Nello scorso episodio, Belisario e Narsete hanno metodicamente conquistato una ad una molte delle fortezze gotiche del centro Italia, ma di converso i Goti sono riusciti a riprendere la futura Lombardia, radendo al suolo Milano.
Belisario, come Teodorico prima di lui, giungerà in questo episodio a Ravenna, la città circondata dall’acqua delle lagune della Romagna. I tetti lucenti dell’ultima capitale dell’occidente risplendono vicini e lontanissimi. La città è sempre imprendibile, anche assediata da terra e mare. Ma Belisario conosce come combattere una guerra di nervi, applicando la pressione psicologica sui nemici. Mossa dopo mossa Belisario occuperà la scacchiera dell’Italia, mettendo sotto scacco il suo Re a Ravenna. Ma sarà un semplice scacco al Re o uno scacco matto?
Una ribellione africana
Prima di gettarci negli eventi italiani, vorrei aggiornarvi brevemente sugli eventi in Africa. Durante l’episodio 66 abbiamo lasciato i ribelli di Stotzas liberi di saccheggiare l’Africa nonostante la sconfitta per mano di Belisario, nel 536. Per risolvere la situazione nelle nuove province africane, Giustiniano inviò a Cartagine quello che sarà nei prossimi anni uno dei suoi factotum, oltre che erede presunto, vale a dire suo cugino Germano. Questi era un generale e un amministratore energico e capace, sempre fedele all’imperatore. Appena arrivato a Cartagine, all’inizio della primavera del 537, Germano si rese conto che solo un terzo degli effettivi era rimasto fedele alla causa imperiale, mentre il resto aveva disertato per Stotzas. La sua prima mossa fu propagandistica: permise a chi voleva tornare sui suoi passi di farlo senza rischio di punizioni, avendo la paga reintegrata anche per il periodo nel quale aveva militato con i ribelli. Molti dell’esercito di Stotzas tornarono sui loro passi e un costante flusso di pecorelle tornò all’ovile cartaginese. Percependo che il suo esercito si stava dissolvendo, il ribelle portò i suoi nei pressi di Cartagine, con l’obiettivo di forzare una battaglia fintantoché aveva il vantaggio dei numeri.

Germano però aveva già raggiunto un numero sufficiente di soldati da tentare una battaglia in campo aperto: i suoi uomini uscirono ordinatamente da Cartagine e iniziarono a schierarsi per lo scontro ma, alla vista dei soldati imperiali, gli uomini di Stotzas si sentirono perduti e si diedero alla fuga. I ribelli fuggirono verso la Numidia, dove avevano le loro basi, le loro ricchezze e le famiglie che avevano messo su durante la ribellione. Germano li seguì da presso, cogliendo i ribelli in una località chiamata Scale Vetere: qui si combatté una confusa battaglia: Germano riuscì a prevalere, Stotzas si diede di nuovo alla fuga rifugiandosi tra i Mauri. Qui finì per mettere su famiglia, diventando un leader di quel popolo. Germano passò i seguenti due anni in Africa: nel 538 un suo luogotenente, un certo Massimino, ordì una congiura per rovesciare il governo di Germano, alleandosi con notabili romano-africani e con le fazioni del circo di Cartagine, l’equivalente dei Demi di Costantinopoli. Infatti la congiura prevedeva di riunire nel circo un importante numero di soldati ribelli assieme ad una grande folla di picchiatori autoctoni, probabilmente non del tutto soddisfatti di come venivano trattati dal nuovo governo imperiale. Molti africani rimpiangevano i Vandali, che erano stati meno capaci di spremerli come degli agrumi, a differenza degli spietatamente efficienti burocrati imperiali.
Germano fu informato da una soffiata che qualcosa bolliva in pentola e inviò le sue truppe nel circo di Cartagine prima che i suoi oppositori si fossero completamente radunati: a questo punto Germano utilizzò il metodo Belisario, dando ordine di trucidare i dimostranti senza alcuna pietà. Un grande numero dei cittadini di Cartagine e dei soldati ribelli perì nella rivolta, sedata sul nascere e nel sangue, in una mini-replica di Nika. La città, sotto shock, non causò più problemi a Germano.
