Episodio 76, Yersinia Pestis – testo completo

Salute e salve, e benvenuti alla storia d’Italia! Episodio 76: Yersinia pestis

Ho a lungo temuto questo episodio, sperando con tutto il mio cuore di poterlo produrre ad emergenza COVID terminata. Non è un episodio facile da produrre ed ascoltare durante una pandemia globale, che ha sconvolto le vite di tutti noi ed è costata a molti uno o più dei loro cari. La buona notizia è che questo episodio esce quando è già certa la disponibilità di più di un vaccino per combattere il male che ha afflitto il mondo nel 2020. La mia speranza è dunque che guardare a questa pandemia di 1500 anni fa permetta in un certo senso di esorcizzare la nostra.

Generali, rivoluzionari e imperatori credono spesso di fare la storia. E questo è in parte vero: ogni tanto davvero il destino di molti dipende dalle decisioni di pochi. Più spesso però è la storia a fare la storia: quella massa inamovibile di accidenti casuali che schiaccia sotto di sé le capacità o i vizi dei singoli. I capitani delle navi si ritrovano quindi sballottati dalla tempesta, con le vele lacere e la ciurma in preda al terrore.

Nella storia, non c’è tempesta più potente e con maggiore importanza delle pandemie: ad insegnarci l’umiltà nella nostra eterna hybris sono di solito delle creature minuscole ed invisibili. Virus e batteri hanno fatto crollare imperi, hanno aperto agli europei il nuovo mondo, hanno tenuto intere regioni fuori dalla portata dell’uomo o sottosviluppate. Regolarmente, una nuova malattia con caratteri pandemici si è diffusa in tutto il globo[PP1] [MC2] , spesso riportando indietro le lancette della storia umana di decenni se non secoli, sempre comunque sconvolgendo la vita di tutti, i morti e i sopravvissuti.

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LA MORTE NERA

Nella lunga lista di terrori dell’umanità, come il Vaiolo, l’influenza spagnola, la Malaria, il Colera, c’è però una malattia il cui solo nome manda un fremito alla schiena di tutti gli uomini. Non deriva dall’esperienza pratica, oggi è una malattia curabile con dei semplici antibiotici: il terrore che incute è il riflesso dell’accumulo di secoli e secoli di orrore. Il suo nome è diventato un sinonimo di pandemia: la peste.

I grandi killer dell’umanità: tre della top 10 (peste del ‘300, di Giustiniano e terza epidemia di peste) hanno in realtà la stessa causa: Yersinia pestis

Innanzitutto un caveat: molti fanno riferimento ad epidemie e pandemie della storia chiamandole “la peste di Atene” o “la peste Antonina”: queste epidemie non furono però epidemie di peste: la peste di Atene era una febbre tifoidea, la peste Antonina era probabilmente vaiolo. La peste vera e propria è una malattia ben precisa ed è diversa da come probabilmente ve la figurate. La prima particolarità è che non è causata da un virus, ma da un umile batterio. L’altra incredibile caratteristica è che il contagio tra uomini è difficile: ricordo come in un film su “i Promessi Sposi” Don Rodrigo veniva mostrato bere da diversi otri di vino, implicando che fu questo a contagiarlo: in realtà è quasi impossibile prendere la peste in questo modo. Nonostante la lunghissima storia di convivenza con l’uomo, la peste non è endemica dell’Eurasia ma appare in un luogo e in un tempo ben preciso: l’anno è il 541, il luogo è il porto di Pelusio, in Egitto.

I batteri sono stata la prima forma di vita sul pianeta e quasi certamente saranno anche l’ultima, dopo che noi grandi e grosse creature ci saremo estinte. I batteri sono delle creature che noi definiamo procariote, ovvero prive di nucleo. Infatti tutte le altre forme di vita sul pianeta – animali, piante, funghi e creature unicellulari con nucleo – sono caratterizzate dalla presenza di un nucleo cellulare, contenente la maggior parte del DNA. I primi batteri comparvero sulla terra più di 3 miliardi di anni fa, i primi organismi unicellulari eucarioti si svilupparono 1,5 miliardi di anni fa. I primi organismi pluricellulari meno di 1 miliardo di anni fa. In sostanza, le creature unicellulari ebbero la terra per sé stessi per 2/3 della storia della vita su questo pianeta.

I batteri vivono ovunque: nelle profondità dell’oceano, sottoterra, nelle grotte al buio, sulle rocce, nei deserti più caldi e nei freddi più intensi. Alcuni batteri particolarmente resistenti sopravvivono perfino ai viaggi nello spazio. Tutti gli organismi, come noi, dipendono in qualche modo da dei batteri per sopravvivere: tutti gli animali hanno un’enorme quantità di batteri nello stomaco, compreso noi umani: questi batteri svolgono una funzione fondamentale nella digestione. La nostra storia inizia nello stomaco dei roditori.

