Nello scorso episodio l’intera città di Costantinopoli è esplosa come un vulcano, portando lo stesso livello di distruzione di un’eruzione pliniana nel centro della più grande città del mediterraneo.
Solo un massacro di proporzioni mai viste ha posto fine alla rivoluzione di Nika: abbiamo lasciato la città in uno stato di stupore e orrore attonito. Giustiniano e Teodora, alla fine, hanno trionfato sul loro popolo, ma il prezzo pagato è stato carissimo.
Nel film “sesso e potere”, con il titolo ben più evocativo in inglese di wag the dog, il presidente degli Stati Uniti è sorpreso con una minorenne a due settimane dalle elezioni. Il suggerimento del suo spin doctor è semplice: dichiarare una guerra ad un nemico esterno è l’unico modo per vincere le elezioni, il bersaglio diviene la piccola Albania. Il presidente è rieletto, ovviamente.
Come nel film, in questo episodio Giustiniano troverà l’obiettivo perfetto per ricostruire la sua legittimità a governare, restaurando il rapporto compromesso con il popolo e le élite della capitale: niente unifica l’opinione pubblica come una guerra con un nemico esterno, oggi come allora, e niente nel mondo romano ricostruisce la legittimità a governare come una vittoria militare. E quindi guerra sarà.
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The day after
Quando l’imperatore e l’imperatrice riemersero dal palazzo imperiale che era stata la loro prigione durante la fallita rivoluzione di Nika, quello che videro intorno a loro fu un panorama desolante: l’intero centro della più importante città del mediterraneo era in completa rovina. Nelle macerie della città non erano solo finiti i monumenti, ma l’intera politica di Giustiniano: l’Imperatore aveva iniziato una guerra contro la Persia, guerra che aveva sostanzialmente perso. I suoi due collaboratori più importanti, Giovanni il Cappadoce e Triboniano, erano stati estromessi dal governo. Il 5% della popolazione della sua capitale era stata massacrata dai suoi soldati e il centro cerimoniale della sua capitale era una pira fumante. Certo, la rivolta era stata sedata nel sangue, ma Giustiniano era consapevole di aver consumato qualunque capitale politico e qualunque legittimità accumulati durante il suo regno e quello di suo zio. Se non avesse fatto qualcosa, e presto, una nuova rivolta o una congiura sarebbero certamente seguite. Giustiniano decise di iniziare dalla ricostruzione.
Nei quartieri popolari si piangevano i morti ma l’imperatore vide subito che il fato gli aveva donato un’occasione straordinaria di rifare Costantinopoli secondo il suo gusto. Visto che Giustiniano era un vero imperatore-umarell, si mise subito all’opera: come dite? Non sapete cosa vuol dire umarell? Cercatelo su Google e non potrete mai più dimenticarlo.
Giustiniano avrebbe ricostruito anche i grandi palazzi del potere civile, ma la priorità ovviamente andò alla casa del signore: non erano trascorsi neanche 40 giorni da Nika che gli operai iniziarono a preparare il terreno per la costruzione di una nuova, grandiosa Hagia Sophia. La stessa incredibile chiesa che è ancora oggi in piedi a Istanbul, la più grande chiesa della cristianità per mille anni e, con tutto il rispetto per San Pietro, a mio avviso ancora oggi la più bella e maestosa, anche se non è più una chiesa.

Degli enormi cantieri con i quali occupare i cittadini disoccupati erano un modo per iniziare a riparare il rapporto con l’opinione pubblica ma Giustiniano era consapevole che non sarebbe bastato. L’imperatore aprì uno dei suoi periodici tentativi di riconciliazione con i leader dei Monofisiti, nella speranza di trovare nella religione la buona notizia che cercava. Ma il tentativo fallì.
No, c’era una sola cosa che poteva riunificare il suo impero spaccato: una guerra patriottica. Fortuna che ad occidente, in Africa, c’era oramai un obiettivo perfetto: la nemesi dei Romani, il popolo che era riuscito a sopravvivere a mille tentativi di invasione. I Vandali.
I Germani d’Africa
Questo episodio sarà in gran parte ambientato in Africa, ed è all’Africa ex romana e ora vandalica che dobbiamo andare per preparare la scena del dramma.
