Nello scorso episodio un nuovo, ambizioso regime si è installato a Costantinopoli con delle trame e manovre degne del migliore episodio del trono di spade. Abbiamo visto come questo abbia avuto immediati effetti sulla politica religiosa e diplomatica dell’Impero.
Oggi vedremo l’impatto che avranno le trame costantinopolitane sul grande edificio messo su da Teodorico, legando a sé i nuovi regni nati intorno all’Italia. In questo episodio il castello di carte costruito con pazienza da Teodorico finirà per mostrare tutti i suoi limiti, in un vortice di assassinii, tradimenti e voltafaccia.
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Teodorico contro l’antisemitismo
Mentre Giustino e Giustiniano consolidavano il loro regime a Costantinopoli, in occidente Teodorico dovette gestire delle rivolte popolari a Roma e Ravenna, generate dall’antisemitismo. Teodorico aveva esteso la tolleranza religiosa caratteristica del suo regno alla comunità ebraica, scrive in una lettera a loro indirizzata “Non possiamo imporre la religione e nessuno può essere costretto a credere contro il suo volere”. Eppure, dei gravi disordini portarono alla distruzione della sinagoga dell’Urbe, nel 520: dei servi cristiani avevano ucciso i loro padroni ebraici, la comunità ebraica romana aveva quindi citato in giudizio gli assassini, chiedendo ed ottenendone la condanna. Per tutta risposta una folla di cristiani aveva bruciato la principale sinagoga della città. L’anonimo valesiano ci racconta gli eventi dal punto di vista dei cattolici: “Presto gli ebrei si affrettarono a Verona, dove si trovava il Re che, in quanto eretico, favorì gli ebrei agendo contro i cristiani. Questo ordine fu eseguito da Eutaric ciliga a Roma”. Cassiodoro ci riferisce la versione invece della cancelleria ravennate, in una lettera di Teodorico che riporta le istruzioni del Re al Prefetto del Pretorio dell’Urbe: “Siamo stati informati dal Conte Arigern che la popolazione di Roma, infuriata per la punizione inflitta ad alcuni servitori cristiani che avevano ucciso i loro padroni ebrei, si è sollevata in rivolta e ha bruciato la loro sinagoga. La civiltà è la cifra caratteristica della Città di Roma, e deve essere confermata a tutti i costi. Cadere nelle follie del tumulto popolare e iniziare a bruciare la propria città non è degno del nome romano. Ti prego di indagare su questo argomento e punire severamente gli autori del tumulto, che probabilmente sono pochi. Allo stesso tempo, informati sulle lamentele che vengono avanzate contro gli ebrei, e se scopri che c’è fondamento nelle accuse, punisci di conseguenza”.
Eutaric era a Roma e seguì le istruzioni del suo Re: i responsabili delle persecuzioni antisemite furono trovati e puniti. A questo punto però, agli occhi dei più ardenti calcedoniani, sembrò che ebrei e ariani si stessero alleando contro di loro: d’altronde non aveva detto S. Ambrogio stesso che non era peccato bruciare le sinagoghe? Qualcosa doveva essersi rotto nel rapporto tra Teodorico e il senato, ma questi cercò di mettere immediatamente una pezza: i figli di Boezio, uno dei membri più in vista del senato, ebbero l’onore più unico che raro di essere nominati entrambi consoli del mondo romano per il 522, con l’accordo di Costantinopoli che non poteva certo opporsi ad onorare una di quelle famiglie che sperava attrarre verso di sé.
Le rivolte antisemite furono però un affare che sembra aver lasciato strascichi nella popolarità di Eutaric a Roma, visto che l’anonimo valesiano ha parole molto dure su di lui. Non che la cosa lo crucciò più di tanto, visto che nel 522 morì l’uomo che era stato designato al trono, nelle fonti non pare che si trattò di una morte violenta. Eutaric aveva solo 42 anni, lasciò sua moglie Amalasuintha e un giovane figlio, Atalaric. La marcia verso i cupi, ultimi anni del regno di Teodorico era iniziata.
La saga dei Nibelunghi (in Burgundia)
Quello stesso anno infatti Sigismund, il Re dei Burgundi, si macchiò di un orribile delitto: Sigismund era succeduto nel 516 a suo padre Gundobad. Il nuovo Re dei Burgundi aveva sposato una delle figlie di primo letto di Teodorico, Ostrogotha. Da lei aveva avuto un figlio che era l’erede al trono, il suo nome era Sigeric. Il ragazzo a quanto pare amava profondamente la madre e attraverso di lei aveva anche una profonda simpatia per Teodorico e l’Italia. Sigismund però, stretto tra la superpotenza franca e quella italiana, cercò l’alleanza con Costantinopoli ed è attestato che ci fu un carteggio con l’imperatore. Giustino arrivò a nominare Sigismund Patrizio e Magister Militum, il titolo del padre Gundobad e degli antichi generalissimi dell’occidente, un chiaro tentativo di tenere i suoi Burgundi allineati a Costantinopoli e distanti dalla Respublica di Teodorico. L’alleanza ebbe anche un terribile effetto sulle dinamiche familiari: Ostrogotho era morta e Sigismund si risposò. Presto ci furono dissapori tra la nuova famiglia del Re e il suo primo figlio ed erede e non molto tempo dopo Sigismund ordinò l’orribile delitto di mettere a morte suo figlio, il nipote di Teodorico.
