Recensione edizione BUR

Ricostruire la storia dei Longobardi senza Paolo Diacono sarebbe possibile – forse – ma decisamente difficile. Raramente nella storia d’Italia dobbiamo così tanto ad una singola fonte, al punto che ci aiuta a ricostruire due secoli di storia italiana.
Due parole sull’autore: un nobile longobardo di fede cattolica vissuto durante la caduta del regno longobardo, servirà Carlomagno e i principi di Benevento, per poi ritirarsi a Montecassino, dove muore intorno al 799. Paolo è uno dei grandi rappresentanti della cosiddetta “rinascita carolingia”. Il suo latino è limpido e chiaro, da chi ha letto e studiato Cicerone e i classici dell’antichità.
L’opera di Paolo Diacono è una storia nazionale, sulla falsariga di quanto realizzato da Giordane per i Goti. Come Giordane, anche Paolo inizia a narrare i miti e le leggende dei Longobardi, per poi passare alla loro storia conosciuta.
Paolo sembra usare le fonti con accortezza, più di quanto sia solito per le opere altomedievali; sa anche essere critico: quando riporta le leggende del suo popolo, ammette lui stesso che sono probabilmente favole. Ciò detto, non è certo un Tucidide, ma possiamo dire di essere stati davvero fortunati ad avere uno dei più sofisticati letterati del VIII secolo come fonte per due secoli di storia italiana.
Anche da un punto di vista letterario, si tratta di un’opera interessante: diversi passaggi sono lirici ed emozionanti, quasi romanzati. La storia d’amore di Agilulfo e Teodolinda, o del ritorno del suo antenato in Italia, sono passaggi che non possono non emozionare il lettore.
Il rapporto di Paolo con la storia nazionale dei longobardi è chiaramente complicato e ambivalente: da una parte si immedesima nei suoi antenati e nel regno longobardo, del quale canta la scomparsa, con la tristezza di chi rimpiange qualcosa che sa che non tornerà. Allo stesso tempo Paolo è un buon cattolico, e sa che la Chiesa romana è stata a lungo rivale dei Longobardi. La narrazione sembra quindi in costante tensione tra queste due corde, che spingono in direzioni differenti: non a caso, Paolo esalta i Re e i Papi che hanno cercato di trovare un accomodamento, utile per tutti. Velatamente, critica invece i Papi della sua epoca, che hanno voluto l’intervento dei Franchi in Italia.
Un’ultima parola su questa edizione: la trovo molto ben fatta, con una introduzione che è utile e colta (ma non indispensabile per la comprensione del testo), un’ottima cronologia e una mappa prima del testo. Ognuno dei sei libri della “Storia dei Longobardi” è preceduto da una breve introduzione degli autori, che spiega il contenuto del libro in questione. Le note sono numerose, e ottime. La traduzione è in un italiano moderno, altrettanto limpido dell’originale latino. Consigliato per chi vuole approfondire la storia dell’alto medioevo in Italia!
In basso, ecco il mio ultimo commento su Paolo Diacono nel podcast:
Dobbiamo moltissimo a Paolo Diacono: in quanto principale e quasi unico storico dei Longobardi, è la nostra fonte principale per un’alluvione di dettagli e di dati, di informazioni sull’abbigliamento, la cultura, la religione, le tradizioni, le leggende dei Longobardi. Senza di lui, i due secoli che vanno dalla guerra greco-gotica all’ascesa di Carlo Magno sarebbero davvero dei secoli bui: gli sono grato di averli illuminati con la sua curiosità e il suo amore per il suo popolo.
Paolo Diacono non era uno storico dalla formazione formale, tucididea, e certamente alcuni pezzi della sua storia possono apparire rozzi. La sua lingua è però limpida e chiara, formale e forbita, degna di uno dei massimi studiosi della sua epoca, uno dei pochissimi che poteva parlare e scrivere sia in latino che in greco oltre che tenere testa ai più celebrati intellettuali della rinascita carolingia. Ora però che siamo arrivati alla fine della sua storia, penso sia anche il caso di chiedersi: chi era la sua audience? Perché scrisse la sua storia? Cosa voleva davvero raggiungere?
