Domande sul quinto secolo – Episodio 51 speciale – testo completo

Come d’abitudine pubblico il testo completo dell’Episodio 51, con molte interessanti domande su aspetti non coperti prima dal podcast: dal calendario al sesso, dal rapporto tra Impero e Papato all’ebraismo nell’Impero Romano cristianizzato.

E così siamo arrivati alle vostre domande sul quinto secolo dopo cristo, un secolo che ci ha portato dalla morte di Teodosio il forse-grande fino alla vittoria di Teodorico su Odoacre. Spesso mi sento dire che i secoli recenti, la storia moderna, sono più densi di avvenimenti di quelli antichi. Questo è in parte vero: ci sono più stati, più attori politici e abbiamo una storia davvero globale e non regionale, come nell’antichità. Si può parlare della storia del mediterraneo senza praticamente citare mai la Cina, oggi non sarebbe più possibile.

Eppure guardate in cento anni quanto è cambiato il mediterraneo: quanti avvenimenti si sono affastellati l’uno sull’altro: Stilicone e Alaric, Attila ed Ezio, Genseric e Maggiorano, Antemio e Ricimer, Odoacre e Teodorico. Per quanto mi riguarda è stato davvero difficile narrare il decennio abbondante tra il 449 e il 461, un decennio così ricco di avvenimenti da risultare in un numero senza precedenti di episodi di Storia d’Italia. Se si ha cura di cercare di ricostruire il passato, si nota come ogni anno della vita di chi ci ha preceduto può essere altrettanto dirompente di un anno moderno.

Questo mi porta alle vostre domande: non ho l’ambizione si riuscire a coprire ogni argomento, rispondere ad ogni dubbio. Questo spazio è dedicato a voi, in modo da trovare sempre nuovi spunti per riempire e colorare un mondo lontano, eppure così vicino. Ho cercato di rispondere a tutti ma non ci sono riuscito: se non lo ho fatto, non temete! La vostra domanda è registrata per poter avere risposta in un futuro spero non troppo lontano. E ora, a voi!

Per ascoltare il podcast cliccate in alto!

Alberto Venezia mi ha posto la prima domanda, molto interessante. Mi chiede Alberto, quando i Romani hanno iniziato a contare gli anni dalla nascita di Cristo? Alberto dice “Immagino che Costantino non si considerasse ancora un uomo del 300”

No corretto, i Romani continuarono a identificare gli anni con il nome dei consoli dell’anno, come tradizione antichissima derivante dalla Repubblica. Il 484 fu quindi l’anno del consolato di Flavio Teodorico e Decio Mario Venanzio Basilio. Trovo interessante notare come questa tradizione fu mantenuta durante l’impero, gli imperatori non pensarono mai di contare gli anni in base al loro regno, come faranno i Re altomedievali. Certo, molti dei consolati erano ricoperti dagli imperatori, ma questo lasciava comunque uno spazio importante ad altri uomini, associati in importanza almeno formale a quella dei loro imperatori. I consoli entravano formalmente in carica il 1° gennaio e continuarono a celebrare l’evento e il nuovo anno con dei grandi e dispendiosi giochi in loro onore. La carica ovviamente non aveva più alcun potere pratico ma continuò ad essere l’onore massimo per ogni Romano e il coronamento della carriera di chiunque non ambisse al trono imperiale. L’uso della datazione consolare ebbe termine quando l’imperatore Giustiniano interruppe la nomina dei consoli, come vedremo questo avverrà a metà del VI secolo. Giustiniano impose l’uso della datazione basata sull’anno di regno dell’imperatore. Durante l’alto medioevo anche il papato seguiva la datazione in base all’anno imperiale anche perché come vedremo la Santa Sede sarà sottomessa a Bisanzio per molti secoli.

In oriente però, nel quarto secolo, aveva preso piede anche una datazione alternativa: molti cristiani contavano gli anni a partire dal primo anno del regno di Diocleziano, un imperatore fondamentale per il passaggio dall’antichità classica a quella tarda. Questo calendario era detto “era dei martiri”. Diocleziano era stato inaugurato nel 284 e quindi il 400 era l’anno 116. Questo è il sistema che è ancora utilizzato dalla chiesa Copta. In Iberia veniva utilizzato un altro calendario, basato sul 38 avanti cristo, l’anno in cui Augusto pacificò l’Iberia dopo secoli di guerre: questo calendario era detto “era ispanica” e fu utilizzato dall’Iberia romana e poi Visigota fino al periodo della riconquista, venendo progressivamente abbandonato tra il dodicesimo e il quindicesimo secolo.

