Episodio 68: i colli fatali di Roma – testo completo

Nell’ultimo episodio si è levato il vento dell’est sulla penisola italiana: dopo innumerevoli e complicatissimi round negoziali, siamo giunti alla decisione di Giustiniano di dichiarare una guerra totale al regno d’Italia. Belisario ha ricevuto il suo ordine: invadere la penisola.

Immaginatevi di essere Belisario: erede di una ininterrotta tradizione militare imperiale lunga più di un millennio. Un uomo dei Balcani latinofoni, abituato a pensare che il mondo giri attorno a Roma e al suo destino imperiale. Ora il destino vi ha portato in Italia: la strada va avanti, corre dritta come una freccia, con il suo perfetto selciato posto dagli antichi. Le tombe dei grandi della storia romana la fiancheggiano. E poi la vedete: la grande porta sulle mura della città, i locali sostengono che a costruirle sia stato un imperatore del passato, un certo Aureliano. Ma questo non vi interessa più di tanto, perché pochi passi ancora e l’Impero dei Romani sarà tornato a casa.

Blitzkrieg

Prima di poter pensare all’Italia, Belisario doveva provare a mettere una pezza sulla situazione africana. Ricordiamo i fatti: a Pasqua del 536 una gran parte della guarnigione africana si era ribellata, radunandosi fuori dalle mura di Cartagine. In un secondo tempo, anche i soldati rimasti a Cartagine si erano ribellati e il comandante della nuova provincia dell’Africa romana, Solomone, era stato costretto a fuggire nottetempo su una piccola barca, assieme al nostro Procopio. Entrambi si erano recati a Siracusa, dove svernava l’esercito di Belisario.

Nel frattempo i rivoltosi della prima ora avevano deciso di eleggere un capo, un certo Stotzas, uno dei bucellarii dell’esercito africano. I ribelli erano circa 8.000, quindi la maggioranza dell’esercito rimasto a guardia della provincia. Le prime azioni di Stotzas furono di chiamare a sé tutti i Vandali che erano riusciti a scappare alla deportazione: circa mille Vandali si unirono alla sua bandiera. Stotzas riuscì anche a radunare una parte di ex schiavi, sempre interessati al rovesciamento del regime imperiale. Con questa armata, si diresse verso Cartagine, forse sperando che i suoi difensori si unissero a lui ma comunque convinto di avere numeri sufficienti a prendere la città.

I ribelli in città non volevano però seguire Stotzas e pare che ebbero un ripensamento: il loro comandante Teodoro dichiarò a Stotzas che loro difendevano la città per conto dell’unico imperatore Giustiniano. Quel giorno era troppo tardi per assaltare Cartagine: Stotzas decise di riportare i suoi negli accampamenti: domani Cartagine sarebbe caduta.

Ma proprio quella notte una nave arrivò da Siracusa: nel porto di Cartagine sbarcò Belisario, seguito da Solomone e appena cento soldati della sua guardia personale: avete capito bene, Belisario si recò in una città ribelle con un pugno di uomini. Belisario a volte è accusato di essere un comandante troppo prudente: a me pare che il coraggio non gli facesse decisamente difetto. Aveva calcolato che la sua presenza e il suo prestigio sarebbero stati sufficienti a riportare all’impero una parte dei rivoltosi e ad incutere un timore reverenziale agli altri. Il calcolo funzionò: i 2000 soldati rimasti a Cartagine si unirono a Belisario, l’esercito di Stotzas decise invece di ritirarsi. Erano sì molto più numerosi dei difensori della città, ma loro avevano Belisario.

E Belisario sarà infatti il fattore determinante: il comandante diede l’ordine ai suoi di uscire dalla città ed inseguire i ribelli. Li raggiunsero presso la città di Membresa, 60 km da Cartagine. La città non aveva mura, quindi entrambi gli eserciti decisero di combattere una battaglia campale: l’indomani però il vento soffiava a favore degli imperiali e Stotzas sapeva quanto questo fattore fosse determinante per l’efficacia delle frecce dei cavalieri: decise quindi di spostare le sue unità e girarle di 90 gradi in modo che il suo esercito fosse parallelo al vento. Quando Belisario vide che i ribelli stavano muovendo la loro formazione piuttosto in disordine, decise di attaccare: i ribelli furono colpiti sul fianco, mentre non erano ancora in formazione da battaglia. Attacco dal fianco ed effetto sorpresa: sapete già cosa vuol dire. Nonostante che fossero quattro volte più numerosi degli uomini di Belisario, i ribelli fuggirono.

