Episodio 65: il trionfo di Belisario – testo completo

Nello scorso episodio l’intera città di Costantinopoli è esplosa come un vulcano, portando lo stesso livello di distruzione di un’eruzione pliniana nel centro della più grande città del mediterraneo.

Solo un massacro di proporzioni mai viste ha posto fine alla rivoluzione di Nika: abbiamo lasciato la città in uno stato di stupore e orrore attonito. Giustiniano e Teodora, alla fine, hanno trionfato sul loro popolo, ma il prezzo pagato è stato carissimo.

Nel film “sesso e potere”, con il titolo ben più evocativo in inglese di wag the dog, il presidente degli Stati Uniti è sorpreso con una minorenne a due settimane dalle elezioni. Il suggerimento del suo spin doctor è semplice: dichiarare una guerra ad un nemico esterno è l’unico modo per vincere le elezioni, il bersaglio diviene la piccola Albania. Il presidente è rieletto, ovviamente.

Come nel film, in questo episodio Giustiniano troverà l’obiettivo perfetto per ricostruire la sua legittimità a governare, restaurando il rapporto compromesso con il popolo e le élite della capitale: niente unifica l’opinione pubblica come una guerra con un nemico esterno, oggi come allora, e niente nel mondo romano ricostruisce la legittimità a governare come una vittoria militare. E quindi guerra sarà.

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Ad Decimum

Prima fase della battaglia di Ad Decimum

Per comprendere la complicata battaglia di Ad Decimum dobbiamo descrivere il luogo dove si svolse.

Ad Decimum era una relativamente stretta vallata verso la quale convergevano due strade provenienti da sud, una costiera che stava utilizzando Belisario e una più interna, da cui sarebbe arrivato Gelimer. Le due vie si congiungevano prima della gola, una posizione altamente difendibile, dopo la quale la strada portava facilmente a Cartagine, distante appunto appena 15 km. All’ingresso della gola c’era una vasta pianura, a destra costeggiata dal mare e a sinistra da alcune alture che dominavano la pianura. Più in là, verso l’interno, c’era una vasta salina, ora prosciugata.

Belisario diede ordine di marciare per l’intera distanza che li separava da Ad Decimum utilizzando uno schermo di cavalieri veloci: in testa c’erano 300 dei suoi migliori bucellarii, al comando di Giovanni, un capace generale armeno. Il loro compito era di precedere l’esercito di circa 3 km, in modo da evitare che Belisario fosse sorpreso e dovesse combattere una battaglia improvvisa. Al contingente di 600 Unni fu affidato un compito simile, ma in questo caso di essere a guardia del fianco sinistro, pattugliando tutto il territorio intorno. La destra era difesa dal mare.

Gelimer seguì i movimenti degli imperiali: temendo che questi sfuggissero alla sua trappola, inviò duemila dei suoi cavalieri verso la salina, ad occidente di Ad Decimum. Il loro compito era evitare che i Romani aggirassero la trappola di fronte a loro: all’inizio della battaglia avrebbero poi attaccato i Romani da ovest, mentre Ammatus li attaccava da nord e Gelimer da sud. La trappola sarebbe stata così completa.

Belisario, una volta giunto a poca distanza da Ad Decimum, fece costruire un accampamento fortificato per l’esercito, qui lasciò la fanteria e sua moglie Antonia. Belisario prese il comando dei restanti cavalieri, poco più di quattromila, per controllare la situazione più avanti. Da queste mosse è chiaro che non aveva alcuna intenzione quel giorno di affrontare una battaglia. Invece marciò con i suoi quattromila cavalieri verso la trappola di Gelimer, supportato dai 300 bucellari di Giovanni di fronte a lui e i 600 Unni che cavalcavano a qualche km verso l’interno. È impossibile sapere i numeri esatti dei nemici, ma, secondo i migliori calcoli degli storici, Ammatus a Cartagine doveva avere al suo comando almeno 8.000 uomini, mentre Gelimer ne doveva avere circa 10.000 con sé e altri 2.000 erano stati inviati a ovest della gola, per un totale di circa 20.000 uomini, ricordo tutti cavalieri. Sembra una battaglia che Belisario non può vincere, circondato come è e per giunta in schiacciante inferiorità numerica.

A riguardo vale ancora la pena di citare Procopio “durante questa azione io mi sono trovato a meditare quanto sia grande la saggezza divina e quali siano invece i limiti umani. Comunque si comportino essi non fanno altro che seguire la via segnata dal destino, la quale conduce inevitabilmente a ciò ch’era prestabilito da Dio. Se, per esempio, Belisario non avesse disposto lo schieramento in quel modo, se Giovanni non fosse stato ordinato di procedere davanti e agli Unni di marciare a sinistra non saremmo mai riusciti a sfuggire ai Vandali”.