LA STORIA DI YERSINIA

L’antenato del demone che distruggerà il mediterraneo è chiamato oggi Yersinia pseudotubercolisis : è un batterio che vive nello stomaco di molti mammiferi, anche degli uomini, causando al massimo una gastroenterite. I batteri però non restano mai fermi nella loro evoluzione, come d’altronde noi mammiferi vertebrati: la differenza con i batteri è che questi si riproducono molto più rapidamente; quindi, le probabilità di una mutazione utile sono molto più alte. Inoltre i batteri, a differenza di noi complicate creature multicellulari, non hanno bisogno di riprodursi per mutare. I batteri possono acquisire nuovo DNA attraverso il contatto l’uno con l’altro, utilizzando un virus come conduttore o anche solo acquisendo pezzi di DNA che flotta nei liquidi dove sono presenti in gran quantità. Grazie a tutti questi meccanismi, i batteri possono sperimentare continuamente delle nuove mutazioni e visto che da un singolo batterio in pochissime ore o giorni possono derivare milioni e milioni di batteri, le evoluzioni possono essere relativamente rapide.

Title: Xenopsylla cheopis .Author: Dr. Pratt.Date: 10/48..Description: Plague infected Xenopsylla cheopis male 28 days after feeding on inoculated mouse…http://www.cdc.gov/ncidod/dvbid/plague/.Division of Vector-Borne Infectious Diseases..C 31969

Dal punto di vista di noi mammiferi, possiamo immaginarci una specie di batteri agire come una creatura senziente, in cerca di un miglior modo di riprodursi e diffondersi nel mondo, l’imperativo principale che la natura ha dato ad ogni essere vivente, più forte perfino dell’istinto di sopravvivenza. Ed è così che vi racconterò questa storia, come se Yersinia fosse un organismo in cerca di un nuovo e più efficiente modo di riprodursi. Perché in sostanza è questa la verità.

Yersinia viveva nello stomaco dei mammiferi, in particolare tutti i tipi di roditori: aveva però un problema enorme, uscire da un mammifero per infettarne un altro: ai tempi dell’inizio di questa storia, non si sa quante migliaia di anni fa, Yersinia poteva viaggiare solo negli escrementi dei suoi ospiti. Un sistema poco affidabile, perché i mammiferi si tengono di solito alla larga dagli escrementi. Ma la natura continuava ad imperare a Yersinia di andare e moltiplicarsi, il batterio cercò quindi un espediente per farlo.

Non si sa dopo quanti milioni di tentativi, ma alla fine Yersinia trovò la soluzione: utilizzare la Xenopsylla cheopis, meglio conosciuta come pulce del ratto. Le pulci del ratto vivono in simbiosi con questo roditore onnipresente, come d’altronde fanno le pulci che vivono nei[PP4]  capelli degli uomini, vivendo del sangue del grande mammifero che le ospita. Le pulci sono talmente in simbiosi con i loro ospiti che le pulci femmine hanno imparato a deporre uova [PP5] quando la femmina del ratto è incinta, in modo da colonizzare ben presto anche i piccoli ratti. Le pulci del ratto hanno forti zampe che le permettono di saltare per decine di centimetri, colonizzando il dorso di altri ratti. Non che sia difficile, visto che i ratti vivono in grandi colonie, spesso con migliaia di esemplari a stretto contatto. Quello che rendeva le pulci un vettore ideale per Yersinia era che queste si nutrono del sangue del ratto, fornendo una via ideale di ingresso al sistema sanguigno e quindi al corpo del ratto.

Il problema per Yersinia era che poteva infettare il corpo della pulce, ma non si era evoluta per sopravvivere nello stomaco degli insetti. Per ovviare a questo problema, Yersinia sviluppò la capacità di bloccare il sistema immunitario della pulce, allo stesso tempo interrompendo la produzione di una proteina che consente al batterio di aderire allo stomaco del ratto, in modo da rimanere a flottare nel sangue all’interno dello stomaco della pulce. Infine, Yersinia aveva bisogno di trovare un modo per rientrare efficacemente nel sistema sanguigno di un altro ratto: la soluzione a questo problema fu ingegnosa e allo stesso tempo terribile, trasformando Yersinia nella macchina da contagio che conosciamo. Il batterio sviluppò la capacità di produrre una specie di pellicola che la protegge dall’attacco delle cellule del sangue che avvolgendo i batteri formano dei coaguli che si accumulano nello stomaco delle pulci: con questa pellicola, Yersinia andò a sigillare l’imboccatura dello stomaco della pulce. La pulce, a questo punto, sente che il sangue non entra più nello stomaco: spaventata e affamata, la pulce inizia a pungere freneticamente il ratto. A questo punto Yersinia sblocca la valvola dello stomaco, costringendo la pulce a vomitare il sangue accumulato nel suo corpo direttamente nel corpo del ratto.

Yersinia aveva trovato il suo vettore ideale per la diffusione, attraverso un ingegnoso sistema degno del miglior ingegnere. Eppure le restava un problema: le pulci vivono il grosso della loro vita sullo stesso ratto, senza spostarsi mai. Certo, la fame che prendeva la pulce quando Yersinia le bloccava lo stomaco la spingeva di tanto in tanto a saltare altrove, ma Yersinia non era ancora soddisfatta. E fu a questo punto che Yersinia pseudotubercolosis fece il salto genetico verso la sua evoluzione: Yersinia pestis. Perché la soluzione al problema di convincere la pulce a cambiare ratto era semplice: uccidere il ratto.

