Episodio 75, Khosrau vs Giustiniano – testo completo

Il Re dei Re degli iraniani e dei non iraniani siede sul suo trono a Ctesifonte: da anni ha visto quello che sarebbe potuto essere suo fratello, l’imperatore dei Romani Giustiniano, conquistare territori su territori. Ma è stata la pace con la Persia che gli ha permesso di inglobare nuovi territori in Africa, è stata la pace con Khosrau Ashinawaran che ha dato la possibilità a Giustiniano di invadere l’Italia, la terra ancestrale del suo Impero. Giustiniano ha perfino avuto l’ardire di inviargli parte del tesoro di Cartagine: “avrebbe dovuto donarmi ogni singola moneta d’oro”, pensa Khosrau. 

Per anni Khosrau ha guardato il suo rivale accrescere il suo potere e la sua fama, dopo che era andato così vicino dall’essere distrutto nella rivolta di Nika. Quel giorno però è diverso: due sacerdoti cristiani, ai suoi piedi, implorano il suo intervento per salvare l’Italia dalla guerra.

Giustiniano crede di aver conquistato il mondo: ma tutto quello che ha, tutto quella che ha acquisito, lo ha preso in prestito da Khosrau. Il Re dei Re, soprannominato dai suoi sudditi “anima immortale”, tra sé e sé pensa: “E ora rivoglio tutto indietro”.

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L’ascesa di Totila

Prima di andare al cuore di questo episodio, che è tutto incentrato sui fatti orientali che tanta importanza avranno per il prosieguo della guerra in Italia, una breve introduzione su quello che accadde nel 541 in Italia: come vedrete, è importante.

Dopo la partenza da Ravenna di Belisario, dei suoi bucellarii, dell’ex Re Witigis con la regina Matasunta e il tesoro reale, il Re dei Goti Ildibad si ritrovò in controllo di Verona e Pavia e di una forza di appena 1.000 uomini, con la quale avrebbe dovuto far guerra alle trionfanti truppe imperiali. Per sua fortuna, ogni giorno che passava vedeva accrescersi il suo sostegno tra italiani e Goti.

Ma perché molti italiani erano ancora disposti a resistere agli imperiali, dopo che si erano dimostati talmente superiori in guerra? Una delle ragioni principali era che a Ravenna, poco prima della partenza di Belisario, era giunto mister “forbicina”, il feroce logoteta Alessandro, un funzionario del fisco imperiale abituato a tosare ben bene i contribuenti e a tagliare ogni spreco vero o presunto. Come in Africa, anche in Italia la nuova amministrazione imperiale impose immediatamente delle impopolari tasse, volte a far contribuire agli italiani le spese per la loro conquista. Alessandro, dopo un’occhiata ai libri contabili, sostenne che i possidenti italiani avevano defraudato Teodorico e i suoi successori, non dichiarando tutto il dovuto: cosa che era probabilmente vera. Ma in Italia gli evasori sono sempre impopolari finché gli evasori sono gli altri.

In Italia erano rimasti una dozzina di generali imperiali, tutti più preoccupati a tenere il controllo della propria regione che a combattere Ildibad, arricchendosi nel processo. Si perché, una volta che Belisario fu partito, con lui salì sulla nave anche la politica di rispetto verso gli autoctoni: i generali imperiali avevano il coltello dalla parte del manico, e iniziarono a taglieggiare gli italiani: un vero racket delle estorsioni. Un’altra ragione che fece pendere l’opinione pubblica italiana contro l’Impero fu l’antica indipendenza dell’Italia: la penisola si era sempre autogovernata, una parte della classe dirigente non si rassegnava a farsi governare da Costantinopoli: Molti italiani, soprattutto al nord, decisero quindi di unirsi alla ribellione di Ildibad. Non era una posizione generale, molti italiani erano dalla parte degli imperiali, in quella che si delineava sempre di più come una guerra civile.

In Veneto c’era un generale imperiale di nome Vitalio che decise di prendere la faccenda nelle sue mani: occorreva affrontare Ildibad prima che diventasse troppo forte. Vitalio mosse contro il Re dei Goti e lo affrontò in battaglia campale nei pressi di Treviso: contro ogni pronostico, Ildibad inflisse una tremenda sconfitta agli imperiali, la maggior parte di loro fu massacrata, Vitalio si salvò per il rotto della cuffia.

Dopo questa vittoria, la Venetia-et-Histria e la Liguria, in sostanza l’Italia a nord del Po, si unirono alla rivolta, facendo affluire uomini, risorse e materiali per continuare la guerra. Si unì ad Ildibad un costante flusso di soldati e veterani della guerra, gente che si era arresa a Belisario, rassegnati alla sconfitta del loro regno, ma che ora aveva ritrovato la speranza. Ildibad decise di spostare la capitale del regno a Pavia, ricostruendo una parvenza di amministrazione lì.