Ora si può leggere tutti questi eventi come una saga familiare dal sapore nibelungo, ma io ci vedo anche una evidenza dell’esistenza nel regno dei Burgundi di una fazione pro-gotica e di una pro-imperiale, il rappresentante dei pro-gotici fu condannato a morte. Teodorico non poteva lasciare l’affronto della morte del nipote senza lavarlo nel sangue e iniziò a prepararsi per la guerra, affidando il comando delle truppe in Provenza al suo capace generale Tuluin. Al contempo nel regno dei Franchi la regina Clotilde riuscì a mettere d’accordo gli eredi di Clovis nel vendicare suo padre e al contempo espandere il regno dei Franchi: Clotilde era infatti cugina di Sigismund ma suo padre era stato fatto mettere a morte dal fratello Gundobad. Di nuovo, sangue chiama sangue. Nel 524 Il piccolo regno dei Burgundi fu invaso su due fronti: Sigismund chiaramente non aveva scampo, e infatti non lo ebbe: fu sconfitto, catturato e messo a morte con tutta la sua nuova famiglia. Teodorico riuscì quindi ad annettere una parte del regno dei Burgundi, sostanzialmente la moderna Savoia e il medio corso del Rodano. Teodorico era riuscito nuovamente rafforzato da una crisi ai suoi confini, non sarà il caso della prossima.

Crisi a Cartagine
Un anno prima della conclusione della guerra con i Burgundi, nel 523, un’altra disgrazia colpì la famiglia di Teodorico: Thrasamund, il Re dei Vandali che da anni era allineato con Ravenna, morì. A Cartagine rimaneva la sorella di Teodorico, Amalafrida, assieme a 5.000 soldati di guardia. Il nuovo Re era il cugino di Thrasamund, Hilderic. Hilderic era il nipote di Genseric, suo padre era Huneric che aveva regnato dopo Genseric e sua madre era Eudocia, la figlia di Valentiniano III, vi ricordate di lei, vero? Nelle sue vene scorreva quindi il sangue della dinastia valentiniano-teodosiana e Hilderic, a differenza di tutti i suoi predecessori, era o cattolico o decisamente filocattolico. Come nel caso della Lazica, questa sua tendenza religiosa si sposerà fin da subito con uno spostamento dell’allineamento politico del suo regno. Sotto Hilderic, Cartagine passerà da essere alleata con Ravenna ad allearsi con Costantinopoli: a sottolineare in modo spettacolare la rivoluzione politica avvenuta, Hilderic fece imprigionare Amalafrida e fece uccidere i soldati che la proteggevano. Da Regina la sorella di Teodorico era diventata un ostaggio. Non sappiamo quando avvenne, fu probabilmente intorno al 525, ma infine Hilderic decise di mettere a morte la sorella di Teodorico, all’apparenza incurante della reazione di Ravenna.
Ora, Hilderic fu tante cose, ma un Re sconsiderato non fu una di queste. Tutte le sue azioni paiono motivate dal desiderio di allineare il suo regno con Costantinopoli. Dubito fortemente che avrebbe preso una decisione talmente drastica senza l’avvallo e l’autorizzazione dell’eminenza grigia della politica estera di Nuova Roma, ovvero Giustiniano.
Cosa che mi porta ad analizzare quanto avvenuto negli ultimi due anni: i due regni satellite di Teodorico – i Burgundi e i Vandali – sono stati entrambi vittima di forti sommovimenti al vertice, segno di lotte di potere scatenate da partiti politici avversi, chiaramente le due parti paiono essere l’Italia di Teodorico e l’Impero di Nuova Roma. Mi pare altamente sospetto che queste convulsioni accaddero in contemporanea e proprio negli anni in cui Giustiniano prese le redini della politica estera dell’impero. Come vedremo nel caso della successione a Teodorico, abbiamo per gli anni seguenti chiarissimi indizi di una spregiudicata politica diplomatica volta ad indebolire i regni occidentali. Credo che non sia del tutto irragionevole pensare che le convulsioni nel regno dei Burgundi e in quello dei Vandali siano da ricondurre a manovre segrete di Giustiniano.