Ti chiederai Alberto, tutto ciò è interessante, ma allora quando si iniziò a contare gli anni come facciamo oggi? La risposta è che fu un processo che prese piede piuttosto tardi. Fu un monaco romano-orientale a inventare il calendario “annus domini”, cioè gli anni del signore. Lo fece perché riteneva che non si dovesse esaltare l’immagine di Diocleziano, il grande persecutore dei cristiani. Il monaco si chiamava Dionysius Exiguus, o Dionigi il piccolo e il suo sistema fu ideato nel 525 dopo cristo. Una curiosità che non molti sanno è che non è mai esistito nel computo di Dionigi un anno “zero”, quindi si passa direttamente dal 31 dicembre dell’1 avanti cristo al 1° gennaio dell’1 dopo cristo.

Nonostante la sua invenzione nel sesto secolo, il calendario “annus domini” non fu utilizzato che sporadicamente per molti secoli. Fu popolarizzato dallo scrittore anglosassone Beda il bardo, attivo nell’ottavo secolo, che lo usò per le sue cronache. Grazie all’influenza di uomini di cultura provenienti dalla Britannia, nella seconda parte dell’ottavo secolo si affermò alla corte di Carlo Magno che lo impose in tutto il suo vasto e nebuloso impero come il computo ufficiale degli anni, diffondendolo in tutta l’Europa occidentale e da lì al mondo intero.https://youtu.be/JOfs1iQAeHs

La seconda domanda è di Anna Mattei, grazie Anna anche per il supporto su Patreon! Anna mi chiede quale fu l’evoluzione del rapporto tra Papato Romano e Patriarcato Costantinopolitano nel quinto secolo. Poi, per rendere la domanda un po’ più complessa di quanto lo fosse già, chiede anche il rapporto con il potere civile.

Potete anche ascoltare l’episodio su YouTube!

È difficile per noi moderni immaginare un papato con poteri diversi da quelli moderni, o perfino da quelli medioevali, ma occorre farlo. Il papato non era visto nel quarto e nel quinto secolo come la guida del cristianesimo. La chiesa originale era una collezione di comunità guidate dai loro vescovi, alcuni vescovi acquisendo una rilevanza speciale in quanto sedi apostoliche: e no, Roma non era la sola sede apostolica, ovvero fondata da un apostolo. Erano considerate tali anche Antiochia, Gerusalemme e Alessandria, il vescovo di Alessandria essendo lui stesso chiamato papa. Da quando la chiesa fu istituzionalizzata da Costantino le decisioni più importanti vennero prese dai concili dei vescovi riuniti, mentre nel quotidiano furono i patriarchi a governare la chiesa, spesso con mutevoli alleanze tra loro che ho riportato nel podcast. Nessun patriarca, neanche Roma, dominava completamente sugli altri.

In questo quadro si era però inserita nel quarto secolo la città di Costantinopoli, il nuovo ragazzino arrivato nel quartiere. Costantinopoli non aveva nessuna discendenza apostolica, nessuna grande tradizione ecclesiastica. Eppure il potere gravitazionale di essere il vescovato della capitale dell’Impero si fece sentire da subito. Costantinopoli fu spesso dominata da vescovi ariani durante il quarto secolo, in contrapposizione con l’ortodossia nicena difesa da Alessandria e Roma. L’impero di Teodosio fu il punto di svolta: con il concilio di Costantinopoli si affermò definitivamente l’ortodossia nicena e in contemporanea i vescovi di Costantinopoli accrebbero enormemente il loro potere. Costantinopoli fu riconosciuta superiore ai patriarcati di Alessandria e Antiochia – in linea con la dominanza politica di Nuova Roma su tutto l’oriente – mentre Roma fu trattata da modesto superiore.

Questo quadro andò modificandosi durante il quinto secolo, il potere di Roma e dell’occidente continuò a declinare e il prestigio e il potere di Nuova Roma a crescere. Roma e Costantinopoli furono alleate al concilio di Calcedonia che sconfisse il monofisismo propugnato da Alessandria. Questa alleanza de facto durò da metà quinto secolo fino ai tempi di Zenone e dell’Henotikon, il primo caso di scisma tra Costantinopoli e Roma. I vescovi sul bosforo preferirono l’unità e la riconciliazione con i monofisiti di Antiochia e Alessandria all’unione con Roma. Zenone e Anastasio mantennero lo scisma che verrà riassorbito solamente con l’arrivo sul trono di Giustino e Giustiniano, due imperatori latinofoni, vicini alla posizione papale anche per vicinanza culturale.

