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di Guy Halsall

Guy Halsall – come può attestare anche la sua presenza social, molto battagliera – non è un professore medievale che le manda a dire. Preparato e determinato, ha la capacità di ben scrivere e di argomentare tenacemente le più forti affermazioni. Il suo lavoro “Barbarian Migrations in the Roman West” è considerato da molti come il più importante saggio di storia su quest’epoca a cavallo tra Adrianopoli e l’arrivo dei Longobardi in Italia. La stessa scelta di inserire tutto questo periodo in un unico libro è di per sé innovativa.
Dei tanti dibattiti che perennemente ruotano attorno al tema della caduta di Roma, nessuno è più duraturo di quello tra coloro che attribuiscono la colpa a problemi interni (corruzione, decadenza) e coloro che citano pressioni esterne (invasioni barbariche). Quest’ultima opinione fu formulata in modo memorabile da André Piganiol negli anni Quaranta: “Roma non morì di morte naturale; è stata assassinata.”
Di recente, dopo un lungo predominio degli “internalisti”, è stato Peter Heather a riaffermare l’importanza delle migrazioni barbariche in Europa come causa scatenante della disolluzione dell’Occidente (vedere primo libro in lista delle mie “fonti”).
Con questo libro, Guy Halsall si schiera decisamente dalla parte degli internalisti, ma in modo diverso: niente moralismo sulla “caduta dei costumi” ma molta attenzione alle reti clientelari, alle strutture politiche e all’identità sociale dei territori provinciali, e come questi erano legati al centro imperiale. Halsall descrive la caduta come “l’effetto cumulativo di una miriade di scelte da parte di innumerevoli persone” che “spesso, se non sempre, tentavano di fare il contrario”: nessuno, nella lunga storia romana, nè tra Romani nè tra i Barbari sembra aver “voluto” la caduta, ma spesso l’ha avvicinata senza volerlo.
Altre citazioni epiche dal libro: “l’impero non morì silenziosamente: cadde calciando, squarciando e urlando”. la conclusione è stata anche ripresa nel mio libro (Il miglior nemico di Roma): “L’Impero Romano non fu assassinato e non morì di morte naturale; si è suicidato accidentalmente”.
Con tutti i suoi pregi – e questo libro ne ha tanti – ha anche dei difetti: è molto ideologico, a volte sembra disdegnare l’archeologia o l’archeogenetica, rimanendo forse troppo affezionato alle teorie storiche anche di fronte all’evidenza. Alcune sezioni che discutono di questioni di genere e del razzismo sembrano aggiunte a bella posta: non c’è ragione per non parlarne in un saggio di storia, ma sembrano essere state aggiunte posticce ex post richieste da qualcuno o da qualcosa e non integrate armonicamente nel libro. Infine la verve dell’autore è sicuramente interessante, ma si lascia spesso trascinare dall’animosità del dibattito storico sulla tarda antichità, anche se a onore del vero non manca di riconoscere meriti anche degli “avversari”. Comunque, una lettura imprescindibile sul periodo, da accompagnare ad altre.
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