Nel 539 le nuvole iniziarono ad addensarsi sul fronte orientale e Giustiniano mosse di nuovo le sue pedine sullo scacchiere mediterraneo: Germano e buona parte dei suoi furono ruotati verso l’oriente, mentre Solomone tornò in Africa alla testa di nuove truppe, non le turbolente armate che avevano conquistato l’Africa, sempre pronte alla rivolta. Solomone riportò finalmente la calma in Africa: secondo le parole di Procopio “Solomone mandò a Costantinopoli o a Belisario tutti gli elementi sospetti nell’esercito. in loro vece, arruolò nuovi soldati. Fece sloggiare da qualsiasi punto dell’Africa i Vandali superstiti e li deportò in oriente assieme alle loro donne. Circondò di mura le città e ristabilì l’autorità del governo. Sotto di lui, l’Africa tornò ad essere ricca e florida sotto ogni aspetto”. Le parole di Procopio sono in parte documentate archeologicamente, troviamo infatti una serie di fortificazioni che protessero il cuore della provincia africana dagli attacchi dei Mauri, ma la ripresa economica è forse più un pio desiderio di Procopio. Comunque sia, al prezzo di un vero genocidio dei Vandali, l’Africa era oramai pacificata. Eppure la pace tanto decantata da Procopio durò solo quattro anni. Le tribolazioni di Solomone non sono ancora finite.
I will be back
Torniamo ora in Italia: la caduta di Milano fu un disastro per la causa imperiale: Milano era una delle città più ricche delle penisola, ospitava molti membri della classe dirigente italiana e buona parte delle infrastrutture di governo della penisola. Dopo aver messo a morte i senatori ostaggi a Ravenna, i Goti avevano mandato un chiaro segnale agli italiani: si aspettavano obbedienza, gli anni di condivisione del regno erano terminati. Il tradimento di Roma e Milano li avevano irrigiditi nelle loro posizioni nazionalistiche. Il terrorismo a suo modo funzionò: gli italiani saranno da ora in poi molto più accorti nell’accogliere guarnigioni imperiali.
Questo disastro, sia militare che di propaganda, fu l’ultima goccia per Giustiniano: una volta ricevuto un rapporto dettagliato su quanto accaduto, l’Imperatore ordinò di richiamare in Italia Narsete, riaffidando la guerra d’Italia al solo Belisario. Narsete tornò a Costantinopoli con i suoi bucellari, ma Il problema aggiuntivo per Belisario fu che anche un gruppo nutrito di Eruli rifiutò di restare nella penisola: si trattava di un gruppo di foederati germani che Narsete aveva portato in Italia. Gli Eruli decisero che non avrebbero continuato la guerra senza il loro protettore. Marciarono verso il Veneto e chiesero ai Goti il permesso di passare, permesso che gli fu ovviamente concesso, in cambio della cessione di una parte del loro bottino.
Ma non preoccupatevi per Narsete: come Terminator, sarà di ritorno

La guerra si espande
Witigis di converso fu rincuorato dalla presa di Milano: forse la guerra non era ancora perduta. Il Re però comprese che non poteva sperare di vincere senza delle alleanze. A tal fine, sondò Wacho, il Re dei Longobardi. I Longobardi erano oramai vicini di casa dell’Italia, ma questi risposero che si ritenevano alleati dell’Imperatore e non intendevano rinnegare i patti.
Witigis allora ideò un piano ancora più audace: era evidente al Re dei Goti che Giustiniano aveva avuto le risorse militari e finanziarie per abbattere il regno dei Vandali, e poi aprire la guerra d’Italia, solo dopo aver concluso la pace con il suo grande rivale, l’Impero persiano. i Goti e l’Italia non avevano alcuna speranza contro un impero che pareva un pozzo senza fondo di risorse e che continuava costantemente ad inviare rinforzi nella penisola. Occorreva aprire un secondo fronte talmente devastante da bloccare la potenza di Costantinopoli. C’era un solo potere nel mondo capace di questo: i persiani di Khosrau. Occorreva stabilire un contatto con Khosrau e a tal fine Witigis convinse due prelati della Liguria a mettersi in viaggio per la Persia, attraverso i Balcani: da sottolineare come questi fossero dei Romani, segno del supporto che il governo di Ravenna aveva ancora in Italia. incredibilmente, come vedremo nel prossimo episodio, i due sacerdoti arriveranno a Ctesifonte. Perché la pace eterna tra Giustiniano e Khosrau ha i giorni contati.

Giustiniano fu informato che qualcosa si scuoteva ad est, per dirla come Legolas, e finalmente decise che era arrivato il tempo di negoziare con Witigis: la cosa che Giustiniano più temeva era una guerra senza quartiere su due fronti, come Bismarck prima della prima guerra mondiale. La cosa curiosa è che gli ambasciatori inviati da Witigis a Costantinopoli durante l’assedio di Roma erano ancora a Nuova Roma. Giustiniano li inviò a Ravenna, offrendo di negoziare una pace accettabile per entrambi i contendenti.