In questa battaglia si dimostra la differenza tra un generale competente e un neofita: Stotzas non mantenne in riserva degli uomini per proteggere il suo esercito mentre riformava la linea di battaglia. Belisario colse immediatamente un’occasione offertagli dal suo avversario e la sfrutto con determinata e spietata efficacia. I ribelli fuggirono verso la Numidia: non erano ancora del tutto sconfitti, Stotzas era ancora vivo ma Belisario aveva salvato la provincia, per ora. Tornato a Cartagine, Belisario fu informato che in sua assenza anche i suoi uomini in Sicilia stavano facendo discorsi sediziosi. Decise quindi di lasciare di nuove le cose nelle mani di Solomone e tornò in Sicilia. L’intera missione-lampo di Belisario era durata pochi giorni.

Prima di tornare in Italia una nota sulla rivolta africana, che era tutt’altro che spenta: una volta in Numidia i ribelli si scontrarono con le forze del locale dux romano. I soldati imperiali si unirono però alla rivolta, donandogli nuova brace per ardere. A questa notizia, e avendo Belisario impegnato in Italia, Giustiniano decise di inviare in Africa suo nipote e presunto erede Germano. Tenetene conto quando vedrete Giustiniano centellinare le sue forze da inviare in Italia: l’imperatore non aveva un solo scacchiere sul quale combattere le sue guerre. L’Africa non era ancora pacificata e non lo sarà ancora a lungo.

L’Impero ritorna in Italia

Tornato in Sicilia, Belisario face seguito all’ordine di Giustiniano: Teodato si era deciso per la guerra e il suo compito era di invadere l’Italia mentre un’altra armata imperiale sarebbe tornata in Dalmazia.

Per la sua impresa Belisario avrà a disposizione un esercito tascabile: una pallida immagine della compatta ma efficace armata con la quale ha conquistato l’Africa. Incurante di ciò, Belisario attraversò lo stretto di Messina nel maggio del 536. Teodato aveva inviato a Reggio suo genero Ebremud con un esercito che aveva il compito di bloccare l’invasione di Belisario. I locali del Bruzio e della Lucania si lamentarono con il governo centrale: i soldati si erano macchiati di saccheggi e requisizioni forzose. Teodato diede ordine di compensare i cittadini delle due province, con l’obiettivo di tenerli fedeli al governo. Sarà invece tradito da tutti.

Quando Belisario sbarcò in Calabria, Ebremud si presentò da lui e decise di arrendersi, probabilmente con il grosso dei suoi uomini. Ad Ebremud fu concesso il patriziato a Costantinopoli, i suoi uomini furono disarmati o perfino arruolati da Belisario. Il generale fece sapere ai cittadini del Bruzio e della Lucania che era il legittimo rappresentante del governo imperiale e che i suoi uomini intendevano comportarsi da liberatori e non da conquistatori, offrendo di comprare tutte le provviste di cui avessero avuto bisogno. Queste province, dove non c’erano goti stanziali e che avevano da poco sofferto le prime conseguenze della guerra, decisero di arrendersi immediatamente. Belisario poté continuare senza grossi problemi a risalire la penisola seguendo la costa tirrenica, sempre accompagnato dalla sua flotta. Nell’Italia meridionale, infatti, le città erano di solito prive di mura e quindi sprovviste di presidi militari. Belisario sarà sempre attento a non lasciarsi nemici alle spalle, ma non fu questo il caso della sua trionfale marcia nel sud Italia fino all’arrivo sotto le mura di Napoli, una città che si sarebbe dimostrata assai più difficile da conquistare.

Teodato, a Roma, era sempre più nel panico. La vecchia capitale aveva ancora qualche centinaio di migliaia di abitanti, era insomma ancora una grande metropoli antica. La Sicilia era dai tempi della perdita dell’Africa la principale fonte di grano per Roma, ed ora anche la Sicilia era perduta. Teodato aveva provato a mantenere legati a sé i proprietari terrieri meridionali con sconti fiscali e con le preghiere e le lettere di Cassiodoro, originario della moderna Calabria. Cassiodoro aveva incitato i suoi conterranei a rimanere fedeli a Ravenna: “lascia che i Romani stiano in pace, mentre l’esercito gotico fa la guerra”, aveva scritto ad un notabile romano del Bruzio. Ma i cittadini del sud lo avevano comunque abbandonato.

La fine del mondo

In contemporanea un disastro ecologico stava sconvolgendo la disponibilità di cibo in tutta l’Italia. Si tratta di un evento che ha forse più importanza per la storia dell’umanità di molte delle decisioni degli uomini importanti di cui sto parlando da tempo.