Termopili

Belisario alla battaglia di Ad Decimum

Giovanni e i suoi 300, degni eredi di Leonida, come vedremo, giunsero per primi all’ingresso della gola: qui trovarono il nemico. Ma non Ammatus con tutti le sue migliaia di uomini, ma solo un pugno di Vandali. Cosa era successo?

Ammatus, dopo aver dato ai suoi l’ordine di partire da Cartagine e raggiungere Ad Decimum, era andato avanti per controllare il luogo dell’agguato, come si confà ad un buon e accorto generale. Arrivò nella gola verso mezzogiorno, circondato solo dalla sua guardia del corpo, qualche decina di combattenti. Qui all’improvviso arrivarono Giovanni e i suoi bravi 300 che, ignari di chi si trattasse, caricarono immediatamente i Vandali e in poco tempo li trucidarono. Nel combattimento morì Ammatus e i pochi sopravvissuti corsero via, per avvertire chi arrivava verso la gola che l’intero esercito romano era alle loro calcagna, migliaia, no che dico? Decine di migliaia di uomini!

La colonna dei cavalieri vandali non era una vera colonna organizzata: i Vandali stavano venendo verso Ad Decimum in modo disordinato, a gruppetti e non ancora pronti per la battaglia. I trecento, alla rincorsa dei fuggitivi, iniziarono ad imbattersi nel resto dell’esercito e caricarono uno ad uno i reparti che incontravano, mentre il caos si diffondeva ovunque. Agli occhi dei Vandali un’azione tanto temeraria non poteva che essere l’avanguardia dell’intero esercito romano: i germani fuggirono verso Cartagine, chi rimase fu in gran parte trucidato dai feroci bucellarii che riuscirono a cavalcare fino alle porte di Cartagine, tanto che Procopio riferisce che quando, tempo dopo, percorse l’intera strada da Ad Decimum a Cartagine, questa era ricoperta di cadaveri. Chissà se qualcuno chiese mai ai trecento quale fosse il loro mestiere: la risposta sarebbe stata certamente “Auh, Auh Auh[1]”.

La seconda fase

Ma la battaglia non era vinta: non era ancora iniziata. Il fatto che una delle tre forze convergenti su Ad Decimum fosse stata respinta non metteva al sicuro Belisario. O no? Perché quasi in contemporanea gli Unni si imbatterono nei duemila cavalieri che Gelimer aveva inviato verso la piana salata a occidente di Ad Decimum: gli Unni erano solamente 600 ma Procopio riferisce che il comandante vandalo esitò prima di attaccare questa forza numericamente inferiore, di un popolo che non aveva mai visto prima: erano forse questi gli Unni che avevano terrorizzato il mondo?

Seconda fase della battaglia

Lo erano. Ed erano ancora l’equivalente tardoantico dei Borg. I Vandali non avevano mai avuto a che fare con loro da quanto avevano attraversato il Reno gelato, più di un secolo fa. Frecce iniziarono a piovere da ogni direzione, mentre gli Unni attaccarono caricando le forze numericamente superiori dei Vandali, inermi a cavallo con le loro lance e spade, del tutto inutili contro gli archi dei nemici. Tennero duro, aspettando l’impatto con i nemici, ma poco prima dello scontro diretto, gli Unni voltarono i cavalli, iniziando a girare attorno al nemico, tempestandolo di frecce anche con il cavallo volto nella direzione avversa. Gli uomini caddero, i cavalli caddero. Nel giro di poco tempo, sulla piana salata c’erano duemila vandali, morti o morenti. Chi provò a fuggire fu raggiunto da una freccia dei nomadi. I Vandali avevano appena scoperto l’orrore che aveva terrorizzato i Romani per decenni.

Nel frattempo Belisario viaggiava verso Ad Decimum: mandò avanti i cavalieri dei foederati Eruli, che giunsero sul luogo dove si era combattuta la prima battaglia tra i trecento e i Vandali. Gli Eruli non sapevano cosa fare: cosa era davvero accaduto qui? Solomone, l’ufficiale romano al loro comando, decise di dirigersi verso un’altura a sinistra, per meglio osservare il campo di battaglia; ma, una volta giunti sulla sommità, videro la polvere alzata dal grande esercito di Gelimer che marciava verso la loro direzione. Quando Gelimer vide alcuni reparti nemici sull’altura, diede il segnale di attacco. 10.000 Vandali erano un numero troppo grande per i 400 Eruli, che furono respinti e sloggiati dall’altura. Le forze di Solomone si ritirarono e si recarono immediatamente ad avvertire Belisario di quello che era accaduto, sia dell’apparente battaglia che avevano combattuto i trecento, sia della loro. Nel farlo però scatenarono il panico tra altri reparti che stavano sopraggiungendo, fino a che l’intera faccenda iniziò a trasformarsi nell’inizio di una rotta. Belisario però arrivò immediatamente a ristabilire l’ordine e a raccogliere le confuse notizie che aveva a disposizione.