La flotta di Teodorico

La questione comunque non è tanto se Nuova Roma fosse dietro queste manovre, ma il fatto che Teodorico percepì chiaramente che così fosse: il sospetto che qualcuno volesse liberarsi di lui o quantomeno minare i suoi attenti piani di successione al regno si fece strada nella sua mente. D’altronde nel giro di pochi mesi era morto il suo erede al trono, l’uomo per il quale aveva cercato e trovato l’accordo con Costantinopoli, Il re dei Burgundi aveva assassinato suo nipote e aveva provato ad allearsi con Nuova Roma, il re dei Vandali ci era invece riuscito grazie alla protezione offertagli dal mare mediterraneo e dalla sua flotta, evidentemente si sentiva al riparo della vendetta di Teodorico.
La risposta di Teodorico non si fece attendere: una lettera fu inviata al Prefetto del Pretorio, con ordini precisi: “Per ispirazione divina abbiamo deciso di creare una flotta che garantirà i rifornimenti per l’Italia e, se necessario, combatterà le navi del nemico. Vostra eccellenza dia quindi indicazioni per la costruzione di 1.000 dromoni. Ovunque ci siano cipressi e pini vicino alla riva del mare, questi siano acquistati ad un prezzo adeguato.” In una lettera seguente afferma “Ora che abbiamo la nostra flotta, non è più possibile per i Greci di tramare contro di noi o per gli africani di insultarci. Con invidia vedono che ora abbiamo rubato loro il segreto della loro forza”, poi passa a dare ordini che la flotta fosse radunata a Ravenna per il 6 giugno dell’anno seguente, il 526, indubbiamente con il compito di essere inviata in una spedizione punitiva contro Cartagine.
Da notare come mille dromoni è davvero una grande flotta, soprattutto se la paragoniamo con la flotta di Maggiorano, forte di appena trecento navi, neanche tutte dromoni da combattimento. Ai tempi di Maggiorano questo sforzo militare aveva quasi esausto del tutto la penisola, mentre non ci sono segnali di alcuna crisi economica o finanziaria dopo questo sforzo bellico. Un altro indizio della forte ripresa economica dell’Italia sotto prima Odoacre e poi Teodorico. La flotta aveva le dimensioni per non essere fermata dai Vandali, forse neppure da Vandali e imperiali alleati: non salperà mai alla volta di Cartagine.
L’intervento del Senato nella crisi dinastica
Ma torniamo ad un paio di anni prima, al 523: Eutaric è morto, la guerra in Burgundia sta per scoppiare e Amalafrida è stata da poco presa prigioniera dei Vandali. Il Re era anziano e ora gli mancava un chiaro erede, c’era il forte rischio di una guerra civile o di un intervento di Costantinopoli. Nella leadership senatoriale deve allora essersi formata una fazione decisa ad intervenire nella successione al trono, d’altronde non era stato lo stesso Teodorico a rivolgersi al Senato come “il conquistatore del mondo, il difensore e il rinnovatore della libertà repubblicana, il senato della città di Roma”? Non era anche loro il compito di cercare una soluzione ordinata alla crisi dinastica? Non sappiamo cosa avvenne precisamente ma è assai probabile che il senatore Albino, per conto del Senato, inviò una lettera all’Imperatore chiedendo di intervenire nella successione in Italia. La corrispondenza non era stata autorizzata da Teodorico o dal suo comitatus, uno dei romani al servizio di Ravenna però ne venne a conoscenza. Si trattava del già citato Cipriano, il senatore che era stato anche un generale dell’esercito d’Italia, una delle citate eccezioni alla regola. Cipriano portò la lettera all’attenzione di Teodorico. Questi convocò il concistorio, l’organo della corte di Ravenna predisposto agli affari dei cittadini romani e intitolato anche a giudicarli. Albino fu accusato di alto tradimento, a questo punto intervenne in sua difesa il nuovo Magister Officiorum, il nostro filosofo Boezio. La sua linea difensiva fu quella di Craxi ai tempi di mani pulite, ed ebbe ahimè lo stesso successo.
“Principe, le accuse mosse da Cipriano sono false, se Albino ha fatto qualcosa di riprovevole, allora anche io sono responsabile e con me l’intero senato”.
Boezio intendeva con questo discolpare Albino: come poteva il suo principe ritenere l’intero Senato romano colpevole di tradimento? Il senato era lo stato. Boezio ahimè aveva però appena testato fino al suo possibile limite la civilitas e tolleranza di Teodorico, che era pur sempre l’uomo che aveva fatto uccidere Odoacre a cena.
All’improvviso l’ira di Teodorico si spostò su Boezio. Furono avanzate delle nuove accuse fondate su sue lettere, forse falsificate, nelle quali Boezio avrebbe sostenuto la necessità di «restaurare la libertà di Roma», libertà dal suo sovrano, si intende. Boezio fu allora sostituito nella sua carica da Cassiodoro e, nel settembre 524, fu incarcerato a Pavia. Qui ebbe inizio la composizione della sua opera più nota, il De consolatione philosophiae, uno dei capolavori della filosofia di ogni tempo e un’opera che ha avuto una immensa influenza sul medioevo.