La piccola era glaciale tardoantica: dal 540 in poi, per un secolo, le temperature restarono basse, in particolare dal 536 al 560, con una caduta di 2 gradi rispetto alla media (linee tratteggiata)

Infatti, durante l’inverno del 535-536 Procopio registrò un evento atmosferico straordinario, confermato da altre fonti e registrato anche nella lontana Cina. Queste la famose parole di Procopio: “il sole mandò luce senza raggi, alla maniera della luna, per l’intera durata dell’anno e sembrò del tutto simile ad un’eclissi. Dal momento in cui iniziò a verificarsi questo fenomeno gli uomini cominciarono ad essere decimati dalla guerra, dalla pestilenza e da ogni altro flagello apportatore di morte”. L’anno a cui fa riferimento Procopio è il 536, di recente definito da una famosa storica medievale il peggiore anno in cui essere vivi nella storia dell’umanità: vedremo nei prossimi episodi il perché di questa affermazione. Per ora basti dire che il fenomeno è stato confermato da recenti scavi dei ghiacciai alpini: nel periodo che va dal 536 al 540 si rilevano forti depositi di polvere vulcanica, gli studiosi pensano riconducibile ad una colossale esplosione in Islanda. L’esplosione avrebbe vomitato nell’atmosfera una quantità impressionante di polveri vulcaniche, sufficienti a schermare il sole e a far cadere la temperatura globale di 2-3 gradi centigradi.

Le prime conseguenze del cataclisma furono la carestia: i raccolti fallirono in tutta Italia e in generale nel mediterraneo, proprio mentre la guerra stava mettendo a dura prova le catene del rifornimento alimentare di civili e soldati. Teodato diede ordine di distribuire il grano statale al vescovo di Milano, mentre abolì le tasse per le Venetiae nell’anno 537, in contemporanea convertendo le tasse dell’Istria da moneta sonante a rifornimenti forzosi di grano per il resto del regno. L’economia del nord Italia si avvitò in una spirale negativa, mentre si instaurava una dura economia di guerra. La carestia continuerà negli anni seguenti, mietendo centinaia di migliaia di vittime solo in Italia e indebolendo i corpi e le difese immunitarie di tutti i popoli del mediterraneo: delle pestilenze locali scoppiarono immediatamente, in attesa della grande marea nera che sommergerà il mediterraneo di qui a pochi anni.

Il vulcano Hekla, uno dei potenziali “colpevoli” della crisi climatica tardoantica

Il vantaggio di chiamarsi Franchi

Per far fronte alla disastrosa situazione militare, Teodato aveva bisogno di alleati. Il Re provò ad intavolare trattative con i Re dei Franchi: gli eredi di Clovis erano i suoi figli Childebert e Chlotar e suo nipote Theodebert, che è quello di cui ci occuperemo di più nella nostra storia, visto che i suoi domini dell’Austrasia confinavano grosso modo con l’Italia. Già nel 534, quando il regno d’Italia era entrato in crisi, i Franchi avevano attaccato quello che restava del regno Burgundo, da anni sotto la protezione di Ravenna, conquistandolo. Ora i loro eserciti minacciavano la Provenza, il territorio riconquistato da Teodorico nel 508.

Teodato offrì un’alleanza ai Franchi, promettendo di cedere l’indifendibile Provenza e consegnandogli un tributo di 50.000 solidi d’oro, o circa 700 libbre d’oro. Lo storico Vitiello ritiene che questo fosse il cosiddetto wergild, il pagamento del debito di sangue del diritto germanico: uccidendo Amalasunta, infatti, Teodato aveva ucciso anche una parente dei Re franchi, visto che Amalasunta era la figlia della sorella di Clovis. Comunque sia né l’offerta della Provenza né il pagamento del wergild ottennero l’effetto sperato: in contemporanea, infatti, Giustiniano fece giungere i suoi ambasciatori presso i Franchi, che portavano un messaggio dall’imperatore: “I Goti, dopo aver invasa e occupata l’Italia, che è nostra, non solo si sono categoricamente rifiutati di restituirla ma hanno commesso contro di noi atti di ingiustizia intollerabili e siamo stati costretti a dichiarare loro guerra. Sarebbe giusto che voi vi uniste a noi, non solo per la nostra comune fede ortodossa, ma anche per l’odio che entrambi nutriamo per i Goti”. Non c’è dubbio che Giustiniano unì offerte di sovvenzioni e di nuovi territori per i Franchi, forse promettendo di cedere loro la Provenza.

I Franchi, indecisi sul da farsi, per ora non si schierarono nella guerra in Italia, anche se alcuni dei loro uomini razziarono il nord Italia e in particolare la città di Asti, peggiorando ancora la situazione alimentare della zona.