Il batterio sviluppò la capacità di produrre tossine in grado di sopprimere il ratto, ma per dare il tempo al batterio di riprodursi all’interno del roditore, le tossine sono inefficaci alla normale temperatura corporea. Un paio di settimane dopo l’infezione, una volta che si è riprodotta in abbondanza, Yersinia attacca il sistema immunitario, facendo aumentare la febbre della vittima. La temperatura più alta attiva le tossine che uccidono il ratto, in modo da costringere le sue decine o centinaia di pulci a trovarsi nuovi ospiti da morsicare e infettare con Yersinia. Un intero mondo di ratti si era aperto al batterio.

L’OSPITE PERFETTO: IL RATTO

Il ratto nero, o rattus, non è più comune nelle nostre città, ma non perché i ratti siano scomparsi: è stato semplicemente soppiantato dal ratto norvegese, più grande e di colore marrone. Se cani e gatti sono i migliori amici dell’uomo, noi uomini siamo i migliori amici dei ratti: c’è una relazione stretta tra le nostre specie. I ratti si nutrono di tutto quello che noi scartiamo e di qualunque cosa noi mangiamo, di animali morti o perfino di materiali organici come la carta e il sapone; diciamo che buongustai come Ratatouille non sono comuni. Nell’antichità i rifiuti erano un po’ ovunque e il cibo era immagazzinato in semplici e porosi granai, i ratti avevano il loro habitat ideale per la riproduzione.

Storia genetica della diffusione del Rattus rattus: sembra aver origine nel subcontinente indiano (forse Ceylon) e di qui diffondersi nel mondo. La popolazione dei ratti in Europa collassò tra il VI secolo e l’anno 1000, probabilmente a causa della pandemia di Yersinia Pestis.

E i ratti si riproducono velocemente: le femmine producono sei cucciolate l’anno con una media di una dozzina di cuccioli ciascuno. I ratti, come gli umani, sono delle creature che continuano a moltiplicarsi fino a che la pressione delle malattie o della scarsità del cibo non portano la popolazione locale a collassare. Altrimenti, non ci sono limiti fisiologici alla crescita esponenziale della popolazione. I ratti non amano i climi secchi e hanno bisogno ovviamente di cibo: in presenza però di umidità e di abbondanza di provviste, possono riprodursi anche a velocità spaventose.

Il ratto nero è originario dell’India ma arrivò nell’antichità nel mondo mediterraneo, probabilmente grazie al vivace commercio tra il mondo romano e l’India: i ratti infatti sono a loro agio nelle navi, cariche di cibo che gli umani usano per sopravvivere nei lunghi mesi in mare. Dall’Egitto il ratto si diffuse nel mediterraneo al seguito della grandi navi che trasportavano ovunque il grano egiziano, soprattutto a Roma. Al seguito delle legioni c’erano carovane di carri carichi di cibo, e di ratti; quindi, ovunque andarono le legioni romane arrivarono anche i ratti: la conquista romana coincide con l’introduzione del rattus in Gran Bretagna e in Gallia del nord. In parole povere: fu l’Impero romano che creò il perfetto ambiente riproduttivo per Yersinia pestis.

Eppure Yersinia non era endemica del ratto nero: i ratti del mediterraneo non avevano insomma delle pulci infette. La malattia ha avuto origini misteriose, in generale sono state teorizzate tre possibili origini geografiche: l’Africa centrale, nell’area dei grandi laghi, l’India ai piedi dell’Himalaya e le steppe dell’Asia centrale. Kyle Harper, un grande studioso che si è specializzato in pandemie antiche e che nel suo libro “Il destino di Roma, clima, epidemie e la fine di un Impero” sostiene l’origine asiatica del morbo. Harper sostiene che il morbo era probabilmente ospitato negli animali selvatici come i roditori degli altipiani asiatici, qualcosa lo avrebbe spinto a passare dall’ospite ai ratti, e dai ratti cinesi all’India e di qui a Roma, attraverso le rotte commerciali del Mar Rosso. È di parere diverso William Rosen, l’autore del meraviglioso libro “Justinian’s Flea”, che consiglio caldamente a chi può leggere in inglese, sostiene con argomenti che trovo convincenti che l’origine era probabilmente in Africa, visto che la Peste arrivò prima in Egitto e solo dopo in Persia e poi in Cina. Non il tipo di diffusione che ci si aspetterebbe da un’origine indiana o asiatica, ma perfettamente compatibile con un’origine africana, senza contare che anche un autore antico sostiene che la malattia ebbe origine in Etiopia. Quale che fosse la sua origine, la malattia all’inizio del sesto secolo era completamente sconosciuta nella stragrande maggioranza del mondo eurasiatico. Questo vuol dire che i corpi dei ratti comuni nel mondo mediterraneo non erano preparati all’arrivo di Yersinia.

PANDEMIA

Luoghi dove Yersinia Pestis è stata trovata nei corpi di morti del VI secolo, confermando una volta per tutte che fu proprio la peste bubbonica il killer ai tempi di Giustiniano

Come abbiamo riscoperto dolorosamente nel 2020, una malattia è tanto più virulenta e pericolosa per una popolazione quanto è nuova: con il tempo si instaura una sorta di equilibrio fra la popolazione ospite e la malattia. In generale, non è interesse di nessun virus e di nessun batterio di uccidere tutti i suoi ospiti, in modo da impedire un’efficiente riproduzione. I microbi tenderanno a adattarsi al corpo umano, diminuendo la loro pericolosità, mentre successive generazioni di ospiti acquisiranno una resistenza ad essi. È questo ad esempio il caso del morbillo: una malattia che fu terribile alla sua comparsa, causando probabilmente una pandemia nel mondo antico e poi devastando le popolazioni americane, ma che oggi colpisce i bambini in forma il più delle volte lieve, almeno fino a quando reggerà la diga vaccinale, visto che la malattia fa sempre più morti per la riduzione della copertura del vaccino. Una[PP6] [MC7]  regola generale è che più una malattia ha un effetto patologico moderato, più a lungo è stata in contatto con il suo ospite.