Le consolazioni della filosofia

All’inizio l’autore immagina di essere consolato dalla Filosofia, impersonata da una donna bellissima e austera. Guidato dalla sua Maestra, Boezio si interroga sull’esistenza del male e sulla sua natura, sulla fortuna, sulla felicità e sul libero arbitrio. Perché il giusto soffre, si chiede Boezio, mentre il peccatore trionfa? Perché i grandi filosofi del passato come Socrate e Seneca sono stati uccisi, mentre i tiranni paiono prosperare? Boezio arriva alla conclusione che il successo dei malvagi è solo esteriore, mentre interiormente sono consumati dall’infelicità. In questo senso è la stessa malvagità la loro punizione. Ovviamente ci sono molti altri temi svolti nell’opera, che ho appena riletto tutta d’un fiato: poesie e pensieri sono inframezzati in un testo che non può che muovere, far riflettere, emozionare. Ve ne leggo solo un passo, per darvi un’idea del suo contenuto, Boezio si rivolge alla Filosofia, mostrandogli l’orrore della sua cella:
“Non ti dice nulla l’aspetto di questo luogo? È questa forse la biblioteca che tu ti eri scelta come stabile dimora nella mia casa, biblioteca in cui tu discutevi spesso con me dei problemi umani e divini? Era questo forse il mio aspetto, quando indagavo con te i segreti della natura, quando tu con un compasso mi disegnavi le orbite delle stelle, quando tu guidavi l’intero tenore della mia esistenza secondo l’ordine celeste? Sono queste le ricompense che io raccolgo da esserti devoto? Eppure, sei tu che hai declamato per bocca di Platone che saranno felici gli stati se a governarli saranno i filosofi! Per bocca dello stesso filosofo, tu affermasti che il motivo fondamentale per il quale i filosofi debbono prendere le redini dello stato è per impedire che il governo della cosa pubblica sia abbandonato nelle mani di uomini malvagi e scellerati. Io, dunque, attenendomi a questo autorevole insegnamento, mi sforzai di tradurre nella pratica della pubblica amministrazione ciò che avevo appreso nei miei studi solitari”. Tra parentesi, ho il forte dubbio che questo passo inspirò la famosa poesia “a silvia” di quello sgobbone nerd di Leopardi: ci ritrovo gli stessi passaggi retorici.
Boezio fu giudicato a Roma da un collegio di cinque senatori, estratti a sorte, presieduto dal praefectus urbi Eusebio. Nell’estate del 525 arrivò la condanna a morte che fu ratificata da Teodorico e notificata a Boezio. L’esecuzione dell’ultimo grande filosofo dell’antichità occidentale ebbe luogo sempre a Pavia e le sue spoglie, venerate come quelle di un martire, giacciono nella stessa città, presso la chiesa di San Pietro in ciel d’oro, la stessa che ospita le spoglie di S. Agostino.
Più di un crimine, un errore

La morte di Boezio e Simmaco è stata con il tempo ingigantita dalla propaganda di Costantinopoli, quasi a trasformare l’ultimo anno di Teodorico nel suo intero regno, che invece ebbe un convinto ed entusiastico sostegno da parte degli italo-romani. Storici passati – come Momigliano – ci hanno visto una divisione tra una fazione pro-gotica e pro-romana nell’opinione pubblica italiana, con quella pro-romana decisamente maggioritaria. Tutti gli storici contemporanei che ho letto però sono di completamente diverso avviso. Prima della morte di Eutaric e dell’inizio della difficile transizione verso la successione nel regno non abbiamo alcun segno di dissenso. Boezio stesso era un ufficiale della corte di Teodorico, i suoi figli avevano avuto l’incredibile onore del consolato congiunto l’anno prima dell’inizio dell’affaire. Tutto sembra più facilmente spiegabile con il senso di accerchiamento di un Re che aveva sotto gli innumerevoli strati di buongoverno e temperanza una vena feroce, quello stesso Re che ha visto morire il suo erede designato e crollare il suo sistema di alleanze a nord e a sud, con il forte sospetto che ci fosse dietro una oscura regia politica a manovrare i tanti fili che parevano voler strangolare il suo regno. Boezio e Simmaco finirono intrappolati nella paranoia di Teodorico, posto che si trattasse di paranoia.