Ricorderete che i Vandali avevano conquistato il loro regno in Africa negli anni 30’ del quinto secolo, arrivando a conquistare Cartagine nel 439, piombando l’Impero Occidentale nella crisi dalla quale non si sarebbe più ripreso. Genseric era uno dei grandi statisti e leader militari della tarda antichità e riuscì a saccheggiare Roma, conquistare un vasto dominio nel mediterraneo occidentale e a sconfiggere più volte i Romani nei loro tentativi di riconquista. Il regno costruito da Genseric si estendeva sulle tre principali province romane del Maghreb, corrispondenti alla moderna Tunisia e Algeria orientale. Inoltre il regno possedeva una catena di porti con un labile entroterra che giungeva fino a Tangeri in Marocco e Leptis Magna in Libia. Appartenevano al regno anche la Sardegna, la Corsica, le Baleari e il porto di Lilibeo, la moderna Marsala, in Sicilia.
Genseric stabilì il grosso del popolo vandalico nelle terre circostanti Cartagine, espropriando in gran parte le proprietà dei senatori italici, in questo modo non andando a pesare troppo sui locali. Nonostante questo, molti ricchi africani furono espropriati e fuggirono dall’Africa, rifugiandosi a Costantinopoli e agitando in continuazione per una reconquista del Nordafrica.

Genseric e i loro successori furono diversi dagli altri Re romano-barbarici per il loro atteggiamento religioso: Visigoti, Burgundi e Ostrogoti erano ariani ma avevano ben chiaro che governavano su una larga maggioranza di cattolico-ortodossi, il cui consenso necessitavano per mantenere il potere. I Vandali furono l’eccezione alla regola, decidendo invece per una vera e diretta persecuzione dei cattolici con l’obiettivo di far trionfare la chiesa ariana: per farlo utilizzarono le leggi romane, ovvero le leggi ideate per perseguitare gli eretici. Un fattore che forse permise questa politica fu che la popolazione romana del Nordafrica non era tutta ortodossa ma una larga parte era donatista, una corrente scismatica che risaliva al terzo secolo e che era stata a lungo perseguitata dagli ortodossi. I Vandali lasciarono in pace i donatisti, prendendosela con gli ortodossi, percepiti non completamente a torto come quinta colonna del potere imperiale romano: la chiesa ortodossa ebbe le sue proprietà confiscate, molti membri del clero persero la vita, i Romano-africani furono incitati con le carote e il bastone a convertirsi all’arianesimo. Per impedire ai cattolici di ribellarsi e occupare le loro città, il re dei Vandali diede ordine di abbattere tutte le mura delle città nordafricane: privi della protezione di una fortezza, i Romani non avrebbero avuto possibilità di ribellarsi senza la paura di essere immediatamente massacrati. È una decisione che nel lungo periodo i Vandali pagheranno a caro prezzo.
I successori di Genseric non riuscirono a mantenere la reputazione militare del fondatore del regno: il loro avventurismo militare in Italia ai tempi di Odoacre sfociò in una serie di sconfitte che ridussero di molto il prestigio del regno. In contemporanea i Vandali ebbero crescenti difficoltà a proteggere le terre coltivate dai loro sudditi romani dalle incursioni dei nomadi Mauri che vivevano nell’entroterra. A Genseric successe suo figlio Huneric ma alla morte di questi la corona non passò a suo figlio Hilderic: per evitare i rischi di una successione di padre in figlio, che spesso richiedevano lunghe reggenze, Genseric stabilì che la corona sarebbe passata al suo successore maschio più anziano. Quindi fu eletto Re un altro discendente diretto di Genseric, Gunthamund. Alla sua morte la corona di nuovo non andò a Hilderic ma passò al fratello di Gunthamund, Thrasamund.

Thrasamund, che regnò dal 496 al 523, fu costretto a riconoscere la superiore forza del regno di Teodorico, sposandone la sorella Amalafrida e accogliendo in Africa una forza militare forte di 6000 soldati ostrogoti, inviati da Teodorico come guardia del corpo della sorella. Thrasamund terminò la persecuzione dei cattolici, non ho dubbi su indicazione di Teodorico, del quale seguì la politica di convivenza tra arianesimo e cattolicesimo, pur mantenendo chiaramente una preferenza per l’arianesimo per quanto riguardava il suo popolo. Thrasamund fu anche costretto ad una guerra contro i Mauri, guerra nella quale subì una disastrosa sconfitta.