Yersinia, nel suo bacino d’origine, aveva probabilmente trovato un equilibrio: non poteva uccidere troppi ratti, o la malattia avrebbe bruciato i tizzoni di cui aveva bisogno per ardere. Una certa percentuale dei ratti aveva certamente un’immunità alla malattia, permettendo alla popolazione di ratti di rimanere stabile. Tutto questo è importante quando si introduce il fattore umano: Yersinia era completamente disinteressata agli esseri umani, una creatura del tutto inefficiente dal punto di vista di Yersinia, come vedremo. L’unica cosa che le interessava era il ratto. Il problema erano le pulci: quando le pulci venivano affamate da Yersinia nel suo diabolico sistema espansivo, le pulci cercavano una qualunque creatura da morsicare. Se trovavano altri ratti, bene, ma le pulci non si facevano problemi a nutrirsi anche del sangue di altri mammiferi: mucche, cavalli, asini e anche il grande compagno di rattus rattus: homo sapiens sapiens.

LA PESTE

Il corpo umano normalmente possiede tutti gli strumenti per combattere un intruso come Yersinia pestis. Quella tra batteri e corpo umano è una sorta di assedio che dura da milioni di anni, una corsa agli armamenti più lunga di qualsiasi guerra fredda umana. Le difese esterne del corpo sono proprio la pelle e i vari sistemi protettivi della bocca e del naso, una serie di difese che Yersinia pestis superò semplicemente usando l’ariete costituito dalla pulce del ratto. Una volta dentro il sistema sanguigno, i vari tipi di globuli bianchi sono una formidabile difesa contro batteri e virus. Yersinia pestis ha sviluppato però un sistema di intrusione che è una sorta di mantello dell’invisibilità di Hogwarts: una serie di proteine che Yersinia produce per imbrogliare il sistema immunitario del ratto e che funzionano magnificamente anche con l’uomo. Yersinia riesce ad entrare nel corpo umano senza che, nella maggior parte dei casi, il sistema immunitario se ne accorga. Anche in caso di allarme, Yersinia riesce spesso a sopravvivere: i Fagociti, dei globuli bianchi che “mangiano” gli intrusi, sono molto efficaci con i batteri ma Yersinia riesce a sopravvivere perfino dentro i fagociti, uccidendoli.

Aree dove ancora oggi è presente la Peste in natura, soprattutto presso i roditori

Quando i fagociti iniziano a morire, il corpo umano si rende conto che c’è un intruso e sposta l’infezione verso la sua più importante struttura difensiva: il sistema linfatico. Ma Yersinia vuole essere portata in questa rete di strade e nodi che coprono tutto il corpo umano: qui Yersinia può riprodursi e diffondersi ovunque nel corpo. Ed è a questo punto la malattia segue percorsi diversi, da caso a caso, creando le sue tre versioni conosciute.

Nella maggior parte dei casi, il sistema immunitario cerca di concentrare l’infezione nei linfonodi, i nodi del sistema linfatico, dove i batteri possono essere attaccati dalle cellule del sistema immunitario e sconfitti. Questo sistema è di solito efficace con le infezioni batteriche, ma Yersinia prospera nel sistema linfatico: la battaglia tra globuli bianchi e Yersinia pestis causa l’ingrossamento dei nodi linfatici, cosa che risulta nel sintomo più noto della malattia: il bubbone. I bubboni compaiono nelle zone del corpo più vicine a dove le pulci dei ratti hanno l’abitudine di pungere: sotto le ascelle e all’inguine. Questa è la manzoniana peste bubbonica che però, come vedremo, è solo una delle tre modalità di peste ed è anche la meno mortale. Gli altri sintomi della peste bubbonica sono la febbre alta, il mal di testa, una grave debolezza che rende spesso infermi, disturbi del sonno, nauseafotosensibilità, dolore alle estremità, vomito e, specie nella fase più avanzata, può esservi un coinvolgimento cerebrale che causa deliri, qualcosa che terrificò gli antichi perché i malati sembravano in preda ai demoni.  

Come detto però, Yersinia non uccide subito il suo ospite: aspetta che siano passati diversi giorni, in modo da infettare tutto il corpo. Poi un numero di batteri si comporta da kamikaze, suicidandosi e causando una sovraproduzione di risposta immunitaria da parte del corpo, che fa salire la temperatura e attiva le tossine. La mortalità per questo tipo di peste è di circa il 30%. Negli altri casi, dopo una lunga battaglia il sistema immunitario riesce ad avere la meglio di Yersinia: durante la guarigione, spesso i bubboni esplodono, un evento orribile ma un buon segno per il malato.