Belisario catturò però gli ambasciatori dei Goti: come vedremo, Belisario giocò in questa fase il ruolo di guerrafondaio, temendo una composizione della guerra prima che lui potesse trionfare sui Goti. Per rilasciare gli ambasciatori gotici, Belisario pretese la liberazione del nostro vecchio amico, l’ambasciatore Pietro, che ancora languiva nelle segrete di Ravenna dove l’aveva sbattuto Teodato: Pietro fu rilasciato e fu accolto da Giustiniano a Costantinopoli, con tutti gli onori.
Belisario non aveva nessuna intenzione di lasciare che la guerra venisse negoziata: sentiva che era sul punto di stringere il nodo scorsoio attorno a Ravenna. Per prima cosa condusse il suo esercito ed investì la grande fortezza di Osimo, dove erano asserragliati circa 10.000 nemici, la vera difesa avanzata di Ravenna. Allo stesso tempo inviò un distaccamento ad assediare Fiesole, la città fortezza sopra Firenze, il principale caposaldo dei Goti in Toscana. Per difendere i suoi uomini a Fiesole da un possibile attacco dell’esercito della Liguria di Uraias, Belisario inviò l’esercito di Martino e Giovanni il sanguinario a presidiare i guadi e gli altri passaggi sul fiume Po, in modo da intrappolare Uraias a nord del fiume. Martino e Giovanni si impadronirono della fortezza di Tortona, costruita da Teodorico, e di lì misero sotto osservazione il corso del grande fiume.
Theodebert prova a fare il Napoleone

Fu a questo punto che un nuovo fattore si inserì inaspettatamente nella guerra: Il Re dei Franchi di Austrasia, Theodebert, aveva appoggiato i Goti nella loro guerra, avendo però l’accortezza di mantenere una facciata di neutralità nei confronti dell’imperatore. Theodebert era però il sovrano più ambizioso dei Franchi: dominava un vasto territorio lungo tutto il corso del Reno e si era impadronito di Arles in seguito all’accordo con Witigis del 537. Arles non era solo una grande città, era la capitale della Gallia Romana, ancora a quei tempi la sede del suo vescovo metropolita. Per festeggiare l’evento, Theodebert aveva organizzato gare del circo, si era circondato di consiglieri romani, era perfino stato il primo dei sovrani germanici a battere una moneta d’oro con la sua effige, un affronto per Costantinopoli. Il solidus era infatti da sempre riservato alle zecche imperiali e in tutto il mediterraneo continuavano a circolare esclusivamente monete d’oro con l’effige degli imperatori, a sottolineare in modo visibile come i sovrani germanici dell’occidente non fossero sullo stesso piano degli imperatori. Questa azione da sola dimostra la sconfinata ambizione di Theodebert.

Nel 539, Theodebert decise che la situazione in Italia era oramai ideale per una conquista. Sia i Goti che gli imperiali erano esausti, mentre i Franchi erano rimasti fuori dalla guerra, ottenendo in cambio la tanto agognata Provenza, la più ricca delle antiche province galliche. Theodebert si mise a capo di un forte esercito e passò le Alpi. Procopio sostiene che era composto da 100.000 uomini, un dato del tutto irrealistico, ma è probabile che si trattasse davvero di una forza numericamente schiacciante per gli esausti combattenti in nord Italia, forse circa 30.000 armati. L’esercito dei Franchi, come a Vouillè nel 507, era composto in grandissima parte da fanti pesantemente armati, mentre i Franchi tenevano solo piccoli reparti di cavalleria come guardia personale del Re.
Inizialmente i Goti pensarono che Theodebert fosse venuto in Italia per combattere al loro fianco e il Re dell’Austrasia fece di tutto per confermare questa sensazione, dichiarando di essere giunto in Italia per cacciar via gli imperiali. Il Re dei Franchi svelò il suo piano solo dopo che i Goti fecero passare il suo esercito sul ponte di Pavia, al che i Franchi assalirono i Goti che li avevano lasciati passare. Molti Goti furono massacrati, i sopravvissuti fecero appena in tempo a chiudere in faccia al Re dei Franchi le porte di Pavia. Theodebert a questo punto passò all’attacco dell’accampamento di Uraias, che era passato sulla sponda sud del Po: ne seguì una breve battaglia tra Franchi e l’esercito gotico di Liguria, che fu sconfitto e messo in fuga.
Nelle vicinanze era accampato anche l’esercito imperiale di Martino e Giovanni, sempre impegnati a seguire le tracce di Uraias: gli imperiali furono allarmati dalla confusione nel campo dei nemici e accorsero armi in pugno, pensando che Belisario avesse lanciato un attacco a sorpresa sui Goti: furono stupiti di vedere i Franchi. Theodebert diede l’ordine di attaccare anche gli imperiali, che furono a loro volta stritolati dallo schiacciasassi franco.