Belisario è spesso giudicato dagli storici un comandante molto prudente, se possibile anche troppo. Eppure la sua reazione alla notizia che di fronte si trovava l’esercito del Re dei Vandali non fu quella di tornare indietro, raccogliere la fanteria e tornare in forze sul posto. Belisario deve aver correttamente stimato che le cose non erano andate secondo il piano dei Vandali, le forze di Cartagine avevano avuto dei problemi. Inoltre una ritirata avrebbe mandato in confusione il suo esercito. Decise che c’era una sola cosa da fare: attaccare. Il segnale fu dato a tutti i reparti di cavalleria, appena un meros di 4.000 uomini in tutto: avrebbero dovuto attaccare l’esercito del Re.

Questi, dopo aver respinto Solomone e i suoi Eruli, giunse sul luogo dove era perito Ammatus, un fratello che gli era evidentemente caro. Dice Procopio “Io non so dire cosa accadde a Gelimer, il quale aveva la vittoria in tasca, a meno che non si debbano anche attribuire a Dio le nostre azioni sconsiderate, nel senso che Egli, quando vuole che ad un uomo capiti qualche avversità, per prima cosa sconvolge la sua ragione. Infatti se Gelimer avesse proseguito l’inseguimento non credo che Belisario avrebbe potuto resistergli e se fosse andato verso Cartagine avrebbe ucciso gli uomini di Giovanni e avrebbe salvato la sua città e i suoi tesori. Invece quando scorse il cadavere del fratello ruppe in pianti e decise di adoperarsi per dargli sepoltura”.

Credo che al di là della tristezza del Re per la perdita di un fratello, l’esitazione di Gelimer si spiega anche con la nebbia della guerra che ricopre di interrogativi i fatti e i movimenti degli avversari. Gelimer non sapeva cosa fosse accaduto al fratello, né la situazione a Cartagine. Aveva appena sconfitto quello che sembrava l’avanguardia romana, deve aver dato per scontato che altri attacchi non sarebbero arrivati fino ad almeno il giorno seguente. Nel frattempo poteva usare le ultime ore del giorno per raccogliere informazioni a Cartagine, comprendere cosa era successo al fratello e decidere il da farsi. Comunque sia, un comandante accorto avrebbe tenuto i suoi in assetto da battaglia, ma non pare essere stato questo il caso di Gelimer: I suoi uomini si sparpagliarono nella pianura all’ingresso della gola di Ad Decimum, ignari del pericolo che ancora correvano.

Il trionfo di Belisario

Terza fase della battaglia di Ad Decimum

E fu a questo punto che il fato colpì, sul calare della sera di quell’incredibile giornata: all’improvviso arrivarono gli uomini di Belisario. Frecce volarono a trafiggere al suolo uomini e cavalli, la cavalleria pesante romana caricò i pochi reparti abbastanza organizzati per difendersi. In poco tempo l’intero esercito dei Vandali era in fuga con il loro Re, la cui volontà di combattere pare essere morta con il fratello: non si diressero verso Cartagine, che diedero per persa, ma in direzione della Numidia, verso Ovest. All’imbrunire tornarono gli Unni e i trecento di Giovanni, raccontando a Belisario quello che era accaduto. Belisario aveva vinto una splendida vittoria, un po’ grazie al caso, un po’ grazie alla superiorità militare della sua cavalleria armata dei micidiali archi unnici, ancor di più forse per la capacità di saper leggere una battaglia talmente complessa che è difficile perfino da raccontare, capacità che Gelimer invece non ebbe. Sia quel che sia, per Belisario la via per Cartagine era aperta.

Il giorno dopo la fanteria raggiunse il luogo di battaglia. Assieme i Romani marciarono verso Cartagine e vi giunsero in serata: i Vandali avevano evacuato la città, le porte erano aperte. Dentro la città era illuminata dai fuochi accesi dalla popolazione romano-africana locale. Le catene a difesa del porto furono abbassate e la flotta romana, spinta da un buon vento, riuscì ad entrare nel porto, contravvenendo agli ordini di Belisario che per prudenza aveva loro chiesto di fermarsi lontano da Cartagine, in modo da evitare agguati da parte della flotta vandalica. Nulla sembrava però riuscire a rovinare la festa, l’imprudenza dei marinai romani non fu punita dalla flotta dei Vandali, che era ancora in Sardegna.

Belisario decise però di non rischiare l’ingresso di notte in città: sapeva che sarebbe stato molto difficile impedire ai suoi di saccheggiarla e non voleva assolutamente rovinare la buona nomea che l’esercito romano si era costruito durante la campagna.