Quanto al rapporto tra il papato e il potere civile, questo è più facilmente spiegabile: nel quinto secolo il vescovo di Roma aveva una autorità importante sugli altri vescovi occidentali, anche se certamente non assoluta come oggi. Sul campo del potere civile il papato non aveva un grande ruolo politico, non al di là del ruolo che può avere oggi un importante vescovo di una città italiana. Certamente oggi il vescovo di Milano, ad esempio, è una figura pubblica, certamente quello che dice ha un peso, ma la cosa finiva lì, o quasi. Ai legalisti romani era chiaro che l’autorità suprema era quella del governo imperiale, cosa che si estese al dominio di Odoacre e al regno di Teodorico, due regnanti che non si fecero alcun problema ad affermare la loro autorità sul papato. Alcuni Papi del quinto secolo si ergono al di sopra degli altri, penso a Leone I, ma avrete notato che la loro influenza sugli eventi del secolo è ancora limitata: il loro tempo verrà, ma non ancora.

Shado Moon mi fa una domanda interessantissima che meriterebbe ben altro spazio: mi chiede quale fosse la condizione degli ebrei nel quinto secolo. Grazie Shado anche del supporto su Patreon!

Non ho il tempo oggi di approfondire questa domanda nel dettaglio, come forse si meriterebbe. Quindi la mia risposta sarà necessariamente stringata. Una necessaria premessa: gli ebrei erano presenti in quasi tutto il bacino mediterraneo già prima della distruzione del tempio di Gerusalemme da parte delle legioni di Tito. Comunità ebraiche sono attestate in tutto l’oriente romano e in buona parte dell’occidente. Prima della rivolta sotto Traiano e Adriano, gli ebrei erano probabilmente una minoranza importante nell’impero e come tali erano trattati, le stime parlano di tra 2 e 4 milioni di ebrei, su una popolazione totale di poco più di 60 milioni di abitanti

Durante l’alto impero gli ebrei avevano una serie di dispense che non li obbligavano al servizio militare o li esoneravano da lavorare durante la festa del sabato., spesso diviso in moltissime sette. Tra queste sette ci sono molti nomi che conosciamo dal nuovo testamento: farisei, zeloti, samaritani, sadducei, esseni e inizialmente anche i cristiani, prima che si distinguessero chiaramente dalle altre sette ebraiche. Il tempio era il luogo centrale per la religione ebraica detta “del secondo tempio”: qui avveniva un ciclo ininterrotto di sacrifici animali che erano al centro della religione ebraica del secondo tempio, che tra l’altro non conosceva neanche il concetto di sinagoga.

Dopo la distruzione del secondo tempio e durante il terzo secolo dopo cristo gli ebrei dell’impero furono organizzati dallo stato romano, che istituì la nuova figura del patriarca degli Ebrei, simile in poteri e status ai patriarchi cristiani: il suo ruolo era coordinare l’attività religiosa e comunitaria degli ebrei. Il patriarca aveva sede a Tiberiade, visto che Gerusalemme era proibita agli ebrei dopo la distruzione del secondo tempio e la rivolta di bar kokhba, sotto il regno di Adriano.  Nonostante questo, dopo il secondo secolo dopo cristo gli ebrei migrarono in grandi numeri al di fuori dell’Impero Romano e in Mesopotamia e fu qui che si sviluppò la nuova corrente di pensiero ebraica da cui derivano tutte le moderne, e che è evoluzione del pensiero fariseo. Si tratta del giudaismo rabbinico, basato sul Talmud babilonese e sulla tradizione orale rabbinica. In questo senso non è corretto dire che il cristianesimo è figlio del moderno ebraismo, è forse più corretto dire che si tratta di religioni “sorelle”, figlie dell’ebraismo del secondo tempio.