Theodebert aveva appena cambiato tutti i calcoli della guerra in Italia: aveva ai suoi ordini di gran lunga l’esercito più numeroso ed era riuscito a sconfiggere sia i Goti che i Romani. In quelle condizioni Theodebert non aveva ostacoli nella sua missione in nord Italia. I Franchi giunsero fino a Genova, che fu messa a ferro e fuoco, salvo poi tornare in pianura padana. Per sopravvivere i Franchi avevano però bisogno di rifornimenti e viveri: l’esercito di Theodebert saccheggiò quello che poté ma la terra era già stata dilapidata dai due altri eserciti accampati in nord Italia, senza contare che l’intera regione era ancora afflitta dalla peggiore carestia in secoli: non dubito che i Franchi rubarono comunque ai poveri contadini italiani tutto quel poco che gli era rimasto per sopravvivere, aggravando il disastro alimentare in corso. In breve tempo però anche i Franchi patirono la fame, poi le malattie arrivarono a bloccare la loro avanzata. Theodebert fu costretto a passare il grosso dell’estate bloccato nella pianura padana, mentre i suoi uomini cadevano come mosche.
Belisario era comunque estremamente nervoso, sapendo benissimo che i Franchi erano una variabile impazzita nel complicato scacchiere italiano: inviò messaggi minacciosi per convincere il Re dell’Austrasia a ritirarsi, mentre Witigis rimaneva paralizzato a Ravenna, per paura di avere il suo esercito annichilito dai Franchi.
Sia Goti che Romani non avevano però molto di cui preoccuparsi: a causa delle malattie, Theodebert perse quell’estate circa un terzo del suo esercito: soppesando le sue alternative, nell’autunno del 539 il Re Franco decise di tornarsene a nord delle Alpi, carico del bottino e delle ricchezze della Liguria romana. La valle del Po poté quindi tornare a respirare, essendo devastata non da tre, ma solo da solo due eserciti in guerra tra loro.
L’assedio di Osimo: Belisario rimuove le torri dalla scacchiera

Mentre Theodebert scorrazzava in nord Italia, Belisario aveva stretto il suo nodo scorsoio su Osimo, la principale città delle moderne Marche, ai tempi. Osimo era in una posizione molto forte, su un alto colle ben difeso da solide mura. La guarnigione della città aveva provato a rompere l’assedio, ma era stata respinta dagli imperiali. Belisario non aveva provato a prendere la città con la forza, Osimo era troppo ben difesa, ma si era accinto a bloccarla per prenderla per fame. Quando le vettovaglie in città iniziarono a scarseggiare, i Goti cercarono più volte di sollecitare un aiuto da Witigis, con appelli via via più disperati. I messaggi furono trasportati a Ravenna da un soldato imperiale che si era fatto corrompere dai Goti. Witigis aveva replicato agli appelli della guarnigione di Osimo, dicendo che non poteva lasciare Ravenna con il suo esercito fintantoché il Re dei Franchi era in Italia. A dire il vero, il Re dei Goti e degli italiani non si mosse dalla sua laguna anche quando Theodebert tornò sui suoi passi: il problema per i Goti era la carestia, che impediva di accumulare rifornimenti sufficienti ad operazioni militari, mentre gli imperiali, forti del loro dominio sul mare, riuscivano ancora a rifornirsi portando grano dalla Sicilia.

Alla fine il soldato imperiale traditore fu scovato, perché Belisario si era insospettito nel notare la determinazione dei Goti a resistere. Il traditore fu sepolto vivo dai suoi commilitoni, in vista della guarnigione gotica.
Belisario allora decise di provare a minare la principale fonte d’acqua potabile di Osimo, la Fonte Magna, una struttura che esiste ancora oggi e che sembra un luogo incantato nei boschi. Ecco come la descrive Procopio: “c’era ad Osimo una sorgente, posta in una zona accidentata a nord della città, distante appena un tiro di pietra dalle mura, la quale scaricava le sue scarse acque in una piccola cisterna, collocata lì fin dai tempi antichi. Quando la cisterna era riempita da quel lento defluire, per gli abitanti di Osimo non era difficile attingervi acqua”. Belisario inviò cinque isaurici a nuotare nella cisterna e cercare di danneggiarla in modo irreparabile, mentre con i suoi lanciava un attacco diversivo alle mura. Il problema per i guastatori imperiali fu che gli antichi romani costruivano troppo bene i loro edifici: non gli riuscì in alcun modo di danneggiare la cisterna. Nel frattempo Goti e imperiali combatterono una dura battaglia attorno alle mura della città: i Goti fecero una sortita in forze quando si accorsero che gli imperiali cercavano di distruggere la loro fonte dell’acqua. Alla fine la battaglia si risolse in perdite per entrambi e in un nulla di fatto: i guastatori non riuscirono a distruggere la cisterna.