Le vacanze di Papa Agapito

Papa Agapito

A Costantinopoli, nel frattempo, era arrivato già ad inizio 536 un ospite d’eccezione: ma ovviamente il nostro Papa Agapito, il secondo Papa a visitare Nuova Roma. La sua missione ufficiale era stata di negoziare con Giustiniano un cessate il fuoco e un accordo vantaggioso per Ravenna, a tal fine Teodato aveva chiesto la consegna in pegno del tesoro di San Pietro, le reliquie e le ricchezze che i Papi avevano già accumulato in due secoli passati nel cuore del sistema politico romano.

Una volta a Costantinopoli però, Agapito decise di utilizzare i suoi poteri di primo patriarca della cristianità – rivendicati da Papa Ormisda, se vi ricordate ai tempi di Teodorico – per deporre il patriarca di Costantinopoli, Antimo, che a suo dire era pericolosamente vicino alle tesi monofisite. Il problema era che Antimo era anche molto vicino a Teodora, che lo aveva tenacemente voluto come Patriarca di Nuova Roma. L’idea che mi sono fatto è che Antimo fosse parte di un nuovo schema di Giustiniano e Teodora volto a riconciliare calcedoniani e monofisiti: per farlo, il primo passo era di avere un patriarca a Costantinopoli che fosse un ortodosso ma che non vedesse i monofisiti come il demonio e fosse pronto a qualche ginnastica teologica per giungere ad un accordo almeno con le correnti più moderate tra i monofisiti. Tutti questi astuti progetti si scontrarono con la solita indifferenza del papato nei confronti del monofisismo: non c’erano monofisiti in occidente e il Papa non aveva alcun incentivo a cercare una riconciliazione con loro. Al contrario, aveva tutto l’interesse a riaffermare i dogmi di Calcedonia, il primo concilio della chiesa dove il papato aveva fatto pesare la sua posizione teologica, grazie alla oramai leggendaria figura di Papa Leone. Un gruppo di monaci costantinopolitani, una sorta di cani da guardia dell’ortodossia calcedoniana, protestarono presso Agapito e questi utilizzò il nuovo potere papale di supremazia sulle chiese orientali e depose Antimo.

Mr. e Mrs. Underwood non presero per niente bene l’intromissione del Papa. Giustiniano arrivò a minacciare l’esilio per l’anziano prelato. Secondo il liber pontificalis, una fonte che tende ad esaltare le figure dei Papi, Agapito avrebbe risposto: “Con impaziente desiderio sono giunto a Costantinopoli per incontrare il cristianissimo imperatore Giustiniano. Al suo posto trovo un Diocleziano, le cui minacce però non mi terrorizzano”. Direi che Teodato abbia scelto una persona davvero diplomatica per la sua ambasciata: consiglierei in generale ai Re Ostrogoti di evitare di inviare Papi in oriente, non pare avere un buon effetto.

La questione fu risolta dall’improvvisa e imprevista morte del Papa, il 22 aprile del 536. Una morte, come dire? con un tempismo perfetto, e sospetto, più di uno storico sospetta che ci fosse lo zampino di Giustiniano e Teodora. Dalle storie segrete di Procopio sappiamo che Teodora aveva in mente un perfetto sostituto per Agapito: Vigilio, apocrisario del Papa, ovvero il suo ambasciatore a Costantinopoli. I più attenti magari si ricorderanno che Vigilio era il candidato prescelto da Papa Bonifacio per succedergli, mossa che però non riuscì al Papa Ostrogoto. Curioso che Teodora favorisse tanto un candidato che era stato vicino alla fazione ostrogota, ma Vigilio non sembra essere stato affiliato ad alcun partito, se non quello di Vigilio.

Procopio riporta che Teodora offrì a Vigilio l’appoggio imperiale alla sua elezione, più 700 libbre d’oro necessarie per ungere la chiesa romana. In cambio chiedeva solamente una cosa: una certa flessibilità teologica nei confronti del monofisismo e la reinstallazione sul trono patriarcale di Antimo. Anche in questo caso, credo che Teodora giocasse una partita di concerto e non in opposizione a Giustiniano: questi voleva riconciliare la chiesa orientale, per farlo aveva bisogno di un Papa che non si mettesse di mezzo e non si opponesse all’inevitabile compromesso che sarebbe stato necessario per calmare i Monofisiti. Vigilio, con la sua diciamo “flessibilità morale”, sembrava il candidato perfetto.