Meraviglioso affresco della sinagoga di Dura Europos

Gli ebrei migrarono verso Babilonia anche perché il loro status fu posto sotto attacco dal trionfo del cristianesimo nel quarto e nel quinto secolo: folle di cristiani bruciarono sinagoghe, soprattutto in oriente e nell’impotenza delle autorità. L’enorme comunità di Alessandria, la più importante dell’impero, fu perseguitata dai Papi di Alessandria e costretta in gran parte all’esilio. Molti ebrei rimasero ovviamente nell’Impero, ma con sempre minore attaccamento ai suoi destini. Detto questo, nonostante i torti commessi da privati e gerarchie ecclesiastiche, l’impero non tolse mai la cittadinanza romana ai suoi sudditi ebrei, mantenendoli fermamente uguali di fronte alla legge: le grandi sinagoghe dell’Impero testimoniano una perdurante prosperità, ad esempio quella riccamente dorata di Apamea in Siria, potete trovare alcuni dei suoi meravigliosi mosaici qui a Bruxelles, spesso in greco, testimoniando un sincretismo tra cultura ebraica e greco-romana. Nonostante questo l’asfissiante regime imperiale non si fece molti amici tra gli Ebrei, soprattutto dopo l’assolutistico regno di Giustiniano. Quando all’inizio del settimo secolo arrivò la vera tempesta, gli ebrei romani finirono per accogliere favorevolmente prima i persiani di Khosrau II e pochi anni dopo gli Arabi dell’esercito dell’Islam. 

David mi chiede se ci fu un’evoluzione nella sessualità nel quinto secolo. La risposta è certamente sì, ma è un processo che inizia prima e per certi versi avrà il suo coronamento con Giustiniano, il cui impero davvero è un momento di passaggio fondamentale nella tarda antichità.

La sessualità durante il principato era determinata più dallo status sociale e dal genere che da considerazioni di naturalità. La violenza sessuale sugli schiavi era consentita e naturale, la volontà degli schiavi essendo completamente ignorata. Rapporti consensuali tra uomini e ragazzini erano considerati normale espressione della sessualità, i rapporti omosessuali maschili accettati anche se la parte ricevente della coppia omosessuale era dileggiata perché “femminile”. La prostituzione era diffusa ovunque ed era una professione normale e accettata, anche se non particolarmente rispettata: l’idea che mi sono fatto è che non ci fosse uomo che non passasse almeno occasionalmente per i bordelli. Gli uomini tendevano a sposarsi relativamente tardi e dopo aver data ampia soddisfazione ai proprio desideri, anche durante il matrimonio l’adulterio da parte del marito non era particolarmente condannato. Dalle donne ci si aspettava un comportamento casto e morigerato, l’adulterio femminile non era accettato e poteva avere conseguenze molto gravi, anche se ovviamente abbiamo noti casi di adultere nella storia romana, perché le leggi e la moralità pubblica non riescono mai ad avere un controllo assoluto sulla società. Le donne avevano comunque il grande vantaggio di poter ricorrere al divorzio molto facilmente, come gli uomini d’altronde.

Famoso affresco “delle posizioni” in uno dei bordelli di Pompei

Il cristianesimo portò nella società romana ed ellenistica un codice morale completamente diverso e che affondava nelle tradizioni più rigide dei popoli semitici del Medioriente. Lo storico Kyle Harper, che ha scritto un libro molto influente sull’argomento,  lo ha ribattezzato “la prima rivoluzione sessuale della storia”. Per la prima volta nella società romana si iniziò a distinguere non più tra rapporti desiderabili e rapporti indesiderabili ma tra rapporti secondo natura e contro natura: l’omosessualità e qualunque rapporto pederastico furono rigidamente proibite, anche se immagino che molta attività continuò comunque sotto le lenzuola, visti i limiti del sistema inquisitivo dello stato romano.

Nella morale cristiana, gli esseri umani possedevano e possiedono un libero arbitrio sulla loro spinta sessuale. Per i Cristiani e a differenza degli antichi, anche gli uomini potevano esercitare il controllo sulle loro esperienze erotiche. Nessuno era semplicemente in balia degli appetiti insaziabili e del “normale” sbocco sessuale. Il matrimonio per i cristiani era ovviamente fondamentale, ma questa non era una novità: la monogamia era più un ideale romano che giudaico e la singola unità coniugale era considerata la norma per i romani liberi. Il cristianesimo però ridefinì la monogamia romana per eliminare qualsiasi altro tipo di esperienza sessuale: l’adulterio divenne moralmente proibito anche per gli uomini, i secondi matrimoni vennero a mano a mano scoraggiati, la prostituzione tollerata sempre di meno. Questi ideali sono rimasti vivi fino a pochissimo tempo fa, anzi in buona parte dell’Italia sono ancora seguiti con scrupolo, testimonianza del perdurare dell’influenza della prima rivoluzione sessuale.