Alla fine fu la guerra psicologica a sconfiggere i Goti di Osimo: la guarnigione di Fiesole si arrese prima di loro, per fame. I connazionali furono portati ad Osimo e fatti sfilare di fronte alla città, dimostrando che la resistenza era futile, L’Impero aveva oramai vinto. I termini concordati per la resa furono che i Goti avrebbero dovuto cedere metà delle loro ricchezze ai soldati imperiali e si sarebbero dovuti arruolare nell’esercito romano. Dopo la resa, i soldati della guarnigione di Osimo furono distribuiti tra le varie unità dell’esercito imperiale, rompendone l’unità. Belisario aveva trionfato, ora non restava che prendere Ravenna.
I Balcani in fiamme
Per Giustiniano il 539 fu però un anno di paura, che mise a nudo il rischio che correva a causa dello sbilanciamento verso occidente di tutte le sue forze militari. Radiofrontiera informò i nuovi abitanti della steppa ucraina, che nel sesto secolo erano i Kutriguri e gli Utiguri, due popoli di probabile origine turca e che avevano assorbito quello che rimaneva degli Unni della steppa. I Kutriguri in particolare compresero che i Romani avevano indebolito le loro difese danubiane per combattere le guerre in occidente: diverse unità d’élite dell’esercito di Tracia erano state infatti trasferite in Africa e in Italia e altre combattevano contro i Goti in Dalmazia.
I Kutriguri non se lo fecero ripetere una seconda volta: invasero i Balcani. Nelle parole di Procopio: “Un’immensa orda di Unni attraversò il fiume Danubio e dilagò per tutta l’Europa. Il fatto si era verificato parecchie altre volte, ma non aveva mai procurato così gravi e numerosi flagelli”. Gli Unni giunsero fino alle porte della capitale, attraversando perfino il Bosforo nella prima scorreria in Asia minore da secoli a questa parte. Un gruppo di saccheggiatori penetrò in Grecia, venendo fermato solo alle Termopili. gli Unni tornarono nelle loro case carichi di bottino e schiavi, senza che gli eserciti imperiali potessero fare alcunché per difendere i traumatizzati cittadini romani dei Balcani. Come abbiamo visto in questo podcast più volte, la penisola balcanica era la regione dell’impero che da sempre più soffriva le invasioni d’oltrefrontiera. Eppure dai tempi della caduta di Attila le cose andavano meglio, anche se le città erano rimaste fortificate e assai più piccole di un tempo. Temo che per i Romani dei Balcani i travagli siano solamente all’inizio.
In contemporanea anche la frontiera con la Persia si fece sempre più calda, mentre diventava progressivamente chiaro che Khosrau avrebbe presto rotta la cosiddetta pace eterna. Giustiniano aveva già inviato degli ambasciatori a Ravenna, come detto in precedenza, ma ora decise che era assolutamente prioritario terminare la guerra in Italia, costi quel che costi. Occorreva rinforzare le difese danubiane e trasferire il suo migliore generale in oriente, per affrontare il nemico persiano.
Scacco alla regina: l’esercito gotico di Liguria si arrende
Belisario era ancora ignaro di tutto questo: dopo aver preso Osimo, il generalissimo portò il suo esercito nei pressi di Ravenna, per iniziare l’assedio che con un po’ di fortuna avrebbe posto fine alla guerra. Inviò dei soldati a bloccare gli accessi a Ravenna da nord e una flotta per impedire rifornimenti via mare, per quanto possibile con una città che ricavava gran parte del suo cibo direttamente dalla laguna. Il suo esercito si accampò invece nei malsani acquitrini della Romagna, in attesa.
In città l’atmosfera era plumbea, da fine di un regno. L’assedio era iniziato da poco quando ci fu uno spettacolare atto di sabotaggio: prese fuoco il grande granaio che custodiva quanto radunato dal Re in preparazione dell’assedio. L’incendio consumò tutte le provviste. Procopio suggerisce che Belisario utilizzò alcuni cittadini locali, profumatamente pagati, o che forse l’ordine arrivò da Matasunta, la figlia di Amalasunta, sempre determinata a liberarsi di Witigis. Io penso che Matasunta e Belisario lavorassero in coordinamento tra loro.