Il problema aggiuntivo è però che se la peste rimane nel corpo a lungo, può trasformarsi nelle altre due tipologie, ancora più mortali. La prima e la più rara è la peste setticemica: questa colpisce il sistema sanguigno e non causa bubboni. Di solito è causata dalla rottura delle pareti di un linfonodo, cosa che diffonde rapidamente la malattia nel sistema sanguigno e in tutti gli organi: è caratterizzata da un’altissima febbre, oltre i 41 gradi, e da severi sintomi. La risposta immunitaria del corpo causa delle coagulazioni di sangue in tutti i vasi sanguigni. La peste setticemica è quasi sempre mortale, spesso nel giro di 24 ore.  

Eppure queste due tipologie di peste sono migliori dell’ultima, visto che almeno sono poco contagiose: un altro uomo verrà infettato dalla peste solo se a contatto diretto con materiale infetto, ad esempio del liquido che esce dai bubboni, ma in generale la peste bubbonica e setticemica non sono contagiose. Non è questo il caso del terzo tipo, quella più temuta: la[PP8]  peste polmonare.

Nei casi sfortunati in cui Yersinia trova la strada dei polmoni, l’infezione è terribile: la mortalità è del 100%, nessun uomo sopravvive ad una infezione polmonare di Yersinia pestis. Ma c’è di più: con l’infezione polmonare Yersinia provoca tosse e catarro sanguinolento. A questo punto Yersinia riesce a trasmettersi da uomo a uomo, attraverso le gocce di saliva che escono dalla nostra bocca con la tosse. Questa versione della malattia, più rara, è estremamente contagiosa e di solito causa la rapida morte di interi nuclei familiari.

Eppure tutto questo orrore dipende, in definitiva, dalla triade ratto-pulce-Yersinia: l’ironia della sorte della malattia che simboleggia il concetto stesso di pandemia è che è raramente contagiosa da uomo a uomo, versione polmonare a parte. Per uccidere, Yersinia aveva bisogno delle condizioni ottimali. Le trovò nel 541 dopo cristo.

EGITTO

È probabile che la peste, la malattia umana causata da Yersinia pestis, fosse comune tra gli uomini che vivevano a contatto dei ratti nel focolaio originale di Yersinia pestis, quale che esso sia. In generale, la malattia rimaneva contenuta nella popolazione di ratti, salvo l’occasionale contagio di un essere umano, che non avrebbe però contagiato altri esseri umani. Se l’origine di Yersinia fosse stata davvero l’Africa centrale, qui avremmo avuto basse concentrazioni di uomini e di ratti. Per di più i ratti avrebbero avuto una migliore resistenza al batterio. Non c’è da stupirsi che questo terribile demone rimase a lungo nella sua area di incubazione.

Ma immaginate ora che Yersinia trovi il modo di emigrare e di giungere sulle sponde del mediterraneo, con le sue grandi città affollate da centinaia di migliaia di uomini e altrettanti ratti, ognuno con sul dorso decine se non centinaia di pulci. Cosa accade se la popolazione di ratti  viene infettata e collassa improvvisamente a causa della malattia? Cosa succede se abbiamo milioni e milioni di pulci che girano la città alla ricerca di qualunque cosa da morsicare, pur di sopravvivere?

Quello che abbiamo è una strage.

Possibile evoluzione della Peste nel 641 (ci sono altre teorie che puntano verso India o Asia centrale)

Per fortuna degli essere umani, tra l’Africa centrale e l’Egitto ci sono aree molto calde, che non permettono al ratto di diffondersi facilmente. I ratti, a differenza dell’opinione comune, sono degli animali piuttosto sedentari, vivendo in un raggio di circa 200 metri dalla loro casa. In più odiano il caldo e le temperature secche.

Immaginate ora, però, che un’enorme eruzione in Islanda – nel 536 – oscuri i raggi del sole per molti anni, facendo piombare le temperature in tutto il mondo, rafforzata da un’altra enorme eruzione nel 541. Gli scienziati hanno trovato che in molti altri casi fu proprio un brusco cambiamento climatico a permettere la propagazione di una malattia: l’ipotesi, possibile ma non verificabile, è che il brusco cambiamento climatico del decennio 536-546 sconvolse l’equilibrio ambientale nel quale viveva Yersinia pestis, forse spingendo i suoi ospiti a muovere verso la costa dell’Oceano Indiano. Di qui il morbo avrebbe preso un passaggio a bordo delle navi che partivano dai porti africani o da quelli indiani in direzione dell’Egitto: a quei tempi c’era un ricco commercio di avorio con l’Africa e di seta con l’India.

È possibile che Yersinia viaggiò quindi verso l’Egitto, sbarcando a Pelusio, un antichissimo porto del delta del Nilo, vicino a quello che oggi è il canale di Suez. Qui Yersinia trovò un’enorme quantità di ratti senza alcuna immunità al morbo: nel giro di poco tempo, la popolazione di ratti della città era sul punto del collasso e le pulci avevano iniziato a colpire gli essere umani. Primi fra tutti si ammalarono i marinai, sintomo che la malattia giunse a Pelusio dal mare. Poi gli operatori del porto, poi le persone che si recavano nell’area regolarmente, fino a che l’intera città fu preda del mostro.