L’Africa dei Vandali non era però il regno di Mordor spesso descritto dai contemporanei cattolici: l’Africa continuò ad esportare grano e altri prodotti redditizi verso il resto del mediterraneo, i sovrani a Cartagine si impadronirono delle cerimonie, dei rituali e anche degli abiti romani. I Vandali saranno anche stati dei barbari, ma non vivevano in modo barbaro: un secolo di vita in Africa, senza seri problemi militari, li aveva abituati ai bagni quotidiani e ai bei giardini fioriti: i giardini reali di Grasse furono ammirati da Procopio nei suoi viaggi in Africa. L’Africa continuò a produrre poesia e letteratura in Latino. I Vandali sembrano aver sviluppato un gusto per le terme, il teatro e le corse dei cavalli, come confermato dalle parole di Procopio e dalla poesia latino-africana del periodo. L’impressione che ci si fa leggendo tutto questo è che, dopo aver forgiato con il sangue e il fuoco il loro regno, i Vandali si fossero abbastanza rammolliti, proprio quello che Teodorico aveva temuto accadesse ai suoi Ostrogoti.
Quanto alla parte militare, sappiamo che i Vandali avevano 80 thusundifath o leader di 1000 uomini. Nessuno crede che le loro forze militare fossero pari a 80.000 uomini, se ricorderete queste sono le stime per l’intero popolo dei Vandali. La popolazione vandalica probabilmente aumentò nel secolo di permanenza in Africa; quindi, la stima indicativa è di circa 100.000 uomini. Secondo le solite proporzioni tra combattenti e non combattenti, questo darebbe circa 25 mila soldati. L’esercito vandalico aveva quindi un thusundifath per ogni 300 combattenti circa, un dato praticamente identico al centurione o hekatontarch romano. A differenza dei Romani, i Vandali non paiono aver inserito alcuna modifica al loro modo di combattere nei cento anni che trascorsero in Africa, una regione per lo più pacifica e distante dai nomadi della steppa che tante innovazioni avevano portato all’esercito romano. Quanto alla loro formidabile flotta, questa aveva come equipaggio principalmente marinai romani, tranne gli occasionali ufficiali Vandali. Su terra i Vandali combattevano a cavallo, usando lancia e spada e ben protetti da pesanti cotte di maglia. Non abbiamo informazioni di armi da lancio e, caso unico tra i Germani, i Vandali paiono essere passati completamente alla cavalleria pesante, abbandonando la fanteria.

L’occasione di Giustiniano
L’ultima fase del regno inizia nel 523, alla morte non si sa quanto spontanea di Thrasamund. A quella data finalmente poté accedere al trono il figlio di Huneric. Si trattava del già citato Hilderic: sua madre era stata Eudocia, la principessa imperiale che i Vandali avevano catturato nel sacco di Roma del 455. È probabile che l’influenza della madre e l’odio verso Thrasamund e la sua politica filo-ravennate portò Hilderic a spostarsi verso un’alleanza con Costantinopoli. Come narrato nell’episodio 57, la vedova di Thrasamund, Amalafrida, fu catturata e poi messa a morte, la guarnigione gotica trucidata. Hilderic sopravvisse alla vendetta di Teodorico perché questi morì prima che la sua grande flotta potesse partire per l’Africa, nel 526.
Negli anni seguenti Hilderic continuò la sua politica filo-Costantinopolitana: la chiesa cattolico-ortodossa poté tornare allo scoperto, ci furono dei sinodi a Cartagine, diversi vandali si convertirono al cattolicesimo. Tutto questo non poteva non irritare la corrente più tradizionalista tra i Vandali. Non era solo una questione religiosa: l’allineamento all’Impero era il tradimento dell’intera politica estera del regno, i Vandali non avevano negoziato la loro indipendenza, se l’erano conquistata con le armi. Non aiutava il fatto che Hilderic era una figura tutto meno che marziale, più un imperatore romano che un erede di Genseric: decise di nominare a capo dei suoi eserciti un suo parente, Gelimer, che dovette combattere una dura guerra contro i Mauri. Nel 529 l’esercito vandalo fu nuovamente sconfitto dai Mauri, l’ultima di una lunga serie di umiliazioni. Gelimer sostenne con i suoi che tutti i mali che affliggevano i Vandali erano dovuti al loro inefficace e pusillanime Re, se solo i Vandali avessero avuto un Re marziale, ariano e tradizionalista…come dite? Potrei farlo io? Non ci avevo pensato, grazie per l’ottimo suggerimento!