Nel frattempo, ad inizio 540, i comandanti delle forze gotiche a guardia delle Alpi occidentali decisero di arrendersi agli imperiali, giudicando persa la loro causa. Belisario inviò nel futuro Piemonte un piccolo esercito, con il compito di accettare la resa dei soldati Goti, per incorporare anche loro nell’esercito imperiale. L’esercito di Martino e Giovanni il sanguinario ne approfittarono per dare la caccia ai familiari dei Goti di Uraias sparsi nella regione, schiavizzando donne e bambini.
Witigis aveva chiesto ad Uraias di portare i suoi uomini in soccorso di Ravenna e il generale Goto era riuscito ad eludere le guardie sul fiume Po e attraversarlo: era a non molti giorni di distanza da Ravenna quando gli giunse la notizia della resa delle guarnigioni alpine e del disastro che aveva colpito i Goti nel nordovest della penisola. I suoi uomini furono colpiti soprattutto dalla notizia che i loro familiari in Piemonte venivano cacciati e catturati come delle bestie selvatiche. Uraias doveva assicurarsi la loro sicurezza se voleva che i suoi uomini continuassero a combattere. Fu costretto a fare dietrofront, dirigendosi verso le Alpi.
Giunti nel futuro Piemonte, Uraias bloccò e mise sotto assedio il piccolo esercito imperiale assieme ai Goti che si erano uniti a loro, mettendoli sotto assedio, forse a Susa. A Tortona era però sempre presente l’esercito di Martino e Giovanni il sanguinario: quando seppero delle operazioni di Uraias, i generali imperiali portarono sul posto i loro uomini, incastrando Uraias tra l’incudine e il martello. Quel che è peggio, i soldati di Uraias videro che i loro familiari erano prigionieri degli imperiali. La situazione disperata convinse alla resa la maggior parte dei soldati dell’esercito gotico di Liguria. Uraias vide il suo esercito dissolversi nel vento e, con un pugno di uomini, fuggì verso Milano. Davvero tutto sembrava perduto per i Goti.
Scacco al Re
Belisario sentiva di aver vinto la guerra: restava solo una città da prendere, e i Goti erano disperati. Certo, la città in questione era l’imprendibile Ravenna, caduta a Teodorico dopo tre lunghi e terribili anni di assedio, e solo con l’inganno. Ma Belisario era un maestro della guerra psicologica, e considerò che in pochi mesi ancora Witigis avrebbe gettato la spugna. Allora tutta l’Italia sarebbe stata pacificata e reincorporata nell’Impero, mentre Belisario avrebbe aggiunto un altro grande trionfo a quello che aveva già celebrato dopo la conquista dell’Africa.
Fu proprio in questo frangente che arrivarono nell’accampamento di Belisario i messaggeri con le proposte di Nuova Roma: Giustiniano offriva ai Goti tutta l’Italia a nord del Po in cambio della pace: era un buon accordo per Witigis, vista la situazione, e anche un buon accordo per l’Impero, che avrebbe occupato tre quarti dell’Italia e posto termine alla guerra. Belisario comprese immediatamente che i Goti avrebbero accettato.

Il problema era che non era un buon accordo per Belisario: un accordo di pace avrebbe diminuito la sua gloria, senza contare che il generale pensò probabilmente che l’Imperatore avrebbe offerto termini assai meno generosi se fosse stato al corrente della piega che avevano preso gli eventi nelle ultime settimane, con la sconfitta di Uraias e la resa di Osimo. Riferisce Procopio: “Belisario montò su tutte le furie perché non gli si lasciava concludere la guerra in modo completo, conducendo Witigis come prigioniero a Costantinopoli”. Per impedire ogni accordo di pace, Belisario impedì agli ambasciatori di recarsi a Ravenna e offrire i loro termini a Witigis. Questa azione non fu senza critiche, diversi nello stato maggiore non erano d’accordo e sicuramente fecero sapere gli avvenimenti, a tempo debito, a Giustiniano: un imperatore che guardava con estremo sospetto ogni atto di disubbidienza, anche se motivato.
I Goti erano però davvero alle ultime corde: degli ambasciatori di Theodebert avevano riproposto un’alleanza franco-gotica, proponendo la sostanziale sottomissione dei Goti ai Franchi in cambio del suo aiuto. Oramai però Witigis ne aveva avuto abbastanza di Theodebert: meglio essere schiavi dei Romani che dei Franchi. Alla fine i nobili tra i Goti decisero di riunirsi in concilio, escludendo il loro Re: quello di cui dovevano parlare richiedeva infatti di andare sopra la testa di Witigis. I Goti di Ravenna giunsero alla conclusione che era arrivato il tempo di fare a Belisario un’offerta straordinaria, qualcosa che in occidente nessuno sentiva da decenni.