Buona la terza

Il giorno dopo, il 15 settembre del 533, Belisario mise il suo intero esercito in assetto da parata e marciò con i suoi uomini attraverso le porte di Cartagine. La città fu occupata in modo del tutto pacifico: Procopio sottolinea quanto straordinario fu questo evento: “Quel giorno toccò a Belisario di meritarsi una fama quale non era toccata a nessuno, perché i Romani di solito fanno gran confusione quando conquistano una città, anche se sono soltanto cinquecento”. L’esercito imperiale invece sfilò nella metropoli africana e fu poi alloggiato dai furieri statali nelle case a tal fine predisposte. Gli uomini acquistarono sul mercato i rifornimenti. Belisario dichiarò l’incolumità di tutti i Vandali che erano rimasti in città, in particolare donne e bambini, e che si erano rifugiati nelle chiese. Poi, nelle parole di Procopio, che vibrano di quieta emozione: “siccome nessun nemico si fece avanti, andò nel palazzo reale e si sedette sul trono di Gelimer”. Dopo novantaquattro anni, e appena sei giorni dopo lo sbarco in Africa, la versione tardoantica del Blitzkrieg aveva riportato Cartagine nell’Impero romano. Ci resterà per quasi due secoli.

Belisario era però consapevole che non era sufficiente conquistare Cartagine per avere in mano tutta l’Africa. L’esercito nemico era ancora lì fuori e le mura di Cartagine, le uniche rimaste in piedi in Africa, erano comunque in stato penoso, con lunghi tratti di mura che erano crollati. Per prima cosa Belisario diede ordine di rifortificare la città, fornendo laute ricompense agli artieri e alle squadre di operai cittadini. In poco tempo questi scavarono un profondo fossato di fronte alle mura, seguito da uno steccato. Anche il tratto di mura crollato fu riparato. Allo stesso tempo giunse a Cartagine dalla Sardegna una nave dei Vandali: Tzazon informava Gelimer di aver vinto e di aver riconquistato l’isola ai Vandali, uccidendo i ribelli: il messaggero fu catturato, ma fu immediatamente chiaro a Belisario che i cinquemila soldati vandali inviati in Sardegna, probabilmente le loro migliori forze, sarebbero presto tornate in Africa.

In preparazione del prossimo round

Nel frattempo Gelimer inviò messaggeri a Theudis, re dei Visigoti, chiedendogli di stringere un’alleanza: per sua sfortuna, la notizia della caduta di Cartagine li precedette e Theudis si rifiutò ovviamente di stringere un’alleanza con dei perdenti. Gelimer provò anche ad offrire una ricompensa ai contadini romani per ogni testa di soldato imperiale che gli fosse stata prodotta: diverse teste arrivarono a Gelimer, ma si trattava in gran parte di schiavi e attendenti dei soldati, non dei soldati stessi. Per settimane la situazione rimase in stallo, mentre gli imperiali restavano al sicuro dietro la fortificazione di Cartagine e i Vandali non avevano la forza di attaccarli. Una forza che poteva rompere lo stallo erano i Mauri, gli abitanti berberi del Nordafrica che erano stati parzialmente romanizzati nei lunghi secoli di dominio romano. I capi tra i Berberi avevano l’abitudine di ricevere dall’Imperatore a Costantinopoli delle insegne e dei codicilli che ne confermavano il potere e lo status. Belisario distribuì alle tribù di Mauri le insegne che si attendevano e larghe somme d’oro: grazie alla sua iniziativa, i Mauri non si schierarono con i Vandali anche se rimasero in attesa di vedere chi tra Romani e Vandali avrebbe trionfato. Allo stesso tempo Gelimer provò a corrompere gli Unni che tanto forti si erano dimostrati nella battaglia di Ad Decimum: qualcosa avvenne, perché un romano-africano fu trovato con del denaro e fu fatto impalare da Belisario, come segnale che la sua tolleranza non si estendeva ai traditori.

Regno dei Vandali

Finalmente Tzazon tornò dalla Sardegna con i suoi cinquemila soldati che si unirono a Gelimer, in una scena che fu un misto di gioia per la riunione con i ritrovati commilitoni e di commiserazione per la disgrazia caduta sul loro regno. Narra Procopio: “Qui vi furono tra i Vandali numerose scene di dolore, tali da destare pietà, né io riuscirei a descriverle convenientemente. Credo che se fosse capitato come loro spettatore anche un nemico, probabilmente avrebbe provato egli stesso compassione per i Vandali e per l’umano destino. Gelimer e Tzazon si gettarono le braccia al collo e non riuscivano più a staccarsi, né erano capaci di proferir parla ma, stringendosi le mani, scoppiarono in lacrime. Nessuno fece cenno alle loro donne e ai loro figli: era evidente che ognuno degli assenti o era perito o era caduto nelle mani dei nemici”. Fu lì, nella piana di Boulla, che quello che restava della nazione dei Vandali si riunì per un ultimo, disperato tentativo di tenere il loro regno.