Nel maggio del 530, lo stesso anno della battaglia di Dara, Gelimer colpì: un veloce colpo di stato rovesciò Hilderic, mettendo sul trono Gelimer. Il nuovo Re abbandonò immediatamente alcune delle politiche pro-calcedoniane del suo predecessore. Da un punto di vista diplomatico, Gelimer non aveva nessun’intenzione di farsi nemico l’imperatore ma le sue ambascerie furono accolte gelidamente da Giustiniano che inviò missive in Italia, chiedendo ad Amalasunta, l’erede di Teodorico, di non riconoscere Gelimer come Re dei Vandali. Amalasunta non aveva dimenticato l’uccisione di sua zia Amalafrida e non ebbe alcuna difficoltà a mantenere la posizione ostile di Ravenna contro Cartagine. Insomma i Vandali, nel mondo mediterraneo, erano oramai diplomaticamente isolati e Gelimer era considerato un usurpatore anche da una parte del suo popolo. Un obiettivo perfetto.
Se conoscete anche solo un po’ la storia di Giustiniano penso la ricordiate un po’ così: la storia di un imperatore che da sempre sognava di riconquistare l’occidente, per riunificare un impero diviso e riportare le insegne di Roma ai suoi antichi confini. Insomma, un imperatore sognatore con una missione quasi impossibile. Gli storici hanno spesso criticato l’avventurismo di Giustiniano, come vedremo, sostenendo che portò l’Impero d’oriente ad esaurire le sue risorse, lasciandolo impreparato alle sfide future: un classico esempio di quello che in inglese si chiama imperial overstretch, ovvero l’espansionismo imperiale al di là delle risorse e delle capacità economiche della base imperiale esistente. Molti hanno quindi contestato le azioni di Giustiniano, ma pochi ne hanno dubitato i motivi. La maggior parte ha accettato l’idea di un visionario romantico, determinato a restaurare l’Impero romano.
Eppure analizziamo i fatti: Roma era in pace con la Persia durante la maggior parte del regno di Giustino e furono le azioni aggressive del suo ministro degli esteri, lo stesso Giustiniano, a causare la guerra con Kavad. La Persia sembra essere stato il vero obiettivo di Giustiniano, un obiettivo facile da spiegare: una vittoria anche parziale contro il nemico numero uno sarebbe stato un enorme fattore legittimante per il nuovo governo Giustiniano, quello che mi pare fosse il suo vero scopo.
Invece l’imperatore si ritrovò a dover concludere una pace umiliante con la Persia, concedendo quel tributo ai Persiani che generazioni di imperatori romani avevano sempre cercato di evitare, una pace che molti storici hanno interpretato come frettolosa perché il vero obiettivo dell’imperatore sarebbe stato la reconquista dell’occidente. Eppure il colpo di stato di Gelimer è del 530 e Giustiniano si prese ben tre anni per reagire. Solo dopo il fallimento dell’avventurismo in Persia e la quasi rivoluzione di Nika il governo di Costantinopoli andò alla ricerca di un qualunque successo politico che potesse trasformare il fallimento dei primi anni di Giustiniano in un successo.
È questa certamente la verità? non vorrei dare questa impressione. Giustiniano parlava latino, considerava il Papa occidentale come il padre della chiesa. Non è impossibile che da sempre considerasse la possibilità di re-incorporare almeno la città di Roma nell’Impero. Oppure non credo occorra scomodare la figura del conquistatore romantico per spiegare la decisione di Giustiniano. La fattispecie in questione è, credo, assai più frequente nella storia: ovvero l’avventurismo militare come l’ultima via di fuga per un governo delegittimato.
Per grande fortuna di Giustiniano, Gelimer era un Re debole, con una tenue presa sul potere. Non si sa se istigate dal governo imperiale, ma nel 532 scoppiarono due rivolte in due province periferiche del suo regno, una in Tripolitania e una in Sardegna. Alcuni storici credono che furono le rivolte a convincere Giustiniano che era il momento di attaccare l’Africa. Conoscendo Giustiniano e le sue capacità, mi paiono piuttosto dei sintomi della decisione di Giustiniano di attaccare i Vandali.
L’armata di Giustiniano

Dopo che nel Gennaio del 532 la sua capitale andò in fumo, Giustiniano passò l’intero 532 a preparare la missione in Africa, sia sobillando notabili locali alla rivolta sia intrattenendo trattative con Ravenna: una spedizione in Africa con l’opposizione dell’Italia era impossibile, visto che la rotta per Cartagine passava necessariamente dalla Sicilia: da Costantinopoli sarebbe stato quasi impossibile inviare una flotta via la costa africana, un giro tortuoso e soprattutto lento perché controcorrente. Infatti le correnti del mediterraneo orientale fanno grosso modo un giro in senso antiorario, dalla Grecia verso la Sicilia, di qui verso la moderna Tunisia per poi costeggiare Libia ed Egitto e risalire la costa siriana e l’Anatolia.