L’esecuzione di Boezio e poi a stretto giro di posta di suo suocero Simmaco fu più di un crimine, fu un errore. Teodorico aveva voluto inviare un messaggio forte e chiaro al senato: non intromettetevi nei miei piani di successione al trono e non abusate della vostra indipendenza intrattenendo rapporti passabili di tradimento con i miei nemici a Nuova Roma. Il Senato comprese il messaggio, ma molti pensarono che la maschera del barbaro fosse caduta dal viso del sempre compassato Teodorico. A Nuova Roma, Giustino e Giustiniano colsero al balzo l’occasione per allargare ancora di più la forbice tra i sudditi italiani e la leadership ostrogota: occorreva evidenziare l’ovvio, soprattutto ora che Roma e Costantinopoli erano di nuovo nella comunione ortodossa calcedoniana. Era Teodorico ad essere ariano, erano i suoi Goti ad essere degli eretici condannati non solo da Calcedonia, ma dal primo concilio ecumenico della chiesa romana.
La propaganda di Costantinopoli

Giustino fece quindi esattamente quello che avrebbe potuto allo stesso tempo irritare Teodorico senza smuovere la maggior parte dei suoi sudditi italiani: ovvero perseguitare gli ariani. Emise un editto per espellere da alcun ruolo politico gli ariani rimasti in oriente – soprattutto Goti – e diede ordine di confiscare le proprietà accumulate dalle chiese ariane, di cui ce ne erano ancora molte nella capitale, al servizio della popolazione di foederati germanici dell’impero. Giustino iniziò anche una robusta politica di conversione, in modo da portare quanti più possibile tra gli ariani alla fede nicena.
Nell’Agosto del 523 era morto Hormisdas, il Papa che era stato molto vicino a Teodorico. Al suo posto era stato fatto Papa il primo Giovanni della storia, come sappiamo il primo di una lunghissima lista visto che siamo arrivati nel ventesimo secolo al ventitreesimo Giovanni. Papa Giovanni non aveva il rapporto amichevole con Teodorico di Hormisdas, sembra che il Re lo sospettasse di essere anche lui una quinta colonna costantinopolitana. Teodorico fece sapere a Giovanni che doveva preparare le valigie per un lungo viaggio. Un viaggio? Mi sembra di sentir dire con la voce rotta per la sorpresa l’anziano Papa al messaggero che gli riferì la volontà del Re: i Papi, si sa, non viaggiano quasi mai. “Sua maestà il principe vuole che andiate a Costantinopoli, per perorare la causa della libertà religiosa in oriente, come questa è garantita per voi cattolici qui in occidente”. L’editto di Giustino deve avere supremamente irritato Teodorico, e questo al di là del disprezzo per le persecuzioni della sua fede da parte dei calcedoniani. Da un punto di vista legale lui era un ufficiale della Respublica Romana, l’Imperatore era l’unico che potesse legiferare per tutto l’Impero. Se l’Imperatore rendeva illegale per gli ariani di mantenere una qualunque carica statale, anche lui era per certi versi un regnante illegale. Di nuovo, poteva essere il grimaldello che Nuova Roma avrebbe utilizzato per impedire una ordinata successione verso il suo erede, che oramai Teodorico aveva scelto: sarebbe stato suo nipote Atalaric, con la madre Amalasuintha come reggente per suo conto.
In questo quadro era indispensabile annullare le leggi antiariane di Giustino, e chi meglio per farlo del capo della chiesa cristiana ortodossa vero la quale l’Imperatore sosteneva di essere tanto devoto? Ad Anastasio Dicoro non sarebbe importato nulla della visita del Papa, ma Giustino non era Anastasio. Papa Giovanni provò a resistere agli ordini del Re: era anziano e di salute fragile, sicuramente dei senatori o altri membri del clero potevano svolgere l’ambasciata, ma Teodorico rimase inamovibile. Era un segno dell’importanza del papato che Teodorico scegliesse il Papa per questa delicata missione, era anche un segno della fragilità della posizione dei Papi che Giovanni non poté dire di no. Ho il sospetto che non sarà l’ultimo Papa del secolo ad imbarcarsi verso un triste viaggio verso Costantinopoli.
Il Papa a Costantinopoli
Quando la notizia che il Papa era in viaggio verso Nuova Roma giunse nella capitale il popolo non poté credere alle sue orecchie: il fatto è che nessun Papa era mai venuto a Costantinopoli. L’imperatore, gli ufficiali e il popolo incontrarono il Papa al dodicesimo miglio fuori della capitale, un onore di solito riservato agli imperatori. Una grande processione guidò poi il Papa verso la più grande città del mondo mediterraneo.
La missione di Giovanni, nel complesso, sembrò andare per il verso giusto: Giustino e Giustiniano compresero che era più importante mostrare le loro credenziali di ortodossia all’opinione pubblica italiana, facendo atto di formale sottomissione ai voleri del Papa, di continuare a pressare nella persecuzione degli ariani. Vedete, sembravano dire, noi rispettiamo il Papa, noi siamo Romani, non come il vostro Re ariano. L’unico punto sul quale l’Imperatore non cedette fu di permettere ai convertiti al cattolicesimo di tornare all’arianesimo, non che il Papa si impegnasse troppo a riguardo.