Eppure contro Ildibad c’era probabilmente la fazione del clan di Witigis, comandata da Uraias: ci deve essere stata una congiura, perché quello che sappiamo è che Uraias fu messo a morte. Poco dopo anche Ildibad fu assassinato. Moriva l’uomo che aveva traghettato il regno d’Italia verso un primo tentativo di ripresa. Procopio racconta una poco credibile storia di tradimenti e donne per giustificare quella che fu più probabilmente una controversia politica tra la fazione di Ildibad e l’ex fazione di Uraias, supportata da un gruppo di cui non abbiamo parlato molto di recente: i Rugi.

I Rugi erano un popolo che era venuto in Italia con i Goti, venendo sistemato da Teodorico e Liberio nella Venetia-et-Histria: nei seguenti decenni avevano mantenuto una distinta identità etnica. Nella confusione dopo la morte di Ildibad, il capo dei Rugi, di nome Eraric, riuscì a farsi eleggere Re dei Goti: si era nel Maggio del 541. Heraric intavolò immediatamente trattative con Ravenna: ufficialmente per raggiungere la stessa pace proposta un tempo da Giustiniano: i Goti avrebbero mantenuto un regno indipendente a nord del Po, riconosciuto nei fatti visto che gli imperiali non vi mettevano piede da mesi. Di nascosto però gli ambasciatori di Eraric proposero un patto simile a quello un tempo proposto a Teodato: la rinuncia al regno in cambio di una grossa somma e la nomina a patrizio di Costantinopoli.

Heraric però non ebbe più fortuna di Teodato. Qualcuno deve aver informato i nobili tra i Goti che erano stati traditi: questi inviarono un messaggero al capo della guarnigione di Treviso, offrendo a lui il regno. Il capo della guarnigione altri non era che Totila, nipote di Ildibad: dopo la morte dello zio, Totila aveva disperato del destino dei Goti e aveva già preso accordi con Costanziano, il generale imperiale a Ravenna, con l’obiettivo di cedere Treviso agli imperiali. Quando gli ambasciatori dei nobili gli fecero la loro proposta, Totila si fece scuro in volto e attese un po’ prima di rispondere, pensoso, forse soppesando le alternative che aveva di fronte. Cedere Treviso, e diventare un ufficiale imperiale, vivere una vita lunga e senza affanni. Oppure rischiare tutto, per diventare Re di un regno già sconfitto in partenza.

Totila infine disse che avrebbe accettato, ma ad una condizione: i nobili avrebbero dovuto uccidere Heraric per dimostrare che erano della partita. Quando questo avvenne, pochi giorni dopo, Totila lasciò per sempre la sua natia Treviso. Era l’Ottobre del 541 e Totila si mise in marcia in direzione di Pavia, del regno e della leggenda.

Il ritorno di Khosrau

La storia delle relazioni Romano-Persiane è costellate di guerre e di scontri epocali, sin da quando Re Ardashir fondò la dinastia Sassanide. Eppure Romani e Persiani, nel corso del quinto secolo, avevano appreso a vivere fianco a fianco, perché entrambi gli imperi erano terrorizzati da popolazioni nomadi: gli Unni per i Romani, gli Eftaliti per i Persiani.

Giustiniano aveva messo fine al lungo idillio, provocando l’Impero Persiano alla guerra, durante la giuntura difficile della successione al trono di Kavad. Il figlio di Kavad, Khosrau, si era dimostrato un avversario formidabile già alla sua ascesa al trono. Dopo la sconfitta persiana a Dara, le sue forze avevano avuto la meglio nella battaglia di Callinicum: solo il fatto che Khosrau era un Re dei Re nuovo di zecca, con una presa non ancora perfetta sul suo regno, gli aveva impedito di sfruttare il vantaggio della vittoria. Ne era seguita la pace eterna, che aveva permesso a Giustiniano di muovere molte delle sue forze militari alla conquista dell’occidente.

Khosrau era consapevole che le conquiste occidentali dei Romani, nel lungo periodo, avrebbero potuto alterare l’equilibrio di potere tra i due Imperi: dopo la conquista di Cartagine, Khosrau pretese e ottenne parte del bottino del regno dei Vandali, ma poi il Re dei Re vide che la Sicilia, una terra fertile e ricca, venne conquistata da Giustiniano senza tirare una freccia. Sul finire degli anni 30’, era evidente che prima o poi Costantinopoli avrebbe vinto la guerra in Italia. Dopodiché i soldati imperiali impegnati in Italia sarebbero tornati a casa, rendendo una guerra contro Costantinopoli molto più costosa e di dubbia riuscita.

Pertanto divenne sempre più evidente che, verso il 539, Khosrau stava cercando una scusa per iniziare la guerra: gli arabi Lakhmidi del suo alleato Al-Mundhir razziarono gli alleati arabi di Roma, i Ghassanidi di Al-Arith. Nel frattempo, mentre Belisario assediava Osimo e i Franchi scorrazzavano in Nord Italia, giunse a Costantinopoli un’ambasciata di Khosrau: il Re dei Re accusava Giustiniano di aver tentato di corrompere il suo alleato Al-Mundhir e di aver invitato gli Unni ad invadere la Persia. E’ così che si comportava una potenza alleata e amica?