La negoziazione con Amalasunta andò a segno e la rivolta in Tripolitania fornì una scusa per l’intervento: il locale governatore chiese a gran voce l’aiuto di Costantinopoli offrendo la re-incorporazione della moderna Libia occidentale nell’Impero. Lo stesso fece il capo dei ribelli che avevano preso possesso della Sardegna.
Non c’é due senza tre

Ovviamente a Costantinopoli non si erano dimenticati di come era finita l’ultima missione a Cartagine, 65 anni prima, per non parlare di quella di Maggiorano, quasi un secolo prima.. Quando Giustiniano palesò i suoi propositi ai suoi ministri, ecco quale fu la reazione secondo Procopio “I ministri, per la maggior parte, manifestarono subito la propria disapprovazione per quel progetto che consideravano una grande calamità, ricordando la spedizione dell’imperatore Leone e la disfatta di Basilisco, rammentando quanti soldati erano periti e quale patrimonio fosse allora costata la guerra all’erario pubblico”. In particolare erano preoccupati i ministri finanziari, che temevano il costo colossale della guerra dopo il disastro di quella persiana. Molti fecero presenti i rischi di navigare via mare, dovendo inoltre attaccare Cartagine senza una base di appoggio in Africa. I generali fecero presente che erano appena tornati da una lunga e dura campagna di guerra contro i Persiani. Giovanni il Cappadoce era tornato al potere dopo che Nika era stata sedata nel sangue e si schierò con i prudenti, cercando di far cambiare parere all’imperatore.
Ma Giustiniano non demorse, confortato dalla profezia di un vescovo che gli garantì che Dio avrebbe combattuto al fianco dei Romani. La missione fu preparata con tutta l’attenzione del caso: furono radunate 500 navi da trasporto e 92 dromoni da guerra, pilotate da 31.000 marinai. La grande flotta avrebbe avuto il compito di trasportare verso l’occidente un corpo di spedizione composto da diecimila fanti e cinquemila cavalieri. La spedizione era una variopinta collezione di nazionalità: c’erano foederati germanici, in gran parte Eruli, un popolo sconfitto nelle eterne lotte extra danubiane e che era stato trasferito nell’impero da Giustiniano, una mossa che ricorda quella fallita di Valente con i Goti. Poi c’era un nutrito contingente di 600 arcieri a cavallo Unni. Altri soldati provenivano dall’Armenia Romana e dalla Tracia. I più arditi tra i combattenti a cavallo erano i circa 1000 bucellari del generale che fu messo a comando della spedizione, ma null’altri che il nostro Belisario, l’uomo che aveva salvato il regno di Giustiniano nel sangue dell’arena dell’Ippodromo di Costantinopoli. Gli storici non sono certi se Procopio incluse bucellari e foederati nel conto totale, comunque sia anche in questo caso si tratterebbe di una forza di appena 17.000 uomini, meno della metà di quelli che aveva comandato Basilisco nella sua sfortunata spedizione africana. Nonostante questo i numeri mascherano la presenza di un forte nerbo di cavalleria d’élite, armata di tutto punto, l’arma che sarà decisiva nel corso della guerra.
Belisario, nonostante la sconfitta di Callinicum, fu scelto per una serie di ragioni: era uno dei pochi generali orientali a parlare latino, un’abilità molto utile in occidente. Aveva fama di uomo retto e integerrimo, caratteristiche che sarebbero state importanti per portare a sé i Romani d’Africa. Infine Belisario aveva dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio la sua fedeltà a Giustiniano, la fedeltà assoluta all’imperatore era indispensabile, considerando i poteri che Belisario ottenne per la sua spedizione. Da Procopio “l’imperatore gli rilasciò autorizzazione scritta a compiere qualsiasi cosa gli sembrasse opportuno: ogni sua decisione avrebbe avuto autorità assoluta, come se l’avesse presa lo stesso imperatore”. Belisario ebbe insomma l’autorità di comportarsi in occidente come un monarca, un potere senza precedenti.