Finite le trattative tutta Costantinopoli decise di partecipare ad una grande celebrazione: era il tempo di Pasqua e il Papa celebrò messa nella grande cattedrale di Hagia Sophia, in Latino, una prima assoluta per un Papa visitante un altro patriarcato. Seduto su un trono ancora più in alto di quello di Giustino, il Papa incoronò l’imperatore con la corona pasquale, in un atto simbolico la cui importanza non sfuggì a nessuno. L’imperatore e la chiesa romana sembravano non essere mai stati così vicini.
Coperto di onori e di gloria, Papa Giovanni riprese il mare e giunse a fine aprile a Ravenna, in modo da conferire direttamente con il Re, pronto ad illustrare il successo della sua missione diplomatica. Teodorico non era però dell’umore adatto per sentirsi dire quanto felice fosse stato l’Imperatore di ricevere il Papa. Teodorico aveva nel frattempo ricevuto notizie da Costantinopoli della gloriosa ricezione di Papa Giovanni e di quanto fossero stati amichevoli i rapporti con l’imperatore. Sempre più convinto che si stesse formando una cospirazione per eliminare lui o i suoi discendenti dalla successione, Teodorico finì per esplodere in uno dei suoi epici attacchi di furia, quando il suo carattere aveva meglio del suo autocontrollo. Giovanni fu gettato in una segreta, forse perfino privato di nutrimenti, anche se credo che a finire il fragile e anziano prelato furono semplicemente le durezze del carcere in una città umida come Ravenna.

La morte di Teodorico
Giovanni I morì dunque in carcere, mentre a Ravenna si radunava la flotta per la missione in Africa e mentre la salute di Teodorico peggiorava. Giugno arrivò, e nessuna spedizione partì: il Re era malato e il 30 agosto del 526, dopo trentacinque anni di regno in Italia e 56 anni di regno dei Goti, Thiudereiks, il giovane principe degli Amali che si era fatto Teodorico il grande, spirò. Ecco come riferisce l’evento l’anonimo valesiano: “Ma Dio non consente ai suoi fedeli di essere oppresso dai non credenti e presto impose a Teodorico la stessa punizione che aveva sofferto Ario, il fondatore della sua religione; il re fu preso da diarrea e dopo tre giorni di viscere aperte perse sia il suo trono che la sua vita”. Il male che non permette alle viscere di restare ferme e che oggi per noi è una semplice seccatura allora poteva ed era spesso mortale ed era considerata una chiara forma di punizione divina. Alla fine il Re ariano aveva mostrato il suo vero volto, difendendo gli ebrei prima, poi condannando due illustri senatori e infine arrivando a mettere a morte il Papa. Chiaramente, per i cristiani ortodossi, si trattò di una punizione divina.
La modificata opinione dei Romani riguardo a Teodorico e l’intera avventura dello stato goto-italiano è dimostrata in modo plastico dall’anonimo valesiano, questo testo che ho più volte citato di un cronista anonimo e che è nettamente diviso in due parti, a prima vista schizofreniche. La prima parte, fino al 520 circa, è piena di elogi per il Re d’Italia, la seconda parte è un susseguirsi di maledizioni per il Re ariano. Spesso la fine di un regno ne influenza in modo determinante la narrativa, Teodorico ebbe anche la sfortuna, non del tutto immeritata come vedremo, di avere il suo regno obliterato dalla guerra contro Costantinopoli. Giustiniano vorrà cancellare per quanto possibile il ricordo dei tanti anni di pace e prosperità che gli italiani vissero sotto Teodorico, anche se non ci riuscirà del tutto. Gli scrittori cristiani dei secoli seguenti furono sempre inorriditi della vicenda di Papa Giovanni, per non parlare della fede ariana del Re, fede che Teodorico non aveva imposto ai suoi sudditi, imponendo però alla chiesa italiana la tolleranza degli altri credi e anche degli ebrei, dei grandi sostenitori della causa gotica anche in futuro, come vedremo. Infine la sua immagine fu rovinata anche dall’uccisione di Boezio, non solo un importante senatore ma anche forse il più grande uomo di cultura del tempo: Boezio riuscirà ad assassinare la figura di Teodorico in un modo assai più duraturo di quanto il Re avesse fatto con lui.
Eppure non dobbiamo cadere nella stessa trappola: gli anni tra il 522 e il 526 furono davvero oscuri per Teodorico, ma non possono annullare un lungo regno pacifico e di successo, durante il quale a lungo i Romani pensarono di aver rivisto nascere il loro Impero. Mettendo a frutto quello che restava dello stato romano e della passata floridezza dell’economia italiana, Teodorico era riuscito a costruire un sistema davvero imperiale che però si basava moltissimo sulle sue personali capacità. Il suo sogno era stato di costruire una nazione duale, in cui italiani e goti potessero convivere senza confondersi e senza diluire la propria identità originale, ma rafforzandosi a vicenda. Questo sogno si era prima sfilacciato e poi era stato spazzato via da una serie di disgrazie che paiono aver agito sulla stessa psiche e tranquillità del Re: se davvero Giustiniano fu dietro buona parte di questi eventi, fu un capolavoro di destabilizzazione politica di un impero rivale.