In altre condizioni un esercito che combatteva in casa avrebbe potuto provare a logorare l’invasore, sfruttando la conoscenza del terreno e l’appoggio della popolazione locale. I Vandali però, in questo frangente critico, raccolsero quello che avevano seminato: si erano sempre tenuti in disparte rispetto ai locali, professando la loro religione, accaparrandosi le terre migliori e formando l’élite politico-militare del regno, senza condividere in alcun modo il potere con i locali, come aveva invece fatto Teodorico in Italia. Quando i romano-africani videro il comportamento degli uomini di Belisario, smisero di sostenere, rifornire ed informare i Vandali, che si ritrovarono stranieri in quella che avevano sempre considerato come casa loro. Né i Vandali potevano condurre una guerra di logoramento senza la protezione di mura, che, come ricorderete, Genseric aveva fatto abbattere in tutte le città africane.

L’unica alternativa rimasta ai Vandali era forzare una battaglia campale: una vittoria avrebbe convinto qualche città romana a sostenerli, una vittoria schiacciante avrebbe ributtato gli imperiali a mare. L’esercito dei Vandali si accampò a Tricamerum, una località poco distante da Cartagine, verso l’interno. Da qui i Vandali tagliarono gli acquedotti di Cartagine e cercarono di bloccare per quanto possibile le attività romane, senza però saccheggiare o danneggiare i campi: quella era ancora la loro terra, il loro obiettivo era solo di tirare Belisario fuori da Cartagine, costringendolo ad una battaglia campale.  

Belisario avrebbe potuto restare dietro le protezioni di Cartagine che aveva così efficacemente riparato, l’ultima battaglia gli aveva svelato però un dato fondamentale: i Vandali sembravano soffrire in modo particolare i suoi arcieri a cavallo, contro i quali non avevano alcuna risposta tattica. Pertanto fece uscire la sua cavalleria e la mise agli ordini di Giovanni, l’eroe dei trecento di Ad Decimum. Lui stesso guidò la fanteria e 500 bucellarii a cavallo, più dietro.

Cavalleria romana del VI secolo

La battaglia di Tricamerum

Quando Giovanni arrivò a Tricamerum si trovò di fronte l’intero esercito dei Vandali, in perfetto assetto da battaglia. Poco male, nessun motivo di attendere la fanteria: Giovanni diede ordine ai suoi di schierarsi a loro volta in formazione: gli Unni scelsero questa giunzione decisiva per mettersi in disparte, rifiutandosi di combattere: evidentemente la propaganda di Gelimer aveva sortito qualche risultato, la battaglia tra i cinquemila cavalieri romani e gli almeno quindicimila cavalieri Vandali sembrava poi decisa in partenza: come potevano trionfare i Romani?

Poco prima che la battaglia avesse inizio, arrivò sul posto Belisario, che deve aver compreso che qualcosa si stava svolgendo davanti. Belisario aveva abbandonato la fanteria ed era arrivato con i suoi 500 bucellarii. Belisario fece appena a tempo ad unirsi alla lotta, ma lasciò che fosse Giovanni a dare gli ordini di battaglia. Giovanni diede il segnale e i suoi Koursoures, gli arcieri a cavallo, attaccarono il centro dei Vandali con le loro frecce. I germani ressero stoicamente la pioggia di frecce, senza caricare i nemici se non fino al piccolo ruscello che era al centro delle due schiere: convincerli ad attaccare disordinatamente era stato l’obiettivo di Giovanni, in una tipica tattica della steppa. Dopo che un secondo tentativo di attrarli in trappola fallì, Giovanni diede l’ordine di attacco ai bucellari: i cavalieri pesanti, sostenuti dagli arcieri, si schiantarono nel centro dello schieramento dei Vandali. Nella dura battaglia il Vandalo Tzazon perse la vita: si trattava del più marziale dei fratelli reali rimasti, il centro dello schieramento vandalo iniziò a vacillare. Belisario vide quello che accadeva al centro e diede l’ordine generale di attacco alle due ali: l’attacco determinato fece piovere una tempesta di frecce sui Vandali e poi arrivò l’impatto della cavalleria pesante: l’intero schieramento dei Vandali si volse in fuga. La fanteria romana dovette di nuovo accontentarsi di farsi raccontare la battaglia: arrivarono che questa era già vinta.