Procopio sostiene che non ha prove per negare quanto i Persiani sostenevano: cosa che in codice procopiano vuol dire che erano probabilmente vere. Giustiniano era acutamente consapevole che in questo momento le sue forze militari erano troppo sbilanciate verso l’Africa e l’Italia: ormai 20.000 dei suoi migliori soldati erano impegnati nella guerra in occidente. Giustiniano provò quindi a mantenere la pace eterna distraendo Khosrau da propositi di guerra, fornendogli gentilmente altri nemici da combattere. Se così fu, la manovra ebbe l’effetto opposto. L’ambasciata espose all’imperatore che Khosrau aveva scoperto il suo gioco.

Giustiniano, a questo punto, era consapevole che Khosrau avrebbe attaccato prima o poi l’impero: ergo la sua fretta di chiudere la partita in Italia, in modo da rispedire i reparti d’élite dell’esercito  verso l’oriente. La situazione era grave anche perché l’imperatore, nel suo avventurismo militare in occidente, aveva trascurato il pagamento dei limitanei orientali, ovvero le truppe di guarnigione delle città e delle fortezze di confine.  

A Ctesifonte, lo stato maggiore persiano decise che occorreva colpire quanto prima: in quel frangente, arrivarono gli ambasciatori del regno d’Italia. Si trattava di due sacerdoti inviati da Witigis: fecero presente che la situazione in Italia era gravissima. Il regno rischiava di cadere come quello dei Vandali, allora molti dei Goti sarebbero stati deportati in oriente, a combattere Khosrau. “Davvero credi che un uomo ambizioso come Giustiniano non proverà a conquistare il tuo regno, dopo aver finito con l’Italia? – dissero gli ambasciatori di Ravenna – il momento di colpire è ora, mentre il grosso delle forze dell’imperatore sono bloccate in occidente”. Khosrau decise: avrebbe attaccato nella primavera del 540: diede ordine di preparare, nella massima segretezza, la macchina bellica persiana.

Capitale dell’Oriente

Mappa di Antiochia

Il 22 maggio del 330 a.C. il diadoco Seleuco I Nicator, uno dei grandi generali di Alessandro Magno che si stava contendendo le spoglie del suo impero, fondò una nuova, grande città all’ombra del Monte Silpio: Antiochia. Il sito era magnifico, posizionato nella fertile valle dell’Oronte, un fiume che, a differenza di molti altri fiumi mediorientali, aveva un corso stabile tutto l’anno ed era navigabile, congiungendo la città al suo porto sul Mare, Seleucia. Al centro del fiume, come per molte altre grandi città antiche, c’era un’isola che divenne il cuore monumentale della città. A est dell’isola, si innalzava l’alto monte Silpio, una vera barriera a difesa per la città. Stretta tra il fiume e il monte, le possenti mura dovevano solo chiudere i due relativamente corti lati tra queste due barriere per trasformare la città in una delle più imprendibili fortezze romane.

Per quasi tre secoli, Antiochia sull’Oronte fu la capitale dei Seleucidi, prima di essere conquistata nel 64 a.C. dalle vittoriose armate di Pompeo Magno. Da allora, Antiochia divenne la capitale dell’oriente romano: un’immensa metropoli di 500.000 abitanti, spesso sede del governo imperiale quando gli imperatori erano in campagna in oriente.

Nel sesto secolo Antiochia era ancora una delle più grandi città del mondo romano: era stata la prima città fuori dalla Palestina dove si era diffuso il cristianesimo, la comunità fu fondata da San Pietro in persona o da Paolo di Tarso. Antiochia era uno dei cinque patriarcati del mondo romano, con Gerusalemme, Alessandria, Costantinopoli e Roma, era la sede di una delle due famose scuole teologiche del mondo Romano, con Alessandria. La sua fama di città riottosa e libertina, colta e chiassosa era nota in tutto il mediterraneo. Al centro della città, si ergeva la meravigliosa chiesa ottagonale costruita da Costantino, una delle più grandi della cristianità. Il suo circo era famoso per ospitare le più importanti gare dopo quelle di Costantinopoli. Era insomma una vera metropoli romana.

Si trattava di una location ideale per una grande metropoli, salvo una certa predisposizione ai movimenti tellurici: un devastante terremoto all’inizio del regno di Giustiniano, nel 528, aveva danneggiato gravemente la città. Antiochia era ancora un enorme cantiere quando un altro tipo di terremoto, di natura umana, si avviò verso la sua direzione.

Blitzkrieg

Nelle eterne guerre caucasiche, Giustiniano aveva perso Sittas, uno dei suoi migliori generali. Giustiniano affidò quindi il comando dell’esercito d’Armenia a Buzes, mentre diede il comando delle forze dell’esercito d’Oriente, di stanza in Siria, a Belisario: per ora in contumacia, visto che Belisario era ancora impegnato nell’assedio di Ravenna. Giustiniano confidava di farlo tornare quanto prima in Siria: per questo inviò delle ottime proposte di pace a Witigis, in modo da chiudere già a primavera del 540 la guerra d’Italia, spostando Belisario e una parte dell’esercito d’Italia in Siria. Nel frattempo diede il comando dell’intero fronte orientale a Buzes.