Il principe dei Maeringi

Forse il modo migliore di valutare Teodorico è di paragonarlo all’altro grande condottiero e statista dell’epoca, Clovis: questi non cercò di mantenere viva la romanità, ma puntò tutto sulla fusione di Franchi e Romani in un’unica nazione. Nel breve termine, il risultato di Teodorico parve più impressionante, più imperiale, ma nel lungo termine lo stato degli eredi di Clovis si mostrerà molto più duraturo e di successo.
Mi sento però di essere andato un po’ oltre, forse non dovremmo essere così duri con Teodorico: questi era il frutto della prima generazione dei Goti venuti in Italia, pur avendo passato i suoi anni formativi a Costantinopoli, l’Italia era stata una nazione acquisita per lui. Era troppo chiedere a Teodorico di rinunciare alla propria fede, all’identità etnica del suo popolo e se ci avesse provato magari la sua testa sarebbe finita su una picca gotica. Già la seconda generazione di principi Amali in Italia sarà assai più integrata con la romanità, forse anche troppo per alcuni principi tra i Goti. È pensabile immaginare che la terza o la quarta generazione avrebbe convertito i Goti al cattolicesimo, come avvenne ai Visigoti in Spagna o tra qualche tempo anche ai Longobardi. Non lo sapremo mai, perché il Regno degli Amali non arriverà mai alla terza generazione, mentre i discendenti di Clovis, i Merovingi, continueranno a dominare l’occidente ex romano fino all’ottavo secolo, mentre lo stato dei Franchi continuerà bene oltre, nelle mani della nuova dinastia dei Carolingi, finendo per diventare il principale mattone della nuova Europa occidentale, anche se va detto che però fu più facile ai discendenti di Clovis di mantenere la loro indipendenza, essendo così lontani dalla longa manus di Costantinopoli.
Teodorico merita a mio avviso comunque di essere chiamato “il grande”, come merita di essere ricordato come l’ultimo che è riuscito a dominare l’occidente avendo come base l’Italia: può sembrare naturale, l’Italia era stata il cuore dell’occidente per tutti i settecento anni seguenti alla sconfitta di Cartagine nella seconda guerra punica, eppure il cupio dissolvi del quinto secolo ci dovrebbe far credere il contrario: già ai tempi di Odoacre era chiaro che Tolosa era più importante di Ravenna, la battaglia di Vouillè avrebbe semplicemente spostato direttamente lo scettro verso i Franchi di Clovis, invece Teodorico si inserì e costruì l’ultima, trionfante stagione dell’Impero Romano d’Occidente, anche se in definitiva di breve durata. Vorrei qui citare le parole di uno storico che avrebbe potuto infangarne il nome, avendo lui stesso, in piccolo, contribuito ad abbatterne il grande edificio: parlo ovviamente di Procopio, il segretario di Belisario che seguì il suo generale nella guerra d’Italia. Ecco cosa scrive Procopio: “Se pure Teodorico, in apparenza, fu un usurpatore in realtà fu un vero sovrano, non inferiore a chiunque altro si sia più nobilmente distinto in tale carica. Perciò crebbe sempre di più tra i Goti e gli Italiani l’affetto per lui, cosa assai rara tra le abitudini umane. Perché in qualsiasi stato sempre i cittadini vogliono gli uni una cosa, gli altri un’altra. Invece Teodorico, che regnò trentasette anni, quando morì era non solo divenuto temibile per tutti i nemici ma lasciò un grande rimpianto di sé tra i suoi sudditi”.
La grande tempesta che si sta accumulando in oriente spazzerà via la centralità dell’Italia nell’occidente, spostando il cuore imperiale dell’occidente verso l’Europa renana, e questo per sempre.