La battaglia di Tricamerum, ancora più di Ad Decimum, dimostra la superiorità dell’esercito romano nei confronti di quello dei Vandali: i Romani affrontarono forze almeno doppie, se non triple, e riuscirono ad infliggere una vittoria schiacciante. I Romani persero 50 uomini, i Vandali 800. L’intero affare è spiegabile con poche parole: i Vandali affrontarono un esercito del sesto secolo armati di un esercito del quinto. I Romani erano riusciti di nuovo nella loro specialità, assorbire le innovazione di un popolo – in questo caso gli Unni – utilizzandole contro tutti gli altri.

Il canto dell’ultimo Re

La sconfitta di Tricamerum, in mano ad un altro Re, avrebbe potuto essere una semplice battuta di arresto in una guerra più lunga. Gelimer la trasformò invece in una rotta.

Dopo Ammatus, Gelimer aveva perso un altro fratello e con lui ogni speranza rimasta. Comprese che la sua carriera era finita e che la sua vita era in pericolo: raccolta la famiglia e duecento dei suoi uomini più fidati si diede alla fuga. Infatti Gelimer aveva fatto trasportare quanto del tesoro dei Vandali rimaneva in suo possesso a Ippona e aveva dato ordine, in caso di sconfitta, di far prendere il mare per la Spagna, dove contava di rifugiarsi presso Re Theudis. Non fu un atto eroico, però gli salvò la vita

Nel frattempo, con la fanteria sul campo, Belisario diede ordine di preparare un assalto all’accampamento dei Vandali. Quando però fu chiaro ai Vandali che il loro Re era fuggito, tutti gli altri soldati si diedero alla fuga mentre gli uomini di Belisario si lanciarono a saccheggiare il loro accampamento. Belisario perse il controllo delle sue truppe, che si affannarono a prendere in schiavitù donne e bambini dei Vandali. Ore dopo Belisario riuscì a ristabilire l’ordine, a questo punto diede una serie di comandi: l’esercito avrebbe dovuto pattugliare tutte le campagne alla ricerca dei Vandali. Questi dovevano essere catturati, non uccisi, per essere disarmati e inviati a Cartagine a raggiungere i loro connazionali che erano lì custoditi, l’imperatore avrebbe fatto di loro buon uso. Belisario mise invece 200 uomini al comando di Giovanni, con il compito di mettersi alle calcagna di Gelimer, per catturarlo: qui avvenne quello che Procopio riporta come un incidente e pare davvero esserlo. Uno dei soldati al seguito di Giovanni lo colpì per errore mentre cercava di tirare una freccia ad un uccello: il generale armeno, che tanto aveva contribuito alla conquista dell’Africa, morì così, in un modo che desta quanto meno qualche sospetto.

Grazie alla morte di Giovanni, Gelimer riuscì a fuggire e si rifugiò su un’alta montagna dove viveva una tribù di Mauri a lui fedele. La montagna era inaccessibile, soprattutto in inverno, Belisario inoltre preferiva non rimanere troppo lontano da Cartagine: lasciò dunque gli Eruli al comando del loro capitano Pharas a guardia degli accessi alla montagna e se ne tornò nella capitale dell’Africa. La buona stella continuò ad assistere Belisario: la nave con il tesoro di Gelimer partì da Ippona alla volta della Spagna ma fu costretta a rientrare da una tempesta. A questo punto il gruppetto di leader Vandali che erano a bordo, demoralizzati, decise di arrendersi a Belisario sotto garanzia della loro sicurezza: consegnarono il tesoro a Belisario, che fu ben lieto di lasciarli liberi in cambio dell’oro. Tornato a Cartagine, Belisario inviò dei soldati a prendere possesso della Sardegna e della Corsica: per convincere i locali, il comandante romano portò con sé la testa di Tzazon. Belisario inviò altri reparti per prendere possesso delle Baleari e di una catena di porti della moderna Algeria e Marocco che erano appartenuti ai Vandali, fino a Ceuta e Tangier. All’inizio della primavera del 434, ad appena sei mesi dallo sbarco in Africa, l’intero regno era sotto il controllo di Belisario. Tutto si, ma con l’eccezione di Marsala – in antichità chiamata il Lilibeo: il porto in Sicilia fu occupato da Amalasunta, come pagamento imposto in cambio dei servigi offerti ai Romani in Sicilia. Belisario ne fu contrariato, ma per ora non c’era molto che potesse fare a riguardo.

Nel frattempo Gelimer iniziava ad averne abbastanza del suo assedio e della sua vita sui monti: i nobili vandali, ci informa Procopio, avevano preso l’abitudine di fare un bagno quotidiano, vivere in ampie case ariose, mangiar bene, andare a teatro e vestirsi di seta. Ora Gelimer era costretto a mangiare duro pane, vestire abiti poveri, nutrirsi di soli cereali: niente vino, bagni e musica per Gelimer.