Paolo Diacono entra come protagonista nella storia proprio mentre ne sta uscendo da storico: probabilmente arrivò a Pavia al seguito del friulano Ratchis, diventato re dei Longobardi nel 744, e lì rimase al servizio anche di Astolfo e Desiderio. Fu il precettore di Adalberga, figlia di Desiderio e poi moglie di Arechi, prima duca e poi principe di Benevento: per lei scrive una continuazione del breviario di Eutropio, autore del IV secolo che aveva scritto una stringata storia di Roma dalle origini mitiche della città e fino a Giuliano l’apostata e Gioviano, nel 364: Eutropio, d’altronde, era un segretario di Valente. A quanto pare Adalberga si lamentò che nel breviario – consigliatole da Paolo – mancava la gran parte della storia cristiana dell’Impero. Paolo allora integrò il lavoro di Eutropio, scrivendo una storia di Roma che giungeva almeno fino ai tempi di Giustiniano, Belisario e la guerra greco-gotica. Che bravo maestro!
Con la conquista del regno longobardo, nel 774, Paolo in qualche modo entra in contatto con Carlomagno, che sembra rispettarlo molto, tanto da invitarlo in Franchia, in un anno imprecisato. Carlomagno si impegna anche a liberare suo fratello, prigioniero in franchia dopo la rivolta dei friulani del 776. Sul finire della sua vita, Paolo si ritira a Montecassino, il grande monastero restaurato dai duchi di Benevento. Qui vive una vita di studio e contemplazione fino alla sua morte, avvenuta probabilmente tra il 797 e il 799.
L’opera principale di Paolo – la storia dei Longobardi – è chiaramente incompiuta: ci sono dettagli nel corso del libro che ci fanno capire che il termine all’epoca di Liutprando non era in realtà voluto, Paolo più volte fa riferimento ad eventi seguenti che intende narrare. Ma fu la narrazione interrotta dalla sua morte, o dal suo scoramento? Una volta passato il grande Re, forse Paolo non volle narrare la caduta del suo popolo, magari anche per non mettere in cattiva luce il potente sovrano del suo tempo, Carlomagno.
E dunque torniamo al pubblico della sua opera. Paolo non ci dice perché ha deciso di scriverla, dunque dobbiamo formulare delle ipotese. La prima, la più antica – propugnata tra gli altri da Walter Goffart – è che Paolo scrisse la sua storia proprio come “manifesto dei Longobardi”, in onore dell’ultimo dominio longobardo indipendente, quel ducato di Benevento in cui regnava proprio la sua vecchia pupilla, Adalberga. Benevento era diventato un principato ed era riuscito a resistere a tutti i tentativi carolingi di conquista, come il villaggio di Asterix. Senza contare che Montecassino era nel territorio di Benevento.
La seconda opzione, portata alla ribalta da una delle più celebri studiose dei Carolingi – Rosamund McCormick – è che in realtà Paolo scriva per conto della corte italiana del figlio di Carlomagno, Pipino d’Italia. L’intero scopo dell’opera di Paolo sarebbe di posizionare Liutprando come simbolo della regalità longobarda, fonte di ispirazione dei suoi successori al trono d’Italia: Carlomagno e Pipino. L’opera servirebbe a mostrare a Pipino e a suo padre che i Longobardi non erano solo un popolo da demonizzare, ma un esempio di come si costruisce uno stabile, ordinato regno occidentale: una sorta di modello nel quale specchiarsi in linea diretta di continuità tra Carlomagno e la vecchia monarchia longobarda. Questa ipotesi mi lascia però freddo: perché ad esempio Paolo non include nulla degli incontri di Terni e Pavia con Papa Zaccaria, che sarebbero appunto apparsi come illustri precursori di quello che faranno Pipino il breve e Carlo Magno? Forse in questo caso il modello sarebbe parso troppo simile agli eventi contemporanei?
Una terza opzione è che Paolo abbia scritto la sua storia, negli ultimi vagiti dell’ottavo secolo, a beneficio dei suoi longobardi, e nostro: questa è l’opinione del professor Heath, che ho seguito molto nel suo “Age of Liutprand”. Christopher Heath è – ad oggi – l’unico studioso moderno ad avere scritto una biografia su Liutprando, uscita pochi mesi fa! Ho avuto l’onore di leggere in anteprima il libro, e ho anche avuto l’onore di intervistarlo: troverete presto la sua intervista su Storia d’Italia extra, in inglese.
L’opinione di Christopher Heath mi pare la più logica: ho l’impressione che, in un mondo politico e culturale che si era ormai allargato verso il nord delle Alpi, Paolo desiderasse che i Longobardi non svanissero sotto i flutti di un disastro, che non dimenticassero da dove venivano. In tutta la sua storia, Paolo sembra essere animato da un onesto sentimento patriottico longobardo: vuole dimostrare ai suoi conterranei e all’opinione pubblica dell’Impero occidentale che la storia longobarda valeva la pena di essere raccontata e ricordata. Nel farlo, ha preservato per noi un pezzo indelebile di storia italiana. Per questo, non posso che ringraziarlo: mi mancherai!

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