I desideri di Giustiniano e Teodora furono però frustrati da Teodato: appena seppe che Agapito era morto a Costantinopoli, Teodato si decise a nominare lui stesso un successore. Teodato andò contro i precedenti e decise di non elevare nessuno dei diaconi di Papa Agapito, tutti uomini di Amalasunta. Si decise invece per un suddiacono con una particolare storia familiare: il suo nome era Silverio ed era il figlio di Hormisdas, il Papa Persiano: lo ricordate? Sta di fatto che quando Vigilio giunse a Roma, pochi giorni dopo, trovò di fronte il fatto compiuto: per la seconda volta il fato aveva voluto impedirgli di diventare Papa. Qualcosa mi dice però che Vigilio otterrà alla fine la carica dei suoi desideri.

Vedi Napoli e muori

Torniamo a Belisario, accampato attorno alle formidabili mura di Napoli. Belisario accolse una delegazione di cittadini della città che gli dissero di proseguire senza prendere Napoli: “Non agisci correttamente, o generale, muovendo guerra a noi, cittadini romani! Noi non possiamo arrenderci, abbiamo consegnato ostaggi a Teodato e abbiamo una forte guarnigione gotica. Faresti meglio a continuare per Roma: se la città cadrà, anche Napoli seguirà poco dopo. Se, com’è possibile, sarete sconfitti, Napoli non vi servirà a nulla”.

Belisario, nel racconto di Procopio, rispose in questo modo: “Se noi abbiamo preso una saggia decisione nel venire qui non è questione che daremo da giudicare ai Napoletani. Dovreste invece preoccuparvi del vostro interesse: accogliete in città l’esercito dell’Imperatore, che è venuto per ridare a voi e a tutti gli italiani la libertà. Quanto ai Goti di stanza in città, noi offriamo loro la possibilità di arruolarsi nel nostro esercito o tornare alle loro case, senza alcuna rappresaglia. Se invece oserete prendere le armi contro di noi, tratteremo come nemico chiunque ci troveremo di fronte”. Detto questo, Belisario promise una forte ricompensa agli ambasciatori dei napoletani se avessero convinto il resto della popolazione ad arrendersi.

Napoli in epoca tardo-romana

A Napoli si scatenò un’accesa discussione sul da farsi: l’ambasciatore Stefano e Antioco, un siriaco che viveva a Napoli per i suoi commerci, sostennero la causa imperiale, mentre due notabili della città di nome Pastore e Asclepiodoto sostennero la causa nazionale. L’opinione della folla sembrò pendere verso la resa e anche la guarnigione gotica parve vacillare, quando Pastore e Asclepiodoto arringarono i loro concittadini: la loro fedeltà andava al loro governo, era ignobile comportarsi da traditori. Ai due si unirono i capi della nutritissima comunità ebraica, che assicurarono il loro supporto sia militare che finanziario alla resistenza: gli ebrei sapevano benissimo che l’Impero era molto meno tollerante della loro religione di quanto lo fosse il Regno d’Italia: non avevano dimenticato il trattamento loro rivolto da Teodorico e dalla sua discendenza. Infine parlarono i capi della guarnigione gotica: le mura erano salde, il loro presidio numeroso. Gli imperiali erano pochi, la città rifornibile via mare. Avrebbero certamente potuto resistere. Napoli decise di rifiutare l’offerta di Belisario e si preparò all’assedio.

Belisario, per la prima volta nelle sue campagne occidentali, si trovò di fronte alla resistenza combinata di romani e Goti. Ovviamente non si scoraggiò e diede ordine di dare l’assalto alle mura: fu però respinto diverse volte con la perdita di molti uomini. Belisario fece tagliare gli acquedotti della città ma all’interno delle mura c’erano pozzi per il rifornimento dell’acqua, la città continuò a resistere con determinazione.

I Napoletani riuscirono a inviare dei messaggeri a Roma, dove Teodato era sempre molto preso dalla sua consueta attività di far nulla. Nessun soccorso giunse a Napoli, l’esercito d’Italia non si mosse da Roma e da Ravenna. Belisario continuò l’assedio della città campana con il suo esercito tascabile, indisturbato.

L’acquedotto, l’albero e la vecchia

Dopo alcune settimane, Belisario si accorse però che non avrebbe mai preso la città per fame: la città era ben rifornita e un assalto diretto era oramai chiaramente fuori questione. Stava iniziando a contemplare di abbandonare l’assedio per marciare su Roma, in modo da non essere sorpreso dall’inverno in quella posizione, quando il generalissimo ebbe un colpo di fortuna.

Un soldato imperiale, incuriosito dall’acquedotto di Napoli, decise di camminarci sopra dal punto in cui Belisario lo aveva fatto tagliare, lontano dalla città, fino alle mura di Napoli. Percorrendo l’acquedotto, oramai privo d’acque, il soldato vide che l’opera entrava infine in città attraverso un’enorme masso nel quale era stato scavato un piccolo cunicolo, troppo stretto per far passare una persona. Il soldato si accorse però che il cunicolo non era molto lungo, forse sarebbe stato possibile passare se i genieri romani fossero riusciti ad allargarlo un po’.