Pharas, sempre impegnato nell’assedio, fece sapere a Gelimer che non doveva temere per la sua vita: aveva la parola d’onore di Belisario che non sarebbe stato ucciso, anzi il generale si sarebbe fatto garante della sua salvezza. Gelimer rispose che rifiutava di arrendersi, ma sarebbe stato enormemente grato a Pharas se gli avesse inviato una pagnotta di pane, una spugna per lavarsi e una cetra per comporre della musica e delle poesie sul suo lamentevole stato corrente. Pharas, mosso a compassione, esaudì le sue richieste, ma tenne comunque stretto l’assedio. Ah quanta strada avevano fatto i Vandali dai tempi di Genseric, considerando che Gelimer era il Re che aveva estromesso Hilderic accusandolo di essere troppo effeminato.

Nonostante la cetra, il pane e la spugna, sul finire dell’inverno Gelimer si arrese e si consegnò agli imperiali. Belisario informò l’imperatore che il Re era nelle sue mani, chiedendogli il permesso di tornare a Costantinopoli portandolo con sé. Ecco come Procopio chiude il racconto di quella che avrebbe dovuto essere tutta la storia della guerra in Africa.

Molti altri fatti straordinari si erano già verificati nel lungo corso dei tempi e altri ancora si verificheranno sempre, finché le vicende umane continueranno ad essere le medesime. Ma io non so se nel passato si siano compiute cose tanto importanti come queste, tanto che il quarto discendente di Genseric e il suo regno vennero completamente distrutti in così breve tempo, ad opera di cinquemila uomini venuti da lontano e che non avevano nemmeno un porto sicuro in cui approdare. Tale fu infatti il numero dei cavalieri che seguivano Belisario e che sostennero tutta la guerra contro i Vandali. E sia questo avvenuto per volontà del destino o per il loro valore, ci si deve comunque giustamente meravigliare”.

Una vittoria troppo facile

Credo che nelle intenzioni di Procopio questo avrebbe dovuto essere l’epitaffio alla guerra vandalica, e spesso come tale è trattato dagli storici, che ignorano invece i tanti anni di combattimento che sono ancora davanti e che riporterò, anche se in modo più stringato e soprattutto quando influenzeranno gli avvenimenti italiani. Detto questo è difficile non essere d’accordo con l’entusiasmo di Procopio: il regno di Genseric, il terrore del mediterraneo, era caduto in pochi mesi, con la capitale che era stata conquistata in meno di una settimana. Il tutto compiuto dall’equivalente numerico di una legione romana d’antan, solo a cavallo. Come abbiamo visto la vittoria fu una combinazione di diversi fattori: innanzitutto la capacità di Belisario di conquistare il cuore dei sudditi romani dei Vandali, unita alla incapacità di questi di farli sentire parte del regno. Il secondo fattore fu tecnologico-militare: i Vandali avevano un esercito basato su una tipologia di cavalleria antiquata che faceva da semplice bersaglio agli arcieri a cavallo dei Romani. La terza ragione, che non va dimenticata, fu il famoso fattore C, il calcolo imponderabile intendo. I Romani furono estremamente fortunati soprattutto nella battaglia di “Ad Decimum”, dove una serie di casi li portò ad affrontare ogni singola armata nemica senza che queste potessero coalizzarsi. Durante l’intera campagna nulla andò storto: nessuna tempesta a disperdere le navi, nessuna sconfitta in mare da parte della flotta vandalica, i nemici divisi e guidati con incompetenza, la sfortuna stessa dei generali dei Vandali. Spessissimo il successo può portare alla compiacenza se non ad una sensazione di onnipotenza. un successo talmente facile e schiacciante non poteva che avere una conseguenza importante nella psiche della leadership romana, portando Giustiniano e gli imperiali in generale a sottovalutare i loro prossimi nemici. I Romani, nelle future campagne, avranno sempre il vantaggio tecnologico-militare, ma non sempre avranno al loro fianco i cittadini locali e la fortuna, con esiti disastrosi.

Il circo di Costantinopoli (Ippodromo)

Nel frattempo sussurri erano arrivati all’orecchio di Giustiniano: il successo era stato al di là di ogni aspettativa ma si poteva fidare di un generale con poteri monarchici che ora sedeva sul trono di un Re? Il sempre sospettoso Giustiniano fece arrivare a Belisario un messaggio: poteva o restare a Cartagine e inviargli Gelimer e tutti i prigionieri vandali o tornare con loro egli stesso. La lettera era stata cortese ma Belisario comprese immediatamente che restare sarebbe stato interpretato nel peggiore dei modi, ovvero come un sintomo di tradimento: fece quindi immediatamente i preparativi per il ritorno. Gli arrivarono notizie che i Mauri avevano preso ad attaccare la frontiera della ricostituita provincia romana. Non poteva far nulla a riguardo: lasciò il suo sottoposto Solomone a comando dell’Africa e partì per Bisanzio.