Dei messaggeri dei nobili tra i Goti giunsero a Belisario, provenienti da Ravenna. L’offerta fu declinata più o meno con questi termini: “Eccellentissimo Belisario, il tuo esercito ha vinto la forza delle nostre armate, ma questa terra non può essere dominata da un distante imperatore a Costantinopoli. I tuoi uomini sono valenti, ma hai bisogno dei nostri soldati per mantenere la sicurezza della penisola, come dimostrato dall’ultima invasione dei Franchi: quei barbari hanno assaggiato il sapore dell’Italia e certamente torneranno. Tu ti sei dimostrato uomo onorevole e degno di essere seguito, degno perfino di essere il nostro sovrano. Ti cediamo spontaneamente Ravenna e il palazzo che fu di Onorio e degli imperatori dell’occidente, ad una sola condizione che altro non è che un onore nei tuoi confronti. Ti offriamo di riconoscerti come nostro imperatore. È giunta l’ora per i Romani dell’occidente di riavere il loro impero: assieme, le nostre forze e il tuo esercito porranno le basi militari del nuovo impero. Siamo convinti che il Senato a Roma concorderà con noi e accetterà di elevarti al trono. Sarà un onore servirti come il nuovo sovrano dell’Italia e dell’occidente”.
Chissà se Belisario soppesò anche per un istante l’offerta, chissà se ne fu lusingato. Flavius Belisarius Semper Augustus, sembrava dire un’immaginaria moneta d’oro, da coniare subito dopo la sua ascesa al trono. Se per qualche istante Belisario sognò la porpora, il suo senso pratico lo riportò presto a terra: conosceva il suo imperatore e sapeva che non ci sarebbe mai stato spazio, nel mondo di Giustiniano, per due imperatori romani. Sapeva che Giustiniano avrebbe distrutto Roma e Ravenna, pur di non rivedere un sovrano sul trono dell’occidente. Come Sauron con Aragorn.
Eppure questa offerta imprevista permise a Belisario di raggiungere il suo vero obiettivo, senza colpo ferire: Belisario disse ai Goti che accettava e gli chiese di far entrare il suo esercito a Ravenna. Giurò di accettare da loro la corona e i Goti gli credettero: d’altronde, come poteva un ambizioso romano rifiutare un onore così grande?
Il tradimento di Belisario

E fu così che, nel maggio del 540, Belisario e il suo esercito entrarono in pompa magna a Ravenna, mentre una flotta portava rifornimenti di grano ai suoi esausti cittadini: l’Impero era tornato nell’ultima capitale dell’Occidente e ci rimarrà per due secoli. Procopio ci lascia questo commento nel giudicare quest’evento straordinario: “I Goti erano molto superiori di numero e mezzi ai Romani, né erano stati sconfitti in battaglia ma ora stavano per essere resi schiavi da uomini meno numerosi di loro, né consideravano la loro schiavitù un’umiliazione”. Procopio credo che non comprese del tutto: i Goti davvero si fidarono dei Romani, ed erano pronti ad acclamare Belisario come loro Re e Imperatore dell’Occidente.
Quel giorno l’Impero di Giustiniano raggiunse il sua apice: nonostante gli imprevisti, un decennio di guerre aveva portato l’Impero a riconquistare Cartagine, Roma e Ravenna. Le città in oriente splendevano di ricchezze, le chiese si elevavano sempre più in alto nel cielo, il sole splendeva su un impero trionfante, apparentemente destinato a nuovi, grandi capitoli della sua storia. Certo, la carestia era stata dura e gli Unni avevano fatto dei danni, ma si chiudeva un decennio straordinario, i ruggenti anni 30’. Nulla poteva anticipare a Giustiniano, ai suoi generali, ai senatori e al popolino che il seguente decennio sarebbe stato diverso, molto diverso. Nessuno poteva sapere che un nemico più forte di ogni Goto, di ogni persiano e di ogni Unno era alle porte.
Una volta installatosi nel palazzo che era stato di Onorio e Teodorico, per prima cosa Belisario fece catturare Witigis e metterlo sotto sorveglianza, pur ordinando di trattarlo con i dovuti onori: Witigis comunque si era già rassegnato al suo fato e non si era neanche opposto al tentativo di salvare il salvabile che i suoi nobili avevano preso in sua assenza, forse stimando la pace più importante del suo destino personale. Anzi, aveva fatto suggerito segretamente a Belisario di accettare il titolo di Imperatore, facendogli sapere che lui non sarebbe stato d’impiccio.