Le cose non andarono però come Giustiniano aveva pianificato: Belisario rimase ad assediare Ravenna, imbrogliando i Goti e convincendoli a consegnare pacificamente il regno e Ravenna, nell’illusione di ricreare un Impero d’Occidente. Mentre Belisario si attardava in Italia per chiudere la guerra come gli era congeniale, Khosrau colpì, con un colpo di martello degno di Thor.

Mappa della spedizione di Khosrau I in Siria

Il Re dei Re, a differenza di Giustiniano, guidava personalmente il suo esercito: mosse lungo la sponda romana dell’Eufrate, giungendo fino a Circesium, alla confluenza tra il fiume Aborra e l’Eufrate. Da qui, evitando questa fortezza, puntò dritto verso il cuore della Siria. Si trattava di una rotta di invasione inusuale, che evitava la frontiera fortificata settentrionale, dove c’era la grande fortezza di Dara, testimone della prima memorabile vittoria di Belisario. Khosrau attraversò invece il deserto e si portò nelle vicinanze di Zenobia, una città fondata dalla regina omonima, per poi portare l’assedio alla città di Sura. La guarnigione resistette con coraggio al primo assalto persiano, ma il loro comandante fu ucciso. La popolazione, disperando di resistere, inviò il vescovo della città a parlamentare con Khosrau. Questi fece finta di accettare le trattative e chiese un enorme riscatto, facendo subito capire che il suo vero obiettivo non era la conquista di territori, ma di denaro contante. Il vescovo tornò in città con le buone notizie e una piccola scorta di soldati persiani che, all’apertura della porta principale, utilizzarono un masso per impedire che la porta fosse di nuovo chiusa, resistendo con le armi in pugno e impedendo alla guarnigione di Sura di richiuderle prima dell’arrivo dell’esercito persiano. La città fu selvaggiamente saccheggiata, l’intera popolazione sopravvissuta – 12.000 uomini – fu messa in schiavitù dai Persiani. Il Re dei Re aveva spedito un messaggio a tutta la Siria: provate a resistermi, e pagherete caro. Come ultimo sberleffo, Khosrau disse al vescovo della città, Anastasio, di andare a dire a Giustiniano dove aveva trovato Khosrau, figlio di Kavad: tradotto, informa l’imperatore che sto per fargliela pagare cara.

In tutto questo potreste chiedervi che fine ha fatto l’esercito romano. Il fatto era che in tempi normali gli eserciti orientali erano acquartierati in molti accampamenti diversi e Khosrau colpì prima che si potesse riunire l’esercito in un sol punto: in più pare che l’armata di Khosrau fosse di dimensioni inusitate: forse 40.000 o 50.000 uomini. Non c’era in oriente, in questo momento, una forza capace di resistergli.

Due persone e due eserciti potevano metterci una pezza: il primo era l’esercito di Armenia di Buzes. Questi scese dalle montagne con lo scopo di difendere la Siria, andando a rafforzare la città di Hierapolis, la prossima tappa del percorso di Khosrau. Quando si rese conto però che non aveva sufficienti uomini per combattere contro il Re dei Re, Buzes effettuò una rapida “ritirata strategica”: Procopio implica che se la diede a gambe levate. La città si arrese prontamente a Khosrau.

L’altro esercito era quello dell’oriente, in teoria sotto il comando di Belisario, ma questi era ancora nei dintorni di Ravenna, a giocare il suo gioco contro i Goti. Privi di un comandante e ridotti in numero, a causa dei numerosi trasferimenti in occidente, l’esercito mobile della Siria rimase immobile a Dara e nelle altre fortezze romane.

Cercando di metterci una pezza…

Ricostruzione di Antiochia.

Khosrau ebbe quindi la via completamente libero o quasi: Giustiniano, appena seppe dell’invasione, inviò ad Antiochia Germano, suo nipote e potenziale erede, per rafforzare le difese della capitale dell’oriente: forse vi ricorderete di lui per la sua campagna in Africa. Con Germano c’erano solo 300 cavalieri d’élite, ma l’imperatore promise di inviare altri rinforzi: in contemporanea, dal Libano giunsero altri 6.000 soldati per difendere la città. Una volta dentro Antiochia, Germano individuò un punto debole nelle difese della città: sul monte Silpio, nei pressi delle mura, c’era uno sperone di roccia quasi al livello delle mura: sarebbe stato possibile mettere lì un battaglione di arcieri e far piombare una selva di frecce sugli imperiali, indebolendo le difese della città. Germano, preoccupato, diede ordine di fare dei lavori per rettificare il problema, ma era troppo tardi: Khosrau era troppo vicino e forse era meglio non attirare l’attenzione su questo punto debole.  