Questa evoluzione non avvenne nottetempo, ci vollero secoli. Direi che era probabilmente completata verso la fine del sesto secolo, quindi nella nostra storia siamo ancora nel mezzo del guado. Inoltre va sempre ricordato che una cosa sono le leggi e la morale ufficiale, un’altra sono i comportamenti privati. Gli occidentali non si trasformarono nottetempo in bacchettoni, nonostante i desideri della chiesa e della morale cristiana e in barba alle leggi imperiali: i mediorientali continueranno per secoli a stupirsi e scandalizzarsi della promiscuità sessuale degli occidentali, d’altronde lo fanno ancora oggi.

Fabio mi chiede come mai, nella cultura popolare, Attila è diventata la figura simbolo della caduta dell’Impero Romano d’Occidente quando Genseric ha fatto molti più danni?

Una risposta banale sarebbe che comunque il popolo di Genseric è diventato sinonimo di danneggiatore del bene comune…ma ovviamente non mi sottraggo. Credo che abbia a che fare con il fatto che Attila fu una minaccia esistenziale, subitanea e violenta per tutto il mondo Romano, che sentì per la prima volta di poter finire sott’acqua: nell’esempio che ho fatto nello scorso episodio, Attila fu quella scossa che fece quasi saltare fuori dallo padella la rana dell’Impero Romano, obbligandolo a reagire ad una minaccia per una volta diretta alla sua esistenza. Inoltre Attila non era un barbaro che viveva e tra virgolette “lavorava” dentro l’Impero Romano, come ad esempio Alaric. Attila era una potenza straniera che aveva costruito la più imponente macchina militare che il barbaricum avesse mai conosciuto e che mai vedrà fino al tempo dei Mongoli. I Romani erano consapevoli di avere più soldati, più denaro, più risorse dei Vandali o dei Visigoti, ma lo stesso non poteva dirsi della coalizione messa su da Attila: per la prima volta i Romani si sentirono inferiori in potenza a qualcuno, come testimoniate dalle ambasciate di Prisco presso Attila. Questa sensazione di impotenza nei suoi confronti rese Attila una minaccia esistenziale per i Romani, forse ancor più di quanto fosse veramente, visto che non credo che neanche lui avesse il potere da solo di infrangere l’impero, e infatti non ci riuscì.

I Vandali di Genseric, d’altro canto, furono come l’acqua che lentamente demolisce la pietra cadendo a poco a poco, a differenza dell’alluvione subitaneo ma passeggero di Attila: i Vandali furono l’acqua calda che si scalda lentamente, cuocendo la rana. Pertanto sembrarono a lungo una minaccia meno pericolosa, anche se dannosa da un punto di vista economico. Alla fine però la loro perdurante presenza a Cartagine fece assai più danni dell’alluvione unnico.

Lorenzo Sartori mi chiede se nel V secolo i romani avessero idea dell’estensione del loro impero dal punto di vista geografico: esisteva un qualche sistema di cartografia? Come si faceva all’epoca, per esempio, a pianificare l’invasione di un territorio o semplicemente avere un’idea della disposizione dei territori nello spazio?

Nel quinto secolo i Romani avevano una conoscenza minuziosa del loro impero: cartografi avevano tracciato ogni valle, ogni montagna, ogni fiume, ogni strada e ogni città. Una dimostrazione plastica e meravigliosa di questa conoscenza è la tabula Peutingeriana, una copia medioevale di una mappa romana che è sopravvissuta fino ai nostri giorni e che è oggi custodita a Vienna. La mappa mostra tutto il mondo conosciuto, dall’Inghilterra fino all’India. La cosa straordinaria è che più che una mappa geografica accurata si tratta di una mappa schematica di tutto il mondo conosciuto, più simile ad un immenso schema della rete metropolitana che una mappa moderna. Il mondo vi è riassunto con montagne, fiumi, città. Le strade collegano ogni parte dell’Impero e del Medio Oriente, sono riportate tutte le distanze in miglia romane, una specie di stacco delle linee simboleggia ogni stazione di posta per il cambio dei cavalli o il ristoro dei viaggiatori. Era sostanzialmente la mappa schematica del favoloso sistema di posta imperiale.