Belisario aveva dimostrato non solo di essere un conquistatore, ma anche un generale fedele, scegliendo la difficile via di tornare a casa, disarmato. Per ricompensarlo, Giustiniano decise di ricoprire il suo generale conquistatore con l’onore più grande possibile, un onore che donava un prestigio talmente sovraumano che, a partire dai tempi di Augusto, era stato riservato solo agli imperatori. Giustiniano decise di offrire a Belisario un trionfo, il primo di un cittadino privato in più di mezzo millennio. Questo trionfo fu però molto diverso da quelli antichi: Belisario non entrò in città a cavallo, alla testa di tutti i suoi soldati, ma fece il tragitto a piedi dalla sua casa all’Ippodromo, acclamato lungo il percorso dalla folla. Giunto nel circo, entrò nel luogo dove solo due anni prima aveva dato l’ordine del massacro della folla: questa volta la folla era lì per acclamare lui, l’imperatore e la grandezza di Roma. Belisario, accompagnato da Gelimer, fece il percorso attorno all’Ippodromo per poi fermarsi di fronte al Kathisma, il box imperiale. Qui erano accatastate le ricchezze portate da Cartagine, tra di loro molte delle decorazioni e degli ori del palazzo imperiale sul Palatino, saccheggiati da Genseric nel 455 e, se Procopio ha ragione, anche le suppellettili del tempio di Salomone a Gerusalemme, incluso il celebre candelabro a sette braccia.

Gelimer aveva accompagnato Belisario lungo tutto il tragitto, vestito di abiti regali e di una specie di porpora imperiale, assieme ai più alti e belli tra i Vandali. Nelle parole di Procopio “Gelimer, appena giunse nel circo e vide l’imperatore assiso su un’alta tribuna, considerando in quale triste situazione lui si trovava non pianse e non si lamentò ma non cessò di meditare sulla sentenza della bibbia che dice: vanità delle vanità, tutto è vanità”. Ancora una volta, il nostro Re dei Vandali, più che un Re barbaro sembra un pensoso intellettuale: più a suo agio con una cetra che con una spada. Non temete per lui però: questo trionfo era un trionfo cristiano e non terminò come una volta, con l’uccisione rituale del Re nemico. Una volta di fronte al Kathisma, a Gelimer fu tolto il mantello reale e fu costretto a prostrarsi ai piedi dell’Imperatore, in atto di riverenza. Anche Belisario, l’uomo che lo aveva sconfitto, fece lo stesso, in simbolica sottomissione alle potenze imperiali. Giustiniano e Teodora fecero allora dono di denaro a tutti i figli e discendenti di Hilderic, che faceva parte della famiglia imperiale teodosiano-valentiniana. A Gelimer furono concesse ampie proprietà in Galazia, in Asia Minore, ma al rifiuto di Gelimer di convertirsi alla fede cattolica non gli fu permesso di entrare in Senato, cosa che invece Giustiniano gli aveva offerto. I Vandali furono arruolati nell’esercito e la maggior parte di loro fu inviata sulla frontiera persiana, sentiremo ancora parlare di loro. Per Belisario ci fu un ultimo grande onore: il consolato per l’anno seguente, il 535. Il 1° gennaio Belisario poté quindi celebrare di nuovo una sorta di trionfo: entrò in città portato dai suoi prigionieri e distribuì alla folla parte del bottino di guerra.

Ma il vero trionfo fu di Giustiniano: era stato in una posizione instabile sin dalla sua ascesa al trono, posizione che era diventata quasi intenibile pochi anni prima a causa della rivolta di Nika. Ora il trionfo in Africa aveva aggiunto al suo nome una vera tonnellata di legittimità: nessuno avrebbe mai più dubitato il suo destino imperiale. Nessuno. Questi regni barbarici si erano dimostrati deboli e pusillanimi, la paura che incutevano nei Romani era chiaramente dovuta ad un valore in guerra che era oramai estinto e a degli accadimenti lontani nel passato. Se Roma era tornata così facilmente a Cartagine – la sua antica, implacabile nemica – perché non poteva tornare nella terra giusto al di là dell’Adriatico, la terra madre, la terra del Papa, la terra degli Imperatori, la terra di Cesare, di Ottaviano, di Scipione, di Furio Camillo? Cos’era l’Impero romano, in definitiva, senza Roma?

Ed è lì che ora si volgerà finalmente la nostra storia, all’Italia. Tra due settimane torneremo indietro al 526, all’Italia vedova di Teodorico: il nostro obiettivo sarà di riportare anche l’orologio italiano a segnare il 535. Vedremo cosa accadrà nel decennio dopo la morte di Teodorico e ci prepareremo a sentir soffiare il vento di tempesta che si sta levando dall’oriente.

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[1] Ovviamente riferimento al film “300”

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