Mentre l’impero cercava di rafforzare le difese della sua città più importante nella regione, Khosrau continuava la sua campagna di racket delle estorsioni: per seguire il suo percorso, vi consiglio di dare un’occhiata alla mappa della Siria che ho postato sul sito italiastoria.com. Innanzitutto Khosrau ottenne dal vescovo di Sergiopoli di avere 200 libbre d’oro per riscattare i cittadini di Sura: Candido, questo il nome del vescovo, non aveva una tale cifra ma si impegnò a pagarla entro un anno. Khosrau, ottenuto il pagherò di Candido, rilasciò gli sfortunati abitanti di Sura: a causa degli stenti della marcia, molti di loro morirono poco dopo. Khosrau si era invece liberato di bocche da non sfamare e che gli rallentavano la marcia: potè quindi proseguire con maggiore velocità.

La prossima tappa del Juggernaut persiano sulla via per Antiochia era Beroea – la moderna Aleppo. Il vescovo di Beroea era ad Antiochia e si consultò sul da farsi con Germano: alla fine i due decisero che l’unica opzione era di offrire un enorme riscatto a Khosrau, che era chiaramente venuto in Siria per riempirsi le tasche. I due non videro altre alternative, stante l’impreparazione dell’esercito Romano.

Il vescovo di Beroea, il cui nome era Mega, raggiunse Khosrau e i due riuscirono a raggiungere un accordo preliminare: il Re dei Re si sarebbe ritirato dalla Siria se gli fosse stata data la sbalorditiva somma di 1000 libbre d’oro, ovvero 72.000 solidi. Mega acconsentì e decise di tornare ad Antiochia per confermare l’accordo con Germano e i notabili della città. Una volta nella capitale dell’oriente, Mega non trovò più Germano: il nipote di Giustiniano aveva abbandonato la città, ritenendo che la sua presenza avrebbe attratto Khosrau, o forse semplicemente temendo che la sua presenza in città avrebbe gravemente nuociuto alla salute di Germano. In sua vece, erano arrivati ad Antiochia due plenipotenziari di Giustiniano, con il compito di trattare con Khosrau: uno di questi era Giuliano, il segretario a secretis, l’eunuco Varys di Giustiniano. Gli ambasciatori dissero a Mega che non se ne parlava: Giuliano vietò a chiunque in Siria di pagare il nemico del governo imperiale, quanto all’offerta di Mega: non se ne sarebbe fatto nulla.

Mentre il vescovo di Beroea si affannava inutilmente ad Antiochia, Khosrau si recò invece nella sua Beroea: qui chiese ai cittadini 4.000 libbre d’argento, questi ne promisero 2.000 ma nottetempo decisero di rifugiarsi tutti nell’Acropoli. Il giorno dopo, un furioso Khosrau trovò le mura cittadine abbandonate. Fu in questo frangente che Mega tornò a mani vuote, trovando la sua città e il suo gregge sull’orlo del disastro. Khosrau lo mandò dritto dai suoi, rintanati nell’Acropoli, per fare presente cosa faceva lui solitamente a chi gli si opponeva.

Quando Mega entrò nell’Acropoli, vide una scena disperata: i cittadini si erano rifugiati lì assieme a tutto il bestiame, ma tutte queste bocche assetate avevano quasi prosciugato l’unica fonte disponibile. Al povero vescovo non rimase che gettarsi ai piedi di Khosrau, implorando pietà: questo Mega deve aver saputo il fatto suo in quanto a negoziati, visto che nonostante tutto riuscì ad ottenere che gli abitanti della futura Aleppo abbandonassero vivi l’Acropoli. Quanto alla guarnigione di Beroea, questi dissero che intendevano arruolarsi con i Persiani, se li avessero voluti: da tempo infatti Giustiniano gli faceva mancare la paga.

Con la caduta di Aleppo, l’ultimo ostacolo tra Khosrau e Antiochia era stato rimosso.

L’assedio

Rovine della grande via porticata di Apamea: molte città siriane avevano simili, colossali strutture

Pochi giorni dopo, Khosrau piantò le tende sotto le possenti mura di Antiochia: per non saccheggiare la città, chiese un pagamento di 1000 libbre d’oro, ma era chiaro che avrebbe accettato anche di meno. Gli Antiocheni, forti dell’incitamento degli ambasciatori imperiali e dei 6.000 rinforzi giunti dal Libano, decisero di resistere. Anzi, si fecero scherno di Khosrau e dei Persiani, qualcosa che il suscettibile Re dei Re tenne ben a mente.

Quello che avvenne successivamente mette in ancor miglior luce il capolavoro di Belisario, che riuscì a difendere Roma contro un nemico molto superiore per un anno. I difensori di Antiochia, di fronte alla punto debole che aveva individuato Germano, costruirono degli spalti di legno, in modo da allargare le mura e ospitarvi più soldati e arcieri, capaci di resistere alla pioggia di dardi che sarebbe piovuta di là. Come previsto, Khosrau individuò il punto debole e portò lì il grosso dell’esercito, mentre un’unità tentava un’azione diversiva attraverso il fiume Oronte. Nella foga della battaglia, troppe persone si assembrarono sulle piattaforme di legno e queste rovinarono al suolo. A causa del seguente fracasso, i difensori temettero che le mura fossero già state abbattute e conquistate e abbandonarono le difese: i Persiani presero le mura sul monte Silpio e Khosrau mandò tutti i suoi uomini a prendere le altre porte, meno una: da intelligente stratega, sapeva che i Romani avrebbero combattuto duramente, come bestie braccate, se non avessero avuto una via d’uscita. Invece, lasciandogli una porta aperta, invitò i soldati alla fuga. Alcuni soldati Persiani indicarono perfino ai Romani che direzione prendere per scappare.