Giustiniano deve essersi fidato di Belisario, ma Teodora non avrebbe inviato in occidente qualcuno con potere monarchico senza avere anche lei stessa una sorta di garanzia: in un tempo imprecisato prima della partenza della spedizione, Belisario sposò una confidente e alleata di ferro di Teodora, la celebre Antonina. Figlia di un auriga e di una attrice, lei stessa aveva avuto un passato di attrice, si presume al fianco di Teodora. Come l’imperatrice e assieme a lei aveva scalato la società romana, nell’orrore dei benpensanti, giungendo nel cuore del potere. Antonina aveva 49 anni al matrimonio, contro i 33 del suo marito cougar, Procopio ci riferisce che aveva avuto diversi figli nella sua vita precedente, ovviamente per il nostro benpensante non poteva che essere dissoluta. Non c’è alcun dubbio che Antonina svolse il ruolo di inviato speciale di Teodora in occidente, accompagnando il marito in Africa, un caso molto raro nell’antichità.
Alea iacta est
E fu così che, nell’estate del 533, la popolazione di Costantinopoli si riunì per vedere partire la grande armata: consapevoli dei precedenti, non dubito che molti credettero che non li avrebbero mai più rivisti. Ecco come Procopio commenta la partenza, con l’emozione di chi parte per l’avventura della vita: “Nel settimo anno da che Giustiniano reggeva l’Impero, verso il solstizio d’estate, l’imperatore ordinò che la nave ammiraglia venisse ancorata nel lido che sta proprio di fronte al palazzo reale. Intervenne il vescovo Epifanio che recitò una preghiera adatta alla circostanza, poi salì sulla nave Belisario assieme a sua moglie Antonina, lo accompagnava pure Procopio, l’autore di queste storie, il quale in un primo tempo aveva avuto una grande paura, al pensiero del pericolo a cui andava incontro ma poi aveva ricevuto in sogno una visione che gli aveva fatto prendere coraggio”. Ognuno dei partecipanti alla spedizione dovette trovare dentro di sé il coraggio, perché quel giorno la flotta salpò verso l’occidente, e la guerra.
La flotta attraversò il Mar di Marmara e si fermò nella città di Eraclea, dove furono caricati un gran numero di splendidi cavalli delle stalle imperiali, Giustiniano non badava a spese. Di qui giunsero ad Abydos, su quella che oggi è la penisola di Gallipoli, teatro di una delle più sanguinose battaglie della Prima guerra mondiale. Qui Belisario decise di far capire immediatamente al suo composito esercito che la disciplina sarebbe stata ferrea durante la missione: un paio di Unni indisciplinati ed ubriachi uccisero un collega, Belisario li fece impalare, aggiungendo che ogni azione di aggressione verso commilitoni o civili, perfino il semplice saccheggio, sarebbero stati puniti allo stesso modo. Il messaggio fu recepito: al di là della semplice disciplina da campo, credo che Belisario volesse evitare danni da stupri e saccheggi alla popolazione romana dell’Africa, che intendeva portare il più possibile nel suo campo.
Dopo una tappa a Methone, nella costa a sud del Peloponneso, e sull’isola di Zacinto la grande flotta prese il mare verso la Sicilia e mise l’ancora nei pressi di Taormina, con la maestà dell’Etna in primo piano. Lo stop in Sicilia fu fondamentale per la missione ed è in questo frangente che vediamo all’opera l’accordo raggiunto tra Costantinopoli e Ravenna: Amalasunta non solo non fece nulla per fermare la flotta imperiale ma le diede appoggio logistico, permettendo ai soldati di Belisario di comprare provviste e rifornimenti militari, rifocillarsi a terra e in generale ottenere un approdo amico nel lungo viaggio tra il Peloponneso e il Nordafrica. È facile dedurne che l’intera missione sarebbe stata impossibile, senza lo scalo in Sicilia e il sostegno di Ravenna.
Mentre la flotta era radunata a Taormina, Belisario si fermò per raccogliere informazioni prima di decidere la prossima mossa: nelle parole di Procopio, Belisario temeva la paura che i suoi avevano di una battaglia navale, oltre che le possibili sorprese che i Vandali avrebbero potuto tendere alle sue forze. D’altronde, erano gli stessi Vandali che avevano vinto due famose battaglie navali contro i Romani grazie alla loro astuzia e capacità di tendere agguati sul mare.