Nonostante i suoi ultimi, cupi giorni, tutta Ravenna pianse il suo anziano Re: le sue ultime parole erano state tutte per proteggere sua figlia, Amalasunta, nominandola ufficialmente reggente per conto del piccolo Atalarico, il figlio che aveva avuto da Eutaric, e che aveva dieci anni. Il Re fu tumulato nel suo grande, impressionante mausoleo che il Re aveva pensato per sé e la sua famiglia, quasi certamente con in mente il grande mausoleo imperiale di Costantinopoli, presso la chiesa degli Apostoli. Anche nella morte Teodorico volle simboleggiare il suo grande progetto di vita, la costruzione di una nuova nazione per Goti e Romani. Il mausoleo è rocambolescamente sopravvissuto fino ai nostri giorni, l’unica sepoltura di un Re occidentale dell’alto medioevo ad esserci giunta. Il mausoleo di per sé è una costruzione tipicamente romana ma quello di Teodorico è unico, soprattutto rispetto all’architettura del suo tempo: è costruito con grandi blocchi di pietra d’Istria, assemblati a formare una pianta decagonale su due piani, il più alto decorato con motivi tipici dell’oreficeria gotica. È un monumento di un’austera e magnifica bellezza, le foto davvero non gli rendono giustizia. Ma l’elemento che lascia senza fiato è l’immenso monolite utilizzato per sormontare l’edificio, del diametro di 11 metri e del peso di circa 300 tonnellate. Fatto trasportare via nave dall’Istria, non è chiaro ancora oggi come sia stato possibile con la tecnologia del tempo di porlo in posizione. All’interno del mausoleo venne posto il sarcofago del Re, nel rosso porpora utilizzato solo dagli imperatori romani. Quando Giustiniano conquisterà Ravenna il mausoleo verrà donato alla chiesa ravennate, i resti del grande Re saranno rimossi e dispersi, il sarcofago spostato dalla sua posizione originale, dove è tornato solo nel 1913.
Attorno alla morte di Teodorico si sono sviluppate una serie di leggende nere, anche: una vuol che Teodorico fosse terrorizzato dai fulmini da quando un’oscura profezia gli aveva predetto che uno gli avrebbe dato la morte, fece allora ostruire il suo Mausoleo proprio per ripararsi durante i temporali. Ma la grande cupola monolitica in pietra d’Istria non bastò a proteggerlo dal suo destino e, un giorno, un fulmine la crepò arrivando a colpire il re dei Goti. Procopio ne narra un’altra: poco dopo l’esecuzione di Boezio e Simmaco, a Teodorico fu servito un pesce di sproporzionate dimensioni nella cui testa gli parve di vedere il teschio di Simmaco che lo fissava minaccioso. Sconvolto da ciò, Teodorico si sarebbe ammalato e sarebbe morto poco dopo in preda ad allucinazioni e rimorsi. Un’altra leggenda post mortem di Boezio narra che un cavallo nero si presentò da Teodorico, che volle a forza montarlo. Il cavallo, insensibile alle redini, iniziò a correre con il cavaliere incollato alla sella, finché arrivò al Vesuvio, nel cratere del quale rovesciò Teodorico. Da allora, in notti tempestose, a Ravenna si possono sentire gli zoccoli del cavallo del Re e del suo fantasma in groppa.
La leggenda di Teodorico come potete vedere non morì con lui: nell’Europa germanica divenne Dietrich von Bern, un Re che governa l’Italia da Verona e combatte il suo arcinemico Odoacre, oltre che draghi, nani, giganti e ovviamente l’eroe Sigfrido. È la saga di un Re costretto all’esilio, forse il frutto di quei Goti che si sparsero nell’Europa germanica, cantando le gesta del loro perduto Re.

Eppure, nelle mie ricerche la più commovente citazione di Teodorico viene da lontano, lontanissimo. Teodorico aveva fatto realizzare una meravigliosa statua in bronzo di sé stesso, fusa con la tecnica della cera persa di cui fu uno degli ultimi esempi in occidente, forse l’ultimo: lo ritraeva a cavallo, con uno scudo appeso alla spalla sinistra e la mano destra tesa con una lancia in mano. La statua era troppo bella per essere distrutta dai soldati di Giustiniano e fu mantenuta a Ravenna, fino a quando questa fu conquistata da Carlomagno. Il nuovo imperatore dei romani non poté resistere dal trasportare la statua nella sua capitale di Aachen, assieme a diverse colonne del palazzo imperiale di Teodorico. Dei visitatori del grande nord debbono esserne rimasti ammirati, perché tornati nella loro originaria Svezia iscrissero su una pietra runica un poema dedicato alla statua. Si tratta per inciso del primo esemplare di letteratura scritta della Svezia. Nella poesia ci sono due termini che non ho tradotto: hreiomarar è il mediterraneo, mentre Maeringi è nominata anche in altri poemi antichi inglesi, e in quel caso si riferisce chiaramente agli abitanti di Ravenna, la capitale del regno di Teodorico. La poesia recita:
Réð Þjóðríkr
hinn þormóði,
stillir flotna, strǫndu Hreiðmarar.
Sitr nú gǫrr
á gota sínum,
skildi umb fatlaðr,
skati Mæringa.
Teodorico il grande,
capo dei guerrieri del mare,
governò le coste del Hreiðmarar.
Ora siede armato
sul suo cavallo Gotico,
il suo scudo allacciato,
il principe dei Mæringi.
Grazie mille per l’ascolto, e alla prossima puntata.
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