Le malattie erano una costante del mondo antico, persino delle epidemie serie come quella che aveva colpito Pelusio non erano rare. Immagino quindi che nessuno fu particolarmente preoccupato, almeno fino a quando la malattia non giunse ad un’altra città vicina a Pelusio, una città ben più interessante per Yersinia pestis: Alessandria, patria di almeno mezzo milione di persone. Quando i ratti, le pulci e Yersinia giunsero lì, la malattia devastò la città per un interminabile inverno, tra il 541 e il 542. I cadaveri si accumularono sui cadaveri, tanto che l’intera città era ricoperta di un liquido nauseabondo prodotto dalla decomposizione di migliaia di cadaveri. Interi nuclei familiari furono devastati, mentre persone preda ai deliri vagavano in una città spettrale. Dopo centinaia di migliaia di morti, la città riemerse dal morbo solo in primavera.

Durante l’inverno le notizie viaggiavano lentamente nel mondo romano: le navi non viaggiavano, anche i trasporti di terra erano rallentati. La rilevanza di quanto accaduto nella seconda città dell’Impero non deve essere stata compresa immediatamente nel resto dell’Impero, o nella capitale. Sta di fatto che a primavera, gli egiziani fecero che lo stato richiedeva ogni primavera, scandendo da millenni la loro vita con la stessa certezza della morte e delle tasse. Gli egiziani raccolsero il grano nei grandi granai statali e lo inviarono ad Alessandria, per essere da qui spedito nel resto dell’impero dalla grande flotta che riforniva Costantinopoli e molte altre città minori del mondo romano.

Ancora una volta, fu la natura stessa dello stato romano a rendere possibile la pandemia: prima dell’Impero, il mondo era molto meno interconnesso. Quella romana era un’economia su scala intercontinentale: la pandemia avrà dimensioni comparabili. Le grandi navi cariche di grano, ratti, pulci e Yersinia si misero in viaggio per Costantinopoli, dove le attendevano altre centinaia di migliaia di persone, e uno storico: Procopio.

COSTANTINOPOLI

Ancora una volta Procopio si trovò, volente o nolente, al centro della grande storia. Da qui in poi vorrei citare in gran parte le sue parole che permettono di aprire una porta su quello che accadde in tutto il mediterraneo, nel giro di pochi anni. Siamo molto fortunati che ci fosse un uomo come Procopio a narrare tutto questo, visto che era un amante della storiografia classica di stampo tucideo e non cercò di spiegare quello che stava accadendo semplicemente come una manifestazione della volontà di Dio. Procopio ci fornisce un racconto di prima persona di quello che accadde, per quanto possibile scientifico e razionale. Leggiamo assieme.

Quell’anno scoppiò una pestilenza a causa della quale poco mancò che andasse distrutto l’intero genere umano. L’epidemia non si abbatté soltanto su di una parte del mondo o su un gruppo di uomini, né fu circoscritta ad una determinata stagione. Dilagò invece per tutto quanto l’universo e stroncò la vita di tanti uomini, senza distinzione né di età né di sesso”. A questo punto Procopio passa a descrivere i sintomi della malattia, con una accuratezza clinica che corrisponde perfettamente ai sintomi conosciuti della peste moderna, presente oggi in modo endemico tra roditori e ratti in Asia e America.

Le pagine più agghiaccianti sono però quelle dell’arrivo della peste a Costantinopoli: “In città la pestilenza durò quattro mesi, e in tre di questi fu particolarmente virulenta. Da principio la mortalità fu poco superiore al consueto, poi l’epidemia si diffuse sempre più rapidamente e il numero di morti raggiunse la media di cinquemila al giorno, per poi arrivare fino a diecimila e più”. Questo vuol dire che, in una città di 500.000 abitanti, il 2% della popolazione moriva ogni singolo giorno. Procopio passa a narrare come i dottori reagirono al morbo. Come i dottori moderni, provarono a studiarlo ma, privi di antibiotici, i loro studi erano destinati all’insuccesso:

Alcuni dei medici erano disorientati perché i sintomi non erano comprensibili. Pensando che la malattia si concentrasse nel gonfiore bubbonico, decisero di studiare i corpi dei morti. Aprendo quel bubbone, trovarono che si era sviluppata al loro interno una specie sconosciuta di carbonchio purulento.”. La malattia ebbe ovviamente dei terribili effetti sociali: “Nei primi tempi ciascuno si preoccupava di dare sepoltura ai morti della propria famiglia, in seguito però tutto finì nella confusione generale. Vi furono schiavi che rimasero senza padrone, alcune case restarono completamente deserte. Quando si giunse al punto che tutte le tombe esistenti furono piene di cadaveri, la gente se la sbrigava scavando delle fosse nelle campagne intorno alla città, come meglio poteva”. A questo punto Giustiniano diede ordine al suo segretario personale, un uomo di nome Teodoro, il compito di organizzare una risposta all’emergenza. Furono scavate delle fosse comuni intorno alla città come a Sicae, il borgo dall’altro lato del Corno d’Oro che è oggi chiamato Galata: i cadaveri venivano buttati nelle fosse e pressati dagli uomini dall’alto, come si pressa l’uva, riporta con orrore Procopio. Ma in ultimo, neanche questo bastò, narra Procopio: “non potendo più far fronte al numero dei defunti, i becchini salivano sulle torri delle mura di Sicae, qui scoperchiavano i tetti delle torri e gettavano dentro i cadaveri, accatastandoli alla rinfusa, secondo come cadevano, e poi coprivano di nuovo le torri con i tetti. Perciò da esse cominciò a diffondersi in tutta la città un puzzo nauseabondo, che diveniva sempre più insopportabile per gli abitanti”. La mente va, inevitabilmente, alla carovana di veicoli militari che lasciarono Bergamo nei giorni più acuti della nostra recente crisi.