E fuga fu. Narra Procopio: “Gli uomini venuti dal Libano balzarono immediatamente sui cavalli e si lanciarono al galoppo verso le porte della città. A quella notizia, molti cittadini di Antiochia, con le donne e i bambini si precipitarono anche loro lì, ma, siccome si affollavano tutti in uno spazio molto ristretto, molti furono calpestati. I soldati non si preoccuparono affatto di quelli, anzi galoppavano ancor più freneticamente sui corpi di coloro che giacevano a terra e così ne venne fatta una grande strage

Quando i Persiani furono certi che tutti i soldati Romani erano fuggiti, discesero dalla fortezza sul monte Silpio in direzione del centro della città: qui si trovavano i picchiatori dei Demi, i blu e i verdi di Antiochia, che provarono un’ultima disperata difesa della loro città, riuscendo perfino ad uccidere molti Persiani. L’unico risultato fu di infuriarli, visto che i Persiani erano troppi e presto li sopraffecero.

Una volta che la città fu nelle sue mani, Khosrau diede ordine di saccheggiarla a fondo: vi furono trovate una quantità enorme di ricchezze, visto che era una delle città più ricche al mondo. Solo quanto era custodito nella chiesa madre di Antiochia valeva un tesoro imperiale. Come i grandi conquistatori, Khosrau aveva anche un occhio per l’arte: fece requisire centinaia di statue di marmo di grande bellezza, per portarle in Persia. I cittadini rimasti nella città, ancora molti, furono catturati e messi in schiavitù. Terminato il saccheggio, Khosrau diede ordine di dar fuoco alla città, solo la grande chiesa di Costantino fu risparmiata.

Procopio, a distanza di anni, è ancora sotto shock: “Mi sento preda delle vertigini a scrivere di una simile calamità, trasmettendola alla memoria dei tempi futuri, né riesco a capacitarmi di come, per volontà di Dio, possa avvenire che la fortuna di un uomo o di un paese sia elevata al massimo e poi precipiti e svanisca senza alcun motivo a noi evidente.  Perché sarebbe empio sostenere che Dio non provvede a regolare tutte le cose secondo un disegno preciso: eppure Dio tollerò di vedere rasa al suolo Antiochia, una città della quale ancora adesso non è possibile nascondere la bellezza e magnificenza”.

Renovatio Imperi?

Il saccheggio di Antiochia e la rovina della Siria fu la conseguenza, da un punto di vista strategico, dell’avventurismo occidentale di Giustiniano, mentre da un punto di vista tattico la città fu condannata al saccheggio dalla decisione di Belisario di non chiudere la pace con Witigis: sono certo che Belisario, anche con solo pochi uomini in più, avrebbe fatto assai meglio e Antiochia era a soli 18 giorni di navigazione da Ravenna. Ravenna cadde nelle mani degli imperiali pochi giorni prima.

Khosrau II

Assieme alla città, Khosrau catturò anche gli ambasciatori di Giustiniano, incluso il maestro dei segreti, Giuliano. Khosrau li usò per intavolare delle trattative: ora le sue richieste per una ritirata vennero quintuplicate. Il Re dei Re chiedeva 5000 libbre d’oro, sull’unghia, più altre cinquecento per ogni anno in cui sarebbe durata la pace: trovo che non fosse un accordo terribile per l’impero, che aveva i fondi per pagarlo. In più un pagamento annuale avrebbe garantito un miglior comportamento da parte di Khosrau, che avrebbe avuto tutto l’interesse a non attaccare la sua gallina dalle uova d’oro. Khosrau voleva trattare l’Impero Romano, in sostanza, alla stregua di come l’aveva trattato Attila, ma le sue richieste erano comunque meno esose: Attila era arrivato a chiedere 2100 libbre d’oro all’anno.

Gli ambasciatori non poterono far altro che stendere una bozza di trattato e incamminarsi verso Costantinopoli per esporre il tutto al loro padrone, nel frattempo le parti accettarono un provvisorio accordo di tregua. Nell’attesa, Khosrau pensò bene di togliersi un bel po’ di sfizi: innanzitutto viaggiò fino al mar Mediterraneo, il mare che i suoi predecessori avevano sempre sognato di raggiungere. Qui, sulle rive del Mare Nostrum, Khosrau si fece da solo un bel bagno, una bella cartolina per Giustiniano.