Napoli antica, percorso delle mura e maglia viaria sovrapposta a quella moderna.

Il soldato riferì la cosa al suo ufficiale, uno dei bucellarii di Belisario, che ne parò direttamente al generale: Belisario diede ordine di tentare l’impresa e un gruppo di soldati si recò sul posto, scavando silenziosamente con dei chiodi e scalpelli per non fare rumore. Dopo un po’ di tempo i soldati avevano allargato il cunicolo in modo che era possibile passarci per un uomo dotato di scudo e corazza. Tutto era pronto per un’avventura dal sapore omerico.

Quella notte Belisario diede ordine a 400 soldati di portarsi all’ingresso del cunicolo, con loro c’erano due trombettieri che avrebbero dato il segnale quando fossero stati tutti all’interno delle mura. Belisario si recò presso le mura, dall’esterno, con uno dei suoi generali, un goto di nome Bessa. Al resto dell’esercito diede l’ordine di tenersi pronti con le armi in pugno. Il compito di Bessa fu di urlare ad alta voce ai Goti presenti nella torre più vicina all’acquedotto, incitandoli a defezionare nella loro lingua e allo stesso tempo coprendo con le sue urla il rumore dei soldati sull’acquedotto.

A Napoli sono state trovate tre barche nell’antico porto, nel quadro dei lavori della metropolitana a Municipio. Ricostruzione del loro aspetto.

Questi riuscirono a passare, ma dopo il masso l’acquedotto continuava su alte arcate che rendevano impossibile scalarle verso il basso. L’acquedotto per giunta era anche coperto, impedendo ai soldati di uscire o vedere alcunché: dopo alcune centinaia di metri proseguiva però a cielo aperto, avendo di fianco una casa diroccata nella quale viveva una vecchia da sola, in totale povertà. I soldati erano sempre più in difficoltà, non sapevano come scendere e andavano affollandosi sull’acquedotto, quando uno di loro decise di saltare sul tetto della vecchia casa: qui trovò la vecchia, la minacciò di morte e si comprò in tal modo il silenzio. Poi gettò una corda sopra l’acquedotto e ne legò un’estremità ad un ulivo che cresceva di fianco alla casa. I 400 poterono allora calarsi lentamente fino a terra, reggendosi sulla corda. A questo punto si recarono verso le mura a nord, dove Bessa e Belisario attendevano impazienti. Pochi minuti dopo le guardie di due torri erano morte e Belisario diede l’ordine di attaccare le mura che furono prese in vari punti, ma non sul lato del mare: qui gli ebrei della città resistettero tenacemente, ancora più dei Goti, ma al sorgere del sole furono sopraffatti. Allora la città fu presa, e iniziò il massacro. Molti dei napoletani furono uccisi dall’esercito imperiale, mentre donne e bambini venivano trascinati via per essere fatti schiavi. Tutta la ricchezza mobile della città fu saccheggiata.

Teodato fa una brutta fine

Dopo le prime fasi della cattura della città, Belisario riuscì a riprendere il controllo dei suoi: donne e bambini furono restituiti alle loro famiglie, ma non le ricchezze della città. I due capi della resistenza antimperiale persero la vita: Pastore per cause naturali, mentre Asclepiodoto fu fatto a pezzi da una folla di cittadini infuriati per il ruolo che aveva avuto nella loro disgrazia. Con Napoli nelle sue mani, ora Belisario aveva un grande porto da usare come base per i rifornimenti, mentre la via per Roma era aperta.

Moneta di Teodato

Nel novembre del 536 la notizia della caduta di Napoli giunse a Roma e i Goti finalmente decisero che erano stanchi del loro inconcludente Re: Teodato non aveva nulla né del coraggio di Teodorico, il Re che aveva guidato coraggiosamente in guerra il suo popolo, né della sottigliezza e intelligenza di Amalasunta. Mentre il suo regno andava a fuoco, Teodato aveva affidato ad altri comandanti le inconcludente operazioni militari, venendo perfino tradito da suo genero. Aveva negoziato in modo sempre più disperato con Giustiniano, senza ricavarne alcunché. Gli Ostrogoti erano stati fedeli alla casata degli Amali per cento anni, ma ora era arrivato il tempo di tornare alle loro antiche tradizioni, era tempo di abbandonare il principio dinastico per ritrovare quello dell’elezione del più forte tra loro.