La città fu sconvolta fino alle sue fondamenta: verdi e blu si riconciliarono, i malviventi presero a visitare le chiese. Eppure Procopio nota come la virtù, la bontà e la fede non sembrano proteggere dalla malattia, che non fa distinzioni di sorta tra uomini malvagi e buoni. Nessuno camminava più per le strade, rese spettrali dalla versione antica del lockdown: solo le persone incaricate di trasportare i cadaveri si aggiravano per la città, dei veri monatti Costantinopolitani. A causa dell’assenza del solito traffico di merci e rifornimenti, presto si diffuse in città anche la carestia: trovare un po’ di pane era un’impresa. Molti di quelli che non morirono di peste morirono di stenti.

La malattia fece crollare anche la rete di supporto familiare: le persone ammalate, nelle fasi più acute della malattia, necessitavano di cure costanti per poter sopravvivere. Spesso però i familiari erano già morti, o troppo spaventati per aiutarli: molte persone che sarebbero sopravvissute morirono così, da sole, per l’impossibilità di mangiare e bere autonomamente. Procopio conclude con delle parole che ci saranno estremamente familiari: “nella città che era la capitale dell’Impero Romano, tutti i cittadini se ne stavano rintanati, indossando gli abiti normalmente usati solo in casa.”

Le stime ovviamente variano, ma il più degli storici ritiene che la peste falcidiò almeno 250.000-300.000 dei 500.000 abitanti della città: circa il 50-60% del totale. Per mettere le cose in prospettiva, senza voler in alcun modo ridurre la scala della sofferenza inflittaci dal COVID-19, ad oggi in Italia è morto poco più dello 0,1% della popolazione a causa del Coronavirus: di questo, dobbiamo ringraziare soprattutto la moderna medicina, e le migliori condizioni igieniche.

In tutta la sua millenaria storia di capitale dell’Impero romano, Costantinopoli non tornerà mai alle vette di popolazione raggiunte nel 541, prima dell’arrivo del mostro. Non solo: in tutto l’Impero, nel giro di alcuni anni, fu annullata tutta la crescita di popolazione accumulata in più di un secolo, crescita che aveva alimentato la ripresa economica di Teodorico e Anastasio e in ultima istanza aveva permesso la politica espansionistica di Giustiniano. Ora tutto questo era svanito: via gli introiti fiscali record, via le nuove, rafforzate armate dell’esercito di Giustiniano, via la solida economia cittadina che aveva permesso all’Impero romano di sopravvivere alle procelle del quinto secolo.

IL MONDO

Ho speso un intero episodio per raccontarvi come giunse nei paesi del mediterraneo la malattia che un giorno sarà chiamata la morte nera. La ragione è che il suo arrivo è di portata cataclismatica, certamente uno dei più importanti eventi degli ultimi 2000 anni. Il livello di sofferenza, ovunque, fu senza precedenti: Giovanni di Efeso, un membro del clero monofisita, racconta di navi alla deriva nel mediterraneo, sulle quali tutti i marinai erano morti. Di campi di grano maturo che nessuno sarebbe venuto a tagliare, di frutta che cadeva a terra a marcire, di uva non raccolta, di bestiame sparso nei campi e senza più padrone, delle grandi vie dell’impero deserte, con le stazioni della posta imperiale ricoperte di corpi in putrefazione.

Eppure la peste non fu solamente un evento puntuale che si risolse nella morte di circa un terzo degli abitanti dell’impero, cosa che senza dubbio fu, mietendo almeno 25 milioni di vittime nei primi anni del contagio, nell’Impero romano, in Gallia e in Persia: l’equivalente di una guerra mondiale, in un mondo assai meno popolato. No, al di là della spaventosa prima ondata, che va dal 541 al 549 circa, la malattia ebbe la terribile abitudine di tornare regolarmente. A Costantinopoli sono riconoscibili cicli di quindici-venti anni: vi chiederete come mai. La ragione sembra essere che i sopravvissuti alla peste acquisivano una naturale immunità al morbo, ma questa non si trasferiva ai loro figli: ogni venti anni circa, la peste tornava e mieteva vittime tra i giovani e coloro che l’avevano scampata qualche decennio prima.

La seconda ondata scoppiò a Costantinopoli nel 558 e si diffuse poi in Cilicia, Mesopotamia e Siria. La terza ondata devastò l’Italia e la Gallia nel 571 ed è attestata a Costantinopoli nel 573-574. La seguente manifestazione della peste si verificò nel 590-591, a quanto pare partendo da Roma per colpire poi Ravenna, Grado e l’Istria nel 591 e Antiochia nel 592. La quinta ondata della pandemia scoppiò a Tessalonica nell’estate del 597 per poi spostarsi nel Mediterraneo orientale. E così via: sono state identificate almeno diciotto ondate di peste, tra il 541 e il 767, quando l’ultimo focolaio di peste è riportato a Napoli.