Poi pensò che era inutile attendere lì la risposta dell’imperatore, decidendo invece di darsi ad un bel tour della Siria, volto a riempirsi le tasche. La prossima città attenzionata da Khosrau fu Apamea, la città famosa per il suo colossale colonnato lungo quasi due km: andate a vedere le immagini delle rovine, è davvero impressionante. Qui Khosrau si accontentò di 1000 libbre d’argento e dell’autorizzazione da parte del vescovo locale di visitare la città con 100 dei suoi uomini: il Re dei Re marciò attraverso le porte e si fece portare in un giro turistico. Giunto nel circo, fece organizzare delle grandiose gare tra le squadre locali. Khosrau, durante la competizione, tifava per la fazione dei verdi, d’altronde tutti sapevano che Giustiniano teneva per i blu: ovviamente i verdi vinsero. Nel linguaggio di internet, si potrebbe dire che Khosrau stava trollando Giustiniano.

La marcia trionfale di Khosrau si concluse attraverso un’altra serie di città siriane e dell’Osroene: Chalcis, Carre, Edessa, Costantina: Khosrau continuò ad utilizzare le città dell’oriente romano come altrettanti Bancomat. Finalmente si presentò sotto le mura della sempre impressionante fortezza di Dara, la spada nel fianco delle difese persiane. La già nutrita guarnigione locale era stata già rafforzata da un contingente arrivato in tutta fretta dall’Italia, comandato da Martino, uno dei responsabili della caduta di Milano e che era arrivato in Mesopotamia dopo aver abbandonato la sua base a Tortona, su ordine di Belisario. La città resse ad un tentativo di assalto persiano: i scavarono un tunnel sotto le mura, ma questo fu intercettato dai genieri romani.

Nel frattempo arrivò la risposta di Giustiniano: acconsentiva al trattato di pace con Khosrau, che fu molto felice della cosa. Arrivò a chiedere alle città circostanti se intendevano riscattare gli sfortunati abitanti di Antiochia e ci fu una gara alla solidarietà, Procopio riporta che perfino le prostitute diedero i loro gioielli, pur di liberarli. Ma sul posto arrivò il generale Buzes, lo stesso che aveva abbandonato Hierapoli al suo destino, e proibì alcun riscatto. Allora Khosrau decise di prendere con se tutta la popolazione rimasta di Antiochia e li fece marciare attraverso il deserto fino a Ctesifonte. I sopravvissuti furono messi al lavoro per costruire una nuova città: che il Re dei Re chiamò, con sottile perfidia, “la migliore Antiochia di Khosrau”. Un cronista arabo del nono secolo sostiene che Khosrau la fece costruire in onore dei suoi “ospiti”, la realtà è che probabilmente i sopravvissuti alla lunga marcia dovettero costruirla con le loro mani.

Quando Giustiniano venne a sapere che Khosrau aveva provato a prendere Dara con la forza, ritenne che la tregua era stata violata: una cosa era taglieggiare i suoi sudditi, questo a Giustiniano interessava fino ad un certo punto, un’altra provare a prendere una delle più importanti fortezze dell’Impero. Giustiniano dichiarò nulli tutti i patti e si preparò ad una guerra totale su tutti i fronti nei confronti della Persia: questa guerra, assai più di quella d’Italia, sarà il suo focus nei prossimi anni.

La marcia trionfale di Khosrau fu un completo disastro per Giustiniano: una delle regioni più ricche e produttive dell’impero era stata devastata e privata delle sue ricchezze. La più grande città della regione era una rovina fumante. Ancor più ominosamente, gli abitanti dell’oriente romano si sentivano abbandonati dal loro governo, più interessato ad inutili guerre occidentali che alla loro sicurezza: cosa interessava a loro di Ravenna o di Roma?

Sul finire dell’anno, Giustiniano stava ancora riflettendo su come rispondere a questo disastro, quando infine arrivò a Costantinopoli Belisario, di ritorno dall’Italia: con se aveva Witigis, il suo tesoro e un gran numero di prigionieri Goti. Belisario questa volta non ebbe alcun trionfo: la situazione non permetteva una stravagante festa, ma credo che Giustiniano fosse assai poco soddisfatto della cosiddetta vittoria del suo generale. Belisario fu spedito in oriente, assieme ai Goti d’Italia, con il compito di far pagare caro a Khosrau la sua aggressione, l’anno seguente.

Belisario, nel corso dell’inverno, mise su un’armata capace di invadere l’Impero Persiano, o almeno capace di far finta di farlo: non c’erano ancora abbastanza soldati per affrontare direttamente il cuore dell’armata persiana. Un po’ di Vandali e Goti sconfitti, i resti dei limitanei che non avevano disertato per Khosrau, un po’ di unità dell’esercito mobile.

Salvare la faccia

In primavera, giunse notizia che Khosrau era nel nord, a combattere gli Eftaliti, dall’altra parte del mondo: Belisario si sentì in grado di attuare un’invasione dimostrativa della Mesopotamia persiana. Attraversò la frontiera da Dara, e si accampò presso l’imponente Nisibis: qui era acquartierato lo Spahbed dell’occidente, il comandante persiano dell’intero teatro di guerra. Il giorno dopo si combatté una breve battaglia: i Persiani furono respinti, ma riuscirono ad asserragliarsi nell’imprendibile fortezza. Belisario decise di dirigersi verso la meno imponente cittadella di Sisauranon.