Mappa dell’Italia ricostruita utilizzando le coordinate geografiche di Tolomeo

La mappa risale al quarto secolo, ma non è l’unica testimonianza sopravvissuta delle conoscenze geografiche del mondo antico: i libri del geografo Tolomeo, vissuto nel secondo secolo dopo cristo, utilizzano un rudimentale sistema di coordinate geografiche, con longitudine e latitudine. Queste erano state calcolate basandosi anche sul lavoro di Eratostene, che aveva misurato con un’accuratezza impressionante la circonferenza della terra. L’opera di Tolomeo era un tempo accompagnata da mappe, andate perdute, ma queste sono state accuratamente ricostruite grazie alle coordinate di Tolomeo e sono piuttosto accurate, soprattutto per le aree all’interno dell’Impero, ma coprono gran parte del mondo conosciuto. Queste aree erano ben conosciute grazie ai viaggi dei mercanti: ad esempio la costa africana fino a circa Zanzibar, l’Europa settentrionale fino alla Scandinavia, le coste occidentali dell’africa fino alla Mauritania e vi è anche rappresentato il fiume Niger. Tutte queste conoscenze non andarono perdute: i Romani continuarono a conoscere a fondo il loro mondo anche quando il loro impero andò restringendosi, anche perché gli scambi e i commerci a lunga distanza continuarono, anche se con volumi inferiori rispetto al passato per quanto riguarda l’occidente. Nel quinto secolo, ma anche nel sesto, l’occidente non si era ancora rinchiuso in sé stesso.

Alessandro Viani mi chiede come mai la politica imperiale, nonostante si sia spesso evoluta per far fronte alle necessità dell’impero, non arrivò a nominare un capo barbaro come imperatore.

È una domanda molto interessante, e fondamentale per comprendere la caduta dell’Impero Romano. Come hai detto giustamente tu, anche ai tempi di Nerone sembrava inconcepibile nominare un imperatore non appartenente all’aristocrazia romana. Eppure con Vespasiano avremo il primo imperatore italico, con Traiano il primo imperatore proveniente dalle province, Settimio Severo era nativo dell’Africa, Filippo era arabo, Massimino era un Trace e poi da Claudio II in poi avremo un secolo e mezzo di imperatori dell’Illirico e della Pannonia, due regioni davvero semi-barbare. Come mai all’improvviso diventa un tabù avere un imperatore germanico, anche se cittadino romano, dopo aver avuto imperatori da quasi tutte le province dell’Impero?  

Sono convinto che un’apertura in quel senso avrebbe ridato vigore alla carica di imperatore: basti pensare a cosa avrebbe potuto ottenere un imperatore di origine Visigota, come ad esempio Ataulph, il Re che sposò Galla Placidia. Un Impero Romano rafforzato dalle armi gotiche credo che sarebbe stato assai più capace di resistere alle procelle del quinto secolo. Si può dubitare che i Visigoti avrebbero seguito a lungo un imperatore dei Romani del loro sangue, ma nel mondo germanico era la fedeltà alla dinastia che contava, molto più della nazionalità. Un imperatore romano della dinastia gotica dei Balti o degli Amali avrebbe a mio avviso comandato la fedeltà del suo popolo, popolo che avrebbe progressivamente costituito la casta militare dell’impero, senza peraltro escludere altri apporti germanici e romani, come da tradizione imperiale. Teodorico il grande non sarà altro che questo, un imperatore per i Romani e un Re per gli Ostrogoti, ma la sua sintesi arriverà troppo tardi per l’occidente e sarà comunque spazzata via dalla guerra greco-gotica.

Perché quindi i Romani non poterono accettare Ataulph o perfino Alaric come loro imperatori? La questione è complessa, ma credo di aver risposto in parte nel podcast. L’intolleranza religiosa nei confronti della fede ariana dei Germani ebbe una importanza chiave nel rendere inaccettabile un imperatore gotico o germanico. Quando questa variabile fu rimossa non fu difficile per i Romani di identificarsi in un capo barbaro, come nel caso di Clovis Re dei Franchi e della sua conversione al cattolicesimo. L’altra questione fu il fato, visto che in realtà si andò spesso vicino ad avere un imperatore germanico: per i Romani del quinto secolo era inaccettabile un imperatore del tutto barbaro, ma un figlio di barbari e romani? La linea qui era molto meno marcata. Non ho dubbi che il figlio di Stilicone sarebbe potuto diventare imperatore, data la parentela con il casato di Teodosio, questo non avvenne perché non ci fu sufficiente continuità politica al vertice, in modo da consolidare una nuova dinastia al potere. E non ci fu continuità politica perché il sistema di governo romano era allo stesso tempo autocratico e informale, senza una chiara modalità di successione sia al trono che al ruolo di Magister Militum e generalissimo. Forse è anche qui che va trovata la risposta al mistero dell’assenza di imperatori germanici.

