdica, la futura Sofia, in Bulgaria, e qui iniziò ad ammassare un grande esercito. Germano sembrava un predestinato e molti ufficiali e soldati veterani fecero a gara per arruolarsi e farsi assegnare all’esercito di Germano. Molti tra i popoli extra danubiani inviarono contingenti per la spedizione, tra i quali i Longobardi.
Disastro romano nei Balcani
Procopio riporta che quando la notizia del futuro arrivo di Germano si diffuse in Italia, i soldati imperiali preda dello sconforto si fecero coraggio e aumentò la loro determinazione a resistere. Alcuni dei disertori imperiali fecero filtrare a Ravenna la notizia che erano pronti a cambiare nuovamente casacca, appena Germano fosse giunto nella penisola. L’Italia, così recentemente tornata nelle mani di Totila, rischiava di sfuggire nuovamente al suo controllo.
La notizia dei preparativi della spedizione di Germano preoccupò Totila, che decise di ritirarsi dalla Sicilia e tornare sul continente, non senza aver lasciato presidi in quattro fortezze dell’isola, che non sono nominate da Procopio.
Curiosamente, in contemporanea con la nomina di Germano, un’altra grande forza di Slavi invase i Balcani, questa volta nel centro della penisola, puntando su Naissus e poi da lì avendo come obiettivo dichiarato di prendere Tessalonika, la capitale dei Balcani.
Non era qualcosa che Giustiniano poteva permettere: fece quindi sapere in tutta fretta a Germano di abbandonare i propositi di invasione dell’Italia – almeno per questo anno – e di affrontare l’invasione slava. Gli slavi però, quando seppero che un immenso esercito imperiale era diretto contro di loro, decisero saggiamente di ritirarsi. A questo punto Germano era pronto: poteva finalmente dedicarsi all’invasione dell’Italia. Due giorni dopo era morto. Procopio sostiene a causa di una malattia non precisata, va da sé che è il tempismo è un po’ sospetto: chissà se Totila, che aveva dimostrato di poter gabbare anche Belisario, non avesse trovato un modo di togliere di mezzo il suo pericolo rivale. Non c’è alcuna prova della cosa, ovviamente.
Procopio lamenta morte di Germano, dalle sue parole, se ne evince che era chiaramente il suo candidato preferito alla successione. Lo descrive come un uomo serio e severo nella vita pubblica, in quella privata affabile, cordiale e allegro.
A questo punto Giustiniano, a corto di parenti, decise di nominare comandante supremo della spedizione in Italia il nostro vecchio amico, Giovanni il sanguinario, che era anche il genero di Germano. Giovanni si unì all’esercito e lo condusse in Dalmazia, ma oramai la stagione era già troppo avanzata per pensare di invadere l’Italia, Giovanni rimase sulle rive dell’Adriatico in attesa della primavera. Gli imperiali pensavano forse di trascorrere un tranquillo inverno tra il 550 e il 551 ma non fu così: all’improvviso ricomparvero gli Slavi che invasero nuovamente i Balcani orientali. Fu a questo punto che le infinite ondate di Slavi, che arrivavano ogni volta che gli imperiali parevano pronti ad invadere l’Italia, iniziarono ad insospettire i Romani, come riporta Procopio. C’era forse lo zampino di Totila nelle continue spedizioni degli Slavi? Aveva forse raggiunto un accordo con i loro capi e finanziava le loro spedizioni? Non possiamo esserne certi, ma, di nuovo, considerando l’accorto tatticismo del Re, questo è perfettamente plausibile.
Sta di fatto che sul finire del 550, Giustiniano fu costretto ad inviare uno dei suoi eserciti praesentali per combattere gli Slavi, in modo da non richiamare l’armata di Giovanni il sanguinario che svernava in Dalmazia. L’esercito presentale era comandato da Costanziano – l’incapace generale sconfitto a Faenza da Totila – da Giustino il figlio di Germano e da Giovanni il ghiottone, un altro generale che abbiamo già visto nella campagna africana di Belisario. I due eserciti si incontrarono nelle vicinanze di Adrianopoli, un nome che avrebbe dovuto mandare un brivido alla schiena di ogni soldato, anche se dubito che studiassero la storia.
E la prova di questo è che i Romani fecero quasi esattamente gli stessi errori dei loro illustri predecessori, due secoli prima: i soldati romani si accamparono in pianura, gli Slavi in una posizione fortificata, in controllo del loro ampio bottino. I Romani attaccarono in salita contro gli slavi, che probabilmente attuarono qualche manovra di aggiramento perché i soldati furono circondati e distrutti. Nello scontro, la maggior parte degli imperiali fu uccisa o messa in fuga, le insegne di Costanziano furono catturate e l’Impero subì un’altra cocente sconfitta che portò al saccheggio del ricco hinterland di Costantinopoli, le campagne che si estendevano dalla capitale ad Adrianopoli. Per Giustiniano, quell’anno finì con i nemici visibili dalla capitale, l’Impero che andava a conquistare terre in tutto il mediterraneo non pareva in grado di difendere il giardino di casa. Terminava in questo modo il 550 e il sedicesimo anno della guerra d’Italia e l’undicesimo della guerra persiana.