Gli 800 difensori persiani di Sisauranon, al comando dell’armeno Artabazes, resistettero con coraggio contro i 20.000 di Belisario, ma Belisario apprese che non avevano molte provviste e gli offrì la resa: i persiani gettarono la spugna e furono inviati a Costantinopoli, di qui finiranno a combattere per l’impero in Italia, come vedremo tra poco. Sisauranon venne rasa al suolo, al che Belisario, raggiunto l’obiettivo simbolico di aver causato qualche danno ai Persiani, si ritirò prima che un vero esercito giungesse ad affrontarlo. L’impero non era ancora nelle condizioni per permettersi di rischiare una sconfitta.

Il problema fu che Khosrau non era in oriente a combattere gli Eftaliti: questa era solo una messinscena che aveva messo in giro per depistare i suoi avversari. Invece la sua possente armata si presentò in un altro tratto della frontiera Romano-Persiana, di incalcolabile valore strategico: la Lazica, la moderna Georgia.

I Romani, dopo la guerra tra Giustino e Kavad, avevano occupato questo regno caucasico che era fondamentale per impedire ai Persiani di avere un accesso sul Mar Nero, cosa che gli avrebbe permesso di costruire una flotta su questo mare, minacciando Costantinopoli. L’occupazione era però malvista dai locali, che dovevano rifornire la locale guarnigione di Petra, senza considerare che gli era stato imposto un costoso monopolio sulle importazioni. Khosrau era stato informato che i Lazichi erano pronti a ribellarsi e si presentò quindi nella regione, aprendo un nuovo fronte della guerra. Qui ottenne la sottomissione del locale Re della Lazica, mentre Khosrau inviò il suo esercito a prendere la fortezza di Petra, sul Mar Nero, la principale guarnigione imperiale. I soldati resistettero con coraggio per diversi giorni ma, alla morte del loro comandante, offrirono di arrendersi e di unirsi all’esercito persiano: da tempo Giustiniano aveva lesinato anche a loro la paga.

Un generale turco, dopo la sconfitta della flotta ottomana a Lepanto, che era seguita alla conquista ottomana della veneziana Cipro, disse ai veneziani: voi ci avete rasato la barba, noi vi abbiamo tagliato un braccio. Il turco alludeva al fatto che la flotta si poteva ricostruire, mentre i Veneziani avevano perso un pezzo importante dei loro possedimenti orientali. Lo stesso può dirsi della guerra nel 541: Belisario aveva bruciacchiato la barba di Khosrau, questi aveva tagliato un braccio a Giustiniano.

Il terzo incomodo

L’anno seguente, il 542, Khosrau tornò in Mesopotamia con il suo intero esercito da campo, seguendo la stessa rotta di invasione del 540. Passò di fianco alle rovine di Sura ma da lì prese una direzione nuova: verso sudest. Il nuovo obiettivo era Gerusalemme, la città santa dei Cristiani, carica di incalcolabili tesori, sia pecuniari che di fede, che i Romani avrebbero pagato a peso d’oro pur di riavere. Belisario non aveva gli uomini per affrontare il principale esercito da campo dell’Impero Persiano e si limitò a raggiungere la città di Europum, sull’Eufrate, radunando a sé tutte le truppe disponibili nei dintorni e inviando messaggeri a Khosrau. Nulla sembrava poter impedire ai Persiani di prendere e saccheggiare la Palestina, come avevano fatto con la Siria: a questo punto Procopio sostiene che fu un’abile mossa diplomatica di Belisario a fare la differenza. All’arrivo degli ambasciatori di Khosrau, Belisario si presentò con 6.000 uomini del suo esercito, tra questi molti alti e biondi Vandali e Goti, in perfetto ordine da parata. Questi germani avrebbero impressionato così tanto i Persiani da convincerli a ritirarsi, almeno nell’improbabile storia di Procopio. Khosrau tornò sull’Eufrate e qui costruì un ponte, senza essere molestato da Belisario: Khosrau si ritirò, ma lungo la strada prese e saccheggiò la città di Callinicum, una fortezza importante della regione dove i Romani stavano ancora restaurando le dilapidate mura e che quindi non ebbe la forza di reggere l’urto dei Persiani. Belisario si limitò a lasciar andar via Khosrau, gloriandosi del fatto che l’oriente romano, nel 542, aveva subito molti meno danni di quanto ne avesse subiti nel 540.

Lo so, vi aspettavate tutti uno showdown tra Belisario e Khosrau: ma qualcosa era avvenuto verso sud, molto più preoccupante di 6.000 soldati germanici. Qualcosa che aveva convinto Khosrau a rinunciare ai suoi sogni di gloria in Palestina, qualcosa che aveva spinto Belisario ad evitare per quanto possibile qualsiasi movimento. Un nemico più forte di ogni esercito Persiano e Romano era sbarcato in Egitto e di lì allungava i suoi tentacoli verso la Palestina, la Siria, la stessa Costantinopoli. Storie di un orrore senza paragoni giungevano da Alessandria: cadaveri su cadaveri, migliaia di animali, campi abbandonati, navi senza marinai, persone senza più il senno, gente che si gettava dai palazzi per morire. Ovunque follia e orrore.

Yersinia Pestis era arrivata.

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