E chi inviare come agente speciale se non il nostro Procopio? Lo storico si recò a Siracusa con il compito di indagare. Procopio fu molto fortunato perché incontrò un suo concittadino di Cesarea, un amico d’infanzia che si era trasferito a Siracusa e si occupava di commercio marittimo. L’amico aveva un suo servitore, appena arrivato da Cartagine dove era stato solo tre giorni prima. Questi gli disse che i Vandali erano ancora ignari dell’arrivo della flotta nemica, anzi tutta la loro attenzione era concentrata sulla Sardegna, dove avevano inviato la loro flotta con 5.000 dei loro migliori soldati, con il compito di riconquistarla. Procopio comprese immediatamente l’importanza dell’informazione e trascinò il servitore fino al porto vicino alla fonte di Aretusa, lo caricò sulla nave che lo aveva condotta a Siracusa e lo portò dritto a Belisario.

Peter Heather sostiene che è assai probabile Belisario non avesse ricevuto alcun ordine di riconquista dell’Africa da parte di Giustiniano. Era al comando di un esercito considerevole, paragonabile ad un esercito da campo imperiale, ma senza la determinante intelligence che Procopio portò alla sua attenzione, Belisario non avrebbe mai rischiato di perdere una delle armate e una delle flotte dell’Impero in quello che è da sempre uno dei tipi più pericolosi di guerra, ovvero lo sbarco di una forza d’invasione via mare. Gli ordini di Giustiniano erano stati probabilmente di valutare la situazione e decidere come sostenere una o entrambe le regioni secessioniste del regno dei Vandali, la Sardegna e la Tripolitania, nella migliore delle ipotesi provare a sbarcare in Africa per rimettere Hilderic sul suo trono, quello che sarebbe stato un grande successo in base ai parametri dei passati lustri di guerre romane. L’idea dello storico inglese è che la politica di riconquista dell’occidente nacque lì, a Taormina, quando Belisario comprese che davvero le condizioni potevano essere ottime per una vera riconquista.
Vorrei sottolineare che questa è l’opinione di uno storico, molti altri pensano che il piano fosse l’invasione dell’Africa sin dal lancio della spedizione, eppure contro questa ipotesi c’è il relativamente limitato sforzo bellico, assai inferiore a quello intentato dai Romani sotto Leone e Basilisco, quella si fu una spedizione di annichilimento del regno africano. Sono d’accordo con Heather: Belisario, con il fiuto del grande generale, vide una occasione d’oro e la prese.
Il segnale fu dato, l’esercito salì a bordo delle navi e partì: la navigazione li portò vicino a Malta. Da lì Belisario condusse la flotta a sbarcare a Caput Vada, nella Byzacena, a cinque giorni di marcia a sud di Cartagine: miracolosamente per i tempi, non avevano perso neanche una nave. Belisario deve aver letto i suoi libri di storia prima di partire, perché non fece l’errore di Basilisco di buttare ancora troppo vicino a Cartagine e alla sua flotta. Diede il compito a diverse navi leggere di pattugliare tutto intorno alla rada, in modo da evitare sorprese o, dio non voglia, un altro attacco con i brulotti. Dopo una breve discussione con i suoi ufficiali, Belisario diede l’ordine di sbarcare e di costruire un accampamento fortificato sulla costa. Chissà se sentì il peso della storia, quella recente come quella antica: sarebbe la sua spedizione assomigliata a quella disastrosa di Attilio Regolo, nella prima guerra punica, o a quella vittoriosa di Scipione l’Africano? Sarebbe riuscito ad evitare il disastro che aveva colpito Maggiorano e Basilisco nei loro tentativi di riconquista? Una sola cosa era certa: dopo quasi cento anni, Roma era tornata in Africa.
Attilio Regolo o Scipione l’Africano?
Dopo essere sbarcati, alcuni soldati dell’armata orientale si rifornirono di frutta e cibo razziando le campagne. I colpevoli furono puniti duramente, anche se ebbero salva la vita, e Belisario utilizzò l’opportunità per ricordare che si aspettava che si comportassero tutti in modo civile e rispettoso nei confronti della popolazione locale. “Rubare è sempre un empietà – disse – ma nel nostro caso è anche un errore. I locali sono stati a lungo cittadini romani e da tempo soffrono sotto il giogo dei Vandali. Se li avremo dalla nostra parte non ci mancheranno rifornimenti e informazioni. La prepotenza può condurci alla rovina ma se terrete la condotta che vi chiedo, Dio sarà a noi propizio, la popolazione romana sarà ben disposta e la sconfitta dei Vandali più facile”. La capacità di immedesimarsi nei civili e nel costruirsi un’immagine di persona retta e giusta fu uno dei grandi asset del generale Belisario, sempre molto accorto a gestire l’opinione pubblica dei territori attraversati. Il discorso pare aver sortito finalmente l’effetto sperato: da ora in poi il comportamento dei soldati imperiali sarà impeccabile durante l’intera campagna di conquista.