Al comando delle truppe che si frapponevano tra Napoli e Roma, a Terracina, c’era il dux Witigis, una delle guardie del corpo di Teodato, e di Atalarico prima di lui. Witigis, o Vitige in italiano, si era distinto nella guerra di Sirmio e poi probabilmente in ogni altro conflitto combattuto dall’esercito d’Italia sotto Teodorico. Con lui, i Goti decisero quindi di tornare all’antico: al diavolo i Romani, le loro successioni dinastiche e le loro procedure legali: per simboleggiare la cosa, ho deciso di chiamare da ora in poi il Re con il suo nome gotico Witigis, e non più con la versione italianizzata Vitige.

All’acclamazione, Witigis fu sollevato sul suo scudo come i grandi Re dei Goti del passato. Alla notizia della ribellione, Teodato si diede alla fuga e prese la via per Ravenna. Witigis inviò contro di lui un certo Optari, che aveva ragione di odiare Teodato. Nelle parole di Procopio: “questi si mise all’inseguimento di Teodato con grande ardore ed entusiasmo, senza fermarsi né di giorno né di notte. Lo raggiunse mentre era ancora in cammino, lo mise riverso a terra e lo sgozzò come una vittima sacrificale. Questa fu la fine di Teodato e del suo regno, che aveva raggiunto il terzo anno”.

Nella storia d’Italia è credo difficile trovare un regno più disastroso di quello di Teodato: la congiuntura che gli fu servita era molto delicata, con Giustiniano alla ricerca della minima scusa per invadere l’Italia dopo il successo della campagna d’Africa. Invece di sforzarsi di mantenere la calma e la collaborazione con la regina, Teodato fece arrestare e poi uccidere Amalasunta, fornendo a Giustiniano la perfetta copertura per la guerra: e se davvero fu spinto da Teodora a questo delitto, la sua insipienza lo portò a cacciarsi in quella che era con tutta probabilità una trappola. Il suo continuo tentennare nelle negoziazioni con Giustiniano portò alla guerra. Una volta scoppiato il conflitto, lo gestì in modo incompetente, tanto da permettere ad un piccolo esercito di marciare senza grandi problemi fino alle porte di Roma. Teodorico aveva fatto di tutto pur di tenere Teodato lontano dal regno: anche in questo, il grande Re aveva visto lungo.

I colli fatali di Roma

Una volta che venne a sapere che Teodato era morto, Witigis si recò a Roma, facendo rapidamente il punto della situazione: Belisario stava arrivando, Witigis aveva al suo comando la guarnigione romana, rafforzata di recente, ma il grosso delle forze militari dei Goti erano ancora concentrate a Nord e in Gallia, per proteggerla da un’invasione dei Franchi. Non era certo il modo migliore di iniziare il suo regno, ma capì che era necessario abbandonare Roma e recarsi a Ravenna, in modo da preparare il suo popolo e quello che restava del regno ad un conflitto di lunga durata. Certo, c’era la questione della difesa di Roma: Witigis aveva buone ragioni di dubitare della fedeltà dei senatori e del resto della popolazione della capitale: la rapida successione di regnanti e l’arrivo al potere di un Re che non apparteneva alla quasi-imperiale casata degli Amali non era uno sviluppo grato ai Romani. Witigis decise comunque di lasciare una forte guarnigione a difesa della città: 4.000 tra i migliori combattenti dei Goti: un numero sufficiente a resistere a Belisario, se fossero stati coadiuvati dalla popolazione, come successo a Napoli.

A tal fine Witigis si recò in Senato e poi fece un discorso nel foro: ricordò al Senato e al Popolo Romano il buon governo di Teodorico, li esortò a rimanere fedeli al loro governo, chiedendo solenni giuramenti di fedeltà. Poi partì per Ravenna, portando con sé un buon numero di senatori: come ospiti, ma anche come ostaggi.

Belisario dovette lasciare alcune centinaia dei suoi soldati a guardia di Napoli e di Cuma, l’altra importante fortezza della Campania. Con il resto dei suoi, e Procopio, marciò sulla via Latina, che da Capua giunge a Roma attraverso le fascia pedemontana del Lazio, grosso modo seguendo il percorso della moderna A1.

A poca distanza dalla città fu raggiunto da un messaggero di Papa Silverio: il Senato aveva deciso di invitare Belisario ad entrare in città, che gli sarebbe stata consegnata senza combattere. I senatori romani volevano evitare quello che era accaduto ai Napoletani: ovvero il saccheggio della loro città.