Totila torna a Roma
Durante l’inverno del 550-551, Giustiniano deve aver riflettuto a lungo sulla spedizione da inviare in Italia. Per un po’ pensò perfino di nominare a questo scopo Belisario, per quella che sarebbe stata la terza volta, ma decise invece di lasciarlo al suo fianco. Nel caso aveste dei dubbi, Procopio sottolinea come il generale non solo non fosse caduto in disgrazia, ma fosse considerato da tutti il primo tra i Romani. Procopio, a questo punto della nostra storia, detestava Belisario e quindi non aveva nessun incentivo ad indorare la pillola. La popolare leggenda sulla sua miserevole fine, ridotto a mendicante per lo sfavore di Giustiniano, è quindi esattamente questo: una leggenda.
Nel 551, mentre si preparava a dover affrontare la macchina della guerra che Giustiniano stava preparando nei Balcani, Totila tornò a Roma, la città che aveva ripreso l’anno precedente. Fu a questo punto che finalmente sbarcò in Sicilia il generale armeno Artabane. Questi sostituì immediatamente l’inesperto Liberio e, nel corso del 551, in poco tempo riuscì a circondare i presidi gotici e farli arrendere per fame. Totila aveva perso il suo dominio siciliano.
Nel frattempo a Roma, Totila fece rimpatriare per quanto possibile la popolazione romana sparsa nei suoi domini, ripopolando per quanto possibile la città. Credo fosse di nuovo una mossa propagandistica, volta a convincere le classi dirigenti italiane che era loro interesse collaborare con il suo governo.

Procopio riporta però come non i Romani, oramai ridotti in numero e soprattutto nelle loro ricchezze, non avessero più i fondi per mantenere in vita i servizi pubblici della città. “I Romani, depredati di tutte le loro sostanze, non solo non avevano possibilità di costituire un fondo pubblico ma nemmeno di ricostituire i loro beni personali. Eppure, di tutti gli uomini che io conosco, i Romani sono senza dubbio quelli che amano di più la loro città, sempre premurosi di difenderne e salvarne il patrimonio artistico, affinché nulla vada perduto dell’antica gloria di Roma”. Nonostante quanto si dica a riguardo, posso dire che – nella mia esperienza – ancora oggi i Romani amano alla follia la loro città.
I Goti vincono anche sul mare
Ma Totila non si accontentò di atti pacifici: nella città eterna, il Re pianificò di allargare ulteriormente il conflitto: se la conquista di Roma e la devastazione della Sicilia non erano sufficienti per portare Giustiniano sul tavolo delle trattive, occorreva colpirlo lì dove faceva più male. La sua decisione fu di scatenare la guerra sul mare. Diede ordine di preparare la sua flotta adriatica e comandò a Indulf di attaccare le coste della Grecia: decide di dromoni e centinaia di navi da trasporto del Regno piombarono sulle isole ioniche, saccheggiarono Corfù. In seguito sbarcarono in Epiro, mettendolo a ferro e fuoco. Era tempo che le terre imperiali subissero la stessa medicina che l’Italia era costretta a prendere da quindici anni. Dopo aver ripulito la regione, gli italiani si diedero anche alla guerra di corsa, catturando tutte le navi mercantili imperiali, compreso diverse che erano dirette a Salona per rifornire l’esercito che si stava adunando lì.
In contemporanea, Totila decise di colpire gli imperiali anche ad Ovest, forse con lo scopo di risollevare il morale dei suoi seguaci con un facile successo. Il Re d’Italia decise di rispondere alla perdita della Sicilia attaccando altre isole: le isole della Sardegna e della Corsica non erano forse delle prede del calibro della Trinacria, ma erano pur sempre dei domini imperiali che erano stati lasciati virtualmente indifesi. Totila diede ordine alla sua flotta tirrenica di sbarcare un piccolo esercito sulle isole, che iniziarono a pagare le tasse a Pavia.
Le isole non dipendevano amministrativamente dall’Italia, ma dall’Africa. Quando Giovanni Troglita, comandante delle forze imperiali a Cartagine, venne a sapere che la Corsica e la Sardegna erano state conquistate, inviò un esercito per riprenderle. I suoi uomini scaricarono nei pressi di Cagliari e si accinsero all’assedio. Le forze inviate da Totila effettuarono però una sortita improvvisa, mettendo gli imperiali in rotta e costringendoli a rifugiarsi sulle loro navi e poi di lì in Africa.
We are going to need a bigger boat
Mentre Totila scatenava la sua guerra di corsa, Giovanni il sanguinario era pronto con il suo esercito all’invasione dell’Italia, ma Giustiniano gli fece sapere che non doveva muoversi. Credo che finalmente l’imperatore si fosse reso conto che una normale spedizione non sarebbe mai stata sufficiente per spezzare i Goti. Occorreva imbastire la più grande armata di conquista che i Romani avessero mai organizzato in un secolo. Per comandarla, l’impulsivo Giovanni non sarebbe stata la persona più adatta. Occorreva un freddo calcolatore e un fine stratega. Serviva un politico raffinato, capace di giocare anche sul tavolo delle relazioni diplomatiche, ma che fosse di incrollabile fedeltà, visto che Giustiniano stava per mettergli in mano un esercito in grado anche di rovesciare il governo a Costantinopoli. L’ideale era trovare un generale che, in virtù della sua menomazione fisica, non potesse ambire al ruolo di Imperatore d’Occidente. C’era solo una persona con tutte queste caratteristiche: l’ultrasettantenne eunuco che venti anni prima era stato mandato da Giustiniano a corrompere gli azzurri, durante la rivolta di Nika: Narsete.

Nel prossimo episodio Narsete metterà assieme la madre di tutte le armate del sesto secolo e discenderà sull’Italia. A Totila non resterà che raccogliere i suoi per affrontare l’Eunuco in quella che sarà la più grande battaglia campale della guerra d’Italia.
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