Belisario fece occupare una città poco distante e mise subito in pratica la sua politica: non fu perpetrata alcuna violenza ma i suoi ufficiali diedero ai notabili cittadini la garanzia che l’esercito dell’Imperatore era giunto per ripristinare la loro antica libertà di cittadini romani. I notabili consegnarono le chiavi della città a Belisario e lo stesso presto faranno altre città africane, seguendone l’esempio.
I Vandali avevano mantenuto in ordine il servizio di posta pubblica imperiale in Africa, sempre gestito da cittadini romani. In città c’era uno di questi uomini, che defezionò per gli imperiali. Belisario gli diede subito un compito, quello di distribuire attraverso il servizio postale il messaggio che l’Imperatore gli aveva consegnato e che diceva “Noi non meditiamo di fare guerra a voi Vandali e rispettiamo il trattato di pace che abbiamo sottoscritto ai tempi di Zenone con Genseric. Abbiamo invece intenzione di rovesciare il vostro tiranno Gelimer che ha catturato e messo in prigione il vostro Re legittimo. Unitevi dunque a noi e aiutateci a liberarvi da una tirannia tanto odiosa, in modo che possiate di nuovo godere pace e libertà.”
Questo testo, che non ingannò nessun vandalo a seguire l’Imperatore, è però interessante perché può essere inteso in due modi: potrebbe essere un abile depistaggio di Giustiniano delle sue vere intenzioni, cercando di manipolare l’opinione pubblica dei Vandali per dividerli a renderli più facili alla conquista. Oppure davvero l’obiettivo iniziale della spedizione era semplicemente il rovesciamento del regime di Gelimer, rimettendo sul trono di Cartagine il filoromano Hilderic: le storie di Procopio sono state scritte dopo i fatti, quando era già chiaro l’esito spettacolare della missione di Belisario. Come spesso nella storia, l’esito di un evento ne riscrive lo svolgimento. Comunque sia l’intera questione restò muta, come vedremo, perché i giorni per Hilderic erano contati.
Gelimer fu completamente sorpreso dall’invasione romana: quel che è peggio è che lui e il grosso del suo esercito non erano neanche a Cartagine: 5000 uomini erano stati inviati contro la Sardegna, al comando di suo fratello Tzozas, mentre lui stesso aveva preso un altro grosso contingente, marciando con loro verso sud, forse con l’intenzione di sopprimere la rivolta in Tripolitania. Sta di fatto che Belisario ebbe la fortuna di sbarcare tra lui e Cartagine.
Gelimer non si diede certo per vinto: mandò rapidi messaggeri a Cartagine: diede ordine a suo fratello Ammatus, restato a Cartagine, di mettere a morte Hilderic e la sua famiglia, in modo da privare Costantinopoli di un’utile testa di legno da utilizzare come suo sostituto. In contemporanea Ammatus sarebbe dovuto uscire da Cartagine alla testa della guarnigione della città e portarsi in una località concordata, dove avrebbe dovuto bloccare Belisario mentre lui risaliva la costa. I Romani si sarebbero dunque trovati tra l’incudine e il martello.
Il luogo deciso per la battaglia era a dieci miglia a sud di Cartagine, lungo la grande strada che portava verso l’area dove erano sbarcati i Romani. Vista la sua distanza da Cartagine, il luogo aveva un semplice nome: Ad Decimum. Belisario, Gelimer e Ammatus si sarebbero scontrati lì, per decidere il destino dell’Africa.
Nel prossimo episodio Belisario finirà nella trappola di Gelimer ma tutto andrà in modo completamente inaspettato, fino a che Belisario si troverà ad ottenere un onore che nessuno aveva ricevuto da un imperatore romano in più di mezzo millennio. Grazie mille dell’ascolto! Vi ricordo che potete trovare tutte le puntate, i testi del podcast, mappe, fonti e genealogie sul mio sito italiastoria.com. Se volete sostenermi, c’è anche una sezione con questo fine. Oppure potete andare su patreon.com/italiastoria. Alla prossima puntata!
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