In questi due secoli, la popolazione umana in questa parte di mondo non poté in alcun modo aumentare, visto che veniva regolarmente falcidiata dalla peste. Anzi, calcoli ragionevoli, basati sulla dimensione delle città e sulla popolazione delle campagne, fa stimare che il mondo mediterraneo e l’Europa, al 750, avevano circa il 50-60% di abitanti in meno rispetto al 541. Certamente non solo a causa della peste, ma questa diede un contributo determinante: è difficile dire che il mondo sarebbe piombato nei secoli bui senza il determinante contributo di Yersinia pestis, difficile sostenere che ci sarebbe stata una tale discontinuità tra tarda antichità e medioevo. Di converso, la ripresa economica e demografica che si avrà a partire dall’ottavo secolo e che è passata alla storia come rinascita carolingia, coincide esattamente con la fine dei cicli del morbo. Quando la peste tornerà in Europa, nel 1348, metterà fine ad un altro spettacolare periodo di crescita demografica.

Eppure la peste è rilevante anche per i luoghi che non visitò: come ho detto, i ratti non vivono in ambienti caldi e secchi, come ad esempio i deserti: la penisola arabica non sarà colpita dalla peste, immagino possiate apprezzare cosa voglia dire avere un mondo di città densamente popolate che collassa proprio ai confini di un deserto popolato da popolazioni seminomadi, dedite alla razzia e con sviluppate capacità militari.

Quanto all’Italia, il quadro è difficile da ricostruire. Quello che ahimè ci manca è una chiara testimonianza scritta della peste in Italia, almeno fino al 590, quando è documentata sia dal liber pontificalis, la biografia dei Papi, che da Paolo Diacono: Nel 542-544 Procopio era già tornato a Costantinopoli e non abbiamo alcuna documentazione affidabile di quanto avvenne in Italia. L’unico indizio che sono riuscito a trovare è nel Liber Pontificalis: quando nel 545 Giustiniano convocò Papa Vigilio a Costantinopoli, questi fu condotto a forza alle banchine sul fiume Tevere. Qui ci fu una scena memorabile, come riporta la biografia dei Papi: “poi il popolo cominciò a lanciargli pietre, bastoni e contenitori pieni di escrementi gridando: “La tua fame ti accompagni! La tua pestilenza ti accompagni! Hai fatto del male ai romani! che tu possa trovare il male dove vai!”. Vigilio non era esattamente popolare, ma per portare i Romani a maltrattare in tal modo il loro vescovo, la situazione deve essere stata disperata.

Quello che sappiamo è che in Italia non fu la peste a causare una carestia, come a Costantinopoli: in Italia la carestia c’era già, e spaventosa. Le malattie sono ancora più devastanti in tempi di carestia, perché il corpo umano è più debole quando ha fame, il suo sistema immunitario è meno efficiente. Se nell’affollata Costantinopoli morì il 40% della popolazione, la mortalità deve essere stata simile o maggiore nelle città italiane devastate dalla guerra e dalla fame. Le conseguenze le vediamo nell’archeologia: intere città abbandonate e rimaste silenti, le città rimanenti che si restringono attorno al loro centro monumentale, mentre il resto viene abbandonato agli elementi. La situazione in Italia era talmente tragica che è impossibile distinguere l’effetto della guerra da quello della malattia.

Da un punto di vista più strettamente tattico, le conseguenze furono enormi anche da un punto di vista militare: la guerra in Italia era stata sostenuta da un continuo arrivo di rinforzi imperiali dall’oriente, ora quel che restava della potenza militare dell’impero fu dedicata alla guerra persiana, e neanche quello pareva bastare. I circa 12-15 mila imperiali rimasti in Italia furono falcidiati dalla peste, che colpì anche i Goti ovviamente, ma questi potevano contare su un continuo flusso di reclute tra i Goti e gli italiani, intenzionati a cacciare gli imperiali dal loro paese. La guerra, quasi sopita, era destinata a riprendere presto vigore nel desolato panorama di una penisola devastata dalla carestia e dalla peste.

Da ultimo, la reazione imperiale in Italia fu rallentata e ostacolata da un altro motivo: nei giorni più bui del contagio a Costantinopoli, dei bubboni comparvero sul corpo di Giustiniano. Nel giro di pochi giorni era incosciente a letto, e gli avvoltoi iniziarono a volteggiare sul suo corpo e sul suo impero.

PANDEMIA MODERNA

Un ultimo pensiero va ai milioni e milioni di morti di questa peste antica e della pandemia moderna. Non possiamo né dobbiamo vederli come numeri: sono persone, con figli e genitori, con amori e passioni. La distanza nel tempo, o nello spazio, non può renderci indifferenti. Per i morti di 1500 anni fa e per quelli di questo terribile anno (puntata uscita nel febbraio del 2021 NDR), spero vogliate unirvi a me, in un silenzio di qualche secondo in loro memoria.

Vorrei ringraziare Pierluca Piselli, un epidemiologo che si è prestato a correggere e rivedere il testo. Grazie mille Pierluca per l’aiuto e i testi che mi hai inviato. Grazie anche a Caterina Mendolicchio e a Riccardo Santato per aver letto l’orrore trasmesso da Procopio.

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