Belisario prese immediatamente possesso del tesoro del Regno d’Italia, poi disse ai Goti che potevano tornarsene tranquillamente alle loro case, la guerra era finita. Diede ordine ai suoi soldati di rispettare in modo assoluto le proprietà dei Goti, secondo gli accordi di pace. Poi inviò suoi uomini nelle Venezie, per far arrendere quegli ultimi presidi dei Goti: si arrese anche Cesena, l’ultima città della Romagna che resisteva agli imperiali.
Mentre gli imperiali erano così indaffarati, Goti ed italiani attesero che Belisario desse indicazioni per la cerimonia dell’acclamazione: cosa aspettava? Con orrore si accorsero che il generale si preparava a fare i bagagli per il suo ritorno a Costantinopoli. l’Imperatore lo aveva richiamato per combattere la futura guerra in Persia, certamente anche testando la sua fedeltà: Giustiniano non era del tutto certo che il suo accordo con i Goti non avesse davvero l’obiettivo di elevarlo al trono dell’occidente e anche solo la menzione di “imperatore romano d’occidente” aveva causato a Giustiniano uno dei suoi ricorrenti attacchi di paranoia.
Quando compresero che Belisario era in partenza, i Goti dapprima rimasero increduli: davvero Belisario rifiutava la corona offertagli? Quando compresero di essere stati traditi era troppo tardi: Belisario aveva suoi uomini in ogni caposaldo di Ravenna e dei dintorni.
Si chiude un capitolo della guerra
I Goti che vivevano a nord del Po non erano però ancora del tutto assoggettati ai Romani e decisero di radunarsi a Pavia, per decidere il da farsi. Erano pochi e miserevoli, molti dei loro erano oramai prigionieri di quelli che loro chiamavano Greci. Non erano riusciti a battere gli imperiali al sommo della potenza del regno d’Italia, come pensavano di farlo adesso? Dopo lunghe deliberazioni dell’assemblea dei nobili, questi decisero di offrire la corona a Uraias, ma questi rifiutò, dicendo che la casa dello screditato Witigis non aveva alcun diritto al trono. Uraias invece suggerì che il nobile Ildibad era più adeguato al ruolo: Ildibad era il comandante di Verona, una delle ultime città in mano ai Goti assieme a Pavia. Suo zio era Theudis, il Re dei Visigoti in Spagna. Forse se avessero elevato lui, Theudis avrebbe inviato degli aiuti in Italia e gli Ostrogoti avrebbero avuto qualche possibilità di successo in una guerra che pareva comunque disperata.
I Goti però decisero di non muovere subito guerra: da Pavia inviarono messaggeri a Belisario, prima che partisse: gli ricordarono i patti sottoscritti e gli impegni presi, chiedendogli se non si vergognava a preferire di essere schiavo di un sovrano lontano piuttosto che imperatore in Italia. Ildibad offrì di cedere immediatamente la corona, con la sola condizione che Belisario restasse in Italia e rispettasse i termini del loro accordo. Ancora adesso erano pronti a chinarsi di fronte a lui, a farne l’Imperatore dei Romani e il Re dei Goti.
Ma nulla poteva smuovere Belisario, forse fu la sua fedeltà a Giustiniano, forse fu la paura della sua collera. Sta di fatto che, una volta sistemate al meglio le cose in Italia, verso dicembre del 540 Belisario salì su una nave alla volta di Costantinopoli. Dietro lasciò gli eserciti imperiali vittoriosi, ma con ancora un lavoro non del tutto completato. Poco male, pensò: oramai restava solo da rastrellare gli sconfitti, mettere qualche presidio nelle ultime città a nord del Po non ancora pacificate e catturare quel pugno di ribelli che si nascondeva a Pavia. La guerra in Italia era vinta, ora lo aspettava un’altra guerra contro il vero nemico, i Persiani.
Ma la guerra non era vinta: Belisario aveva confuso uno scacco al Re con uno scacco matto. L’abbandono e il tradimento di Belisario soffiarono sulle braci del risentimento gotico. Avevano solo bisogno di riorganizzarsi, e di avere un vero leader. Questi non sarà Ildibad, ma tra i Goti che lo avevano elevato al trono c’era un certo capo della guarnigione gotica di Treviso. Il suo nome di nascita era Baduila, ma era conosciuto da tutti con un soprannome, dovuto al suo coraggio straordinario: i suoi amici lo chiamavano infatti “l’immortale”. Totila, nella lingua dei Goti.
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