Quando Belisario era a poca distanza dalle mura di Roma, il comandante dei Goti comprese che i cittadini dell’antica capitale intendevano consegnare la città. I suoi uomini non erano sufficienti a combattere su due fronti, tenere le lunghissime mura di Roma senza il supporto dei cittadini era impensabile. Leuderi, questo il comandante dei Goti, si recò in Senato: chiese il permesso ai suoi uomini di ritirarsi senza essere ostacolati dalla popolazione civile, permesso che fu ovviamente accordato. Quanto a lui, Leuderi decise di restare a Roma, da solo: forse per la vergogna di aver fatto perdere al suo Re, senza colpo ferire, la più grande città dell’occidente.

Belisario entra a Roma

E fu così che, il 9 dicembre del 536, l’esercito dei Goti uscì dalla porta Flaminia, dove oggi è Piazza del Popolo. Nello stesso istante, dall’altra parte della città, entrava Belisario alla testa dei suoi uomini, attraverso la porta Asinaria. Le parole di Procopio tremano di orgoglio e di emozione, l’eccitazione di un romano che ritrova la sua antica capitale: “dopo un periodo di sessant’anni, Roma tornò di nuovo sotto il governo dei Romani, nel nono giorno dell’ultimo mese che dai Romani è detto December, nell’undicesimo anno da che l’imperatore Giustiniano era sul trono”. Si può dire che davvero l’Impero fosse tornato sui colli fatali di Roma, per citare una famosa frase, anche quella gravida di conseguenze terribili per l’Italia.

È importante non bersi intera la propaganda di Procopio, a cui penso lui stesso credesse fermamente e che è entrata oramai nel sentire comune: noi sappiamo bene che in questi sessant’anni Roma non era stata affatto al di fuori del sistema imperiale di governo, sia Odoacre che Teodorico che i suoi successori avevano governato uno stato romano. Eppure non dubito che fu questo quello che pensarono Procopio e Belisario, alla conclusione della loro incredibile cavalcata attraverso il sud Italia: avevano vinto, Roma era riconquistata. Lo stato degli Ostrogoti si era dimostrato altrettanto fragile e debole di quello dei Vandali. Un ultimo colpo di grazia, una battaglia campale, e l’Italia sarebbe stata tutta nelle loro mani, proprio come in Africa.

Ma la guerra era ancora lunga e perfino Roma, la città appena riconquistata all’Impero, sarebbe passata di mano ancora diverse volte prima della fine. Gli Ostrogoti vivevano infatti quasi tutti a nord di Roma, Belisario ancora non aveva affrontato che un’ombra del loro potere. Inoltre gli italo-romani del centronord avranno un atteggiamento molto più diviso e conflittuale di quello degli italiani del centrosud, dividendosi tra chi parteggerà per il governo di Ravenna e chi per quello di Costantinopoli.

Procopio riporta una leggenda che è una sorta di omen minaccioso sul prosieguo della guerra, il tipico caso di profezia con il senno di poi, ovvero una profezia che anticipa un futuro che è già conosciuto da chi la scrive. Vale la pena lo stesso di riportare la storia: Teodato, prima della morte, avrebbe consultato un indovino ebreo per conoscere il futuro della guerra contro l’Impero. L’indovino prescrisse di chiudere in tre gabbie separate dieci maiali ciascuna, dando ad una il nome di Goti, ad un’altra dei Romani – si intende in questo caso gli italiani – e all’ultima dando il nome di “soldati dell’Imperatore”. Poi attesero qualche giorno: passato il tempo stabilito, l’indovino e il Re andarono a visitare le tre gabbie: trovarono che tra quelli a cui era stato dato il nome di Goti, otto erano morti e due erano vivi. Dei maiali con il nome di “soldati dell’imperatore” la maggior parte erano vivi, mentre quella dei Romani aveva cinque maiali vivi e cinque morti, ma tutti avevano perso il pelo. Da questo Teodato avrebbe vaticinato il destino della guerra: la maggior parte dei Goti sarebbe morta, gli imperiali avrebbero avuto poche perdite e degli abitanti dell’Italia ne sarebbe morta la metà, ma tutti avrebbero perso i loro beni e ricchezze.

È solo una storia, certo. Presto sapremo però come mai fosse ritenuta da Procopio come una previsione veritiera. Perché nel prossimo episodio Witigis chiamerà a raccolta tutte le forze del suo regno per espellere l’invasore: Belisario si rinchiuderà a Roma, una città che rimpiangerà presto di avere aperto le porte ai soldati dell’Imperatore. Perché Roma sta per passare attraverso una prova e una calvario di proporzioni mai viste neanche nella sua piuttosto recente storia di saccheggi e privazioni. Nel prossimo episodio, infatti, parleremo del più lungo assedio della millenaria storia di Roma. Un assedio che nulla ha da invidiare alla guerra di Troia.

Grazie mille per l’ascolto! Grazie ancora a Riccardo Santato per aver prestato la voce a Belisario!

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