Giovanni quaggiotti mi ha fatto tre domande, e visto che sono tutte interessanti ho deciso di rispondere per quanto possibile! La prima riguarda la Persia. Chiede Giovanni: dopo l’ignominiosa pace con Shapur II e la cessione di Nisibis, non hai più parlato dell’impero sassanide, sembra anzi che, da nemico numero uno dell’impero sia uscito dalle menti e dalle preoccupazioni degli apparati di Costantinopoli; è davvero così?

No ovviamente la Persia era ancora la priorità numero uno della politica estera di Costantinopoli. È vero però Giovanni che nel quinto secolo abbiamo visto molto meno attività sul fronte orientale, ma ci sono varie ragioni per spiegarlo. I persiani furono impegnati per buona parte del secolo da una minaccia altrettanto devastante per loro, quella degli Efteliti, spesso detti Unni bianchi, anche se non avevano nulla a che fare con gli Unni di Attila. I persiani soffrirono anche la loro “Adrianopoli” nel 484, con la distruzione di un’intera armata e la morte del loro Re Peroz. Con i romani ebbero pertanto durante il quinto secolo un rapporto di pace, anche perché avevano raggiunto la maggior parte dei loro obiettivi di sicurezza, garantendosi la Mesopotamia Romana e il Caucaso, aree che i Romani avevano utilizzato sia per difendere la Siria e l’Armenia sia per attaccare facilmente il cuore dell’Impero Persiano. Nonostante tutto ci furono due brevi guerre, entrambe con conseguenze abbastanza negative per i due combattenti e che risultarono in un ritorno allo status quo. La rete di fortezze su entrambi i lati rallentava qualunque attività militare, trasformando ogni guerra in una estenuante serie di assedi. L’idea che mi sono fatto è che Persiani e Romani giunsero alla conclusione che una guerra fredda era da preferirsi alla guerra combattuta, visto che nessuno dei due duellanti sembrava avere un vantaggio decisivo sull’altro e la guerra era un cattivo affare per entrambi. 

Il sesto secolo sarà però completamente diverso dal quinto: Romani e Persiani si combatteranno in una serie infinita e altamente distruttiva di guerre, con conseguenze importanti per tutto il mondo mediterraneo. Ma ne parleremo a tempo debito! 

La seconda domanda di Giovanni riguarda la romanizzazione dei barbari: si chiede Giovanni se, oltre alla “barbarizzazione” degli eserciti imperiali, non vi sia stata anche una romanizzazione delle genti barbare, o se questo avvenga solo in un secondo momento.

In generale ovviamente i “barbari” si romanizzarono almeno tanto quanto si “barbarizzarono” i Romani, in una influenza reciproca: se posso aggiungere, non amo il termine barbari perché seppur storicizzato sottintende un giudizio qualitativo, preferisco germani e germanizzazione. Il primo passo della romanizzazione dei Germani fu ovviamente la religione: Goti, Franchi, Alemanni, Vandali…tutti divennero cristiani, anche se più spesso nella variante ariana. Anche sul fronte linguistico ci furono delle importanti innovazioni: il latino era ovviamente la lingua franca del mondo renano e danubiano quando occorreva comunicare con l’impero, e a volte anche tra diversi popoli germanici. Nel giro di pochi decenni passati dentro l’impero, il latino andò affermandosi presso tutti gli strati della popolazione dei goti e dei germani stanziati in occidente, fino al punto che divennero sostanzialmente bilingui: molti storici sospettano che già a metà del quinto secolo i Visigoti avessero sostanzialmente abbandonato la lingua patria. Anche le abitudini dinastiche iniziarono ad assomigliarsi: i Germani un tempo seguivano la leadership di forti guerrieri ma già dopo poche generazioni in romania abbiamo Re-bambini e Regine con il ruolo di protettrici del regno, proprio come presso i Romani. Il processo di sincretismo durerà per molti anni, fino a produrre ad esempio un paese che si chiama “Francia”, quindi dal nome di un popolo germanico, ma di lingua, cultura e temperamento latino. Lo stesso avvenne con i Visigoti in Spagna e con il tempo avverrà anche per i Longobardi in Italia. Gli Ostrogoti ebbero invece una storia “spezzata”, ma di questo parleremo nella storia del sesto secolo.

L’ultima domanda di Giovanni riguarda la ricchezza dell’impero: è chiaro che la provincia africana rappresenti per l’Occidente il granaio e la riserva fiscale dell’impero e che la sua perdita abbia di fatto determinato il crollo della capacità di reagire di quest’ultimo. Giovanni si chiede però come le costanti invasioni e guerre abbiano inciso sulla ricchezza delle altre province. Furono le invasioni e il governo dei barbari così devastanti da determinare un impoverimento generale di questi territori, tanto da farli diventare un onere per l’impero e quindi anche per i barbari?

In realtà il mondo mediterraneo conobbe una sostanziale ripresa economia per tutto il quinto secolo e soprattutto all’inizio del sesto, ne parlerò a lungo. Gli effetti della ripresa furono però più che compensati in occidente dal caos politico, soprattutto intorno alla metà del secolo, dovuto in larga parte alle guerre civili e al peggioramento della sicurezza nel mediterraneo, soprattutto a causa della pirateria della flotta vandalica di Genseric. Quanto alla ricchezza comparata delle province, la Gallia e l’Italia erano sicuramente altrettanto ricche e sviluppate dell’africa romana, la differenza principale rispetto a questa era che necessitavano anche di notevoli difese militari: l’Africa era quindi unica nel senso che era allo stesso tempo ricca e necessitava di poca spesa per la sua difesa. Di converso l’Italia e la Gallia avevano entrambe un potente esercito a guardia dei propri confini.

Il quinto secolo non vide grandi distruzioni dell’impianto cittadino romano, se non nella fase più intensa dell’invasione della Gallia e dell’Iberia nel 406-418. Le tensioni in Gallia settentrionale tra Visigoti e Franchi portarono ad un impoverimento della regione di confine tra le due sfere di influenza, ma il sud della Gallia rimase prospero ben dentro il sesto secolo, lo stesso vale per l’Italia, anche se un destino assai peggiore ebbero la Britannia e le province danubiane.

Il vero danno all’economia occidentale non fu causato direttamente dalle devastazioni dei germani o dal fatto che questi non seppero gestire l’economia. Fu lo scardinamento dell’unità del mediterraneo occidentale che rese più difficili i commerci che comunque continuarono, anche se su scala ridotta. Il vero colpo mortale all’economia mediterranea arriverà invece con l’invasione degli Arabi, tra il sesto e il settimo secolo. Ma questa è un’altra storia.

E così siamo arrivati alla fine della storia dell’Impero Romano d’occidente. Spero vogliate seguirmi anche durante il sesto secolo, un secolo così denso di avvenimenti fondamentali per il mediterraneo che non so neanche dove iniziare, tra Teodorico e Giustiniano, la grande guerra d’Italia, l’arrivo dei Lombardi e le interminabili guerre persiane, oltre che una pandemia che farebbe impallidire qualunque esempio moderno. Eppure credo ci sia un po’ di tristezza in tutti voi, come in me. Di fronte a noi ci sono secoli di storia spesso esaltante per la nostra penisola, ma niente pare poter sostituire il vuoto dell’impero perduto, di quella grande costruzione che nacque in Italia per diffondersi in tutto il mediterraneo. Forse, come nel Va Pensiero, l’unico modo di riempire il vuoto è un concerto, che infonda al patire virtù. Vorrei quindi chiudere la storia del quinto secolo con un pezzo di musica classica: al violino e al pianoforte Eugene e Larissa Cherkasov, due musicisti russi di talento che fanno anche parte della mia famiglia! Il pezzo è “largo” di Francesco Maria Veracini, un musicista toscano del diciottesimo secolo che girò le corti d’Europa. Spero che questa musica riesca a rappresentare la perdita ma allo stesso tempo faccia da araldo di un’epoca nuova, perché di fronte a noi c’è ancora speranza, grandezza e genio. Alla prossima puntata, e al prossimo secolo!

(in basso la musica!)

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