L’esercito romano non è mai stato una entità immobile: modifiche, miglioramenti, cambi di strategia sono stati adottati dai romani in tutta la loro storia. In questo sesto secolo l’esercito romano, dopo un lungo periodo vissuto sulla difensiva, tornerà all’offensiva. L’esercito che cercherà di riconquistare l’occidente e combatterà battaglia dopo battaglia contro i Persiani non sarà ovviamente simile all’esercito alto imperiale che tutti conoscono, sappiamo bene quanto giù l’esercito tardoimperiale di Costantino, Giuliano e Valentiniano fosse diverso da quella foto di esercito romano che ci portiamo in tasca.
La novità è che l’esercito di Giustiniano avrà elementi di differenziazione anche con quello tardoimperiale: siamo di fronte all’ennesima mutazione di pelle dell’esercito romano. Scopriamo assieme in che modo.
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I tanti eserciti romani
L’esercito romano è spesso visto e rappresentato come un esercito uniforme e immobile, eppure l’esercito di Giustiniano non è altro che la quinta incarnazione dell’esercito romano.
L’esercito della prima Repubblica, nel quarto secolo avanti cristo, adottava in sostanza la formazione della superpotenza militare dell’epoca: la falange (anche se nella sua versione oplitica, e non tebano-macedonica). La falange è un vero carrarmato una volta lanciato, ma ha dei limiti di movimento e una notevole lentezza, inoltre mal si adatta a territori accidentati, perché ad ogni ostacolo la falange deve rompere la formazione per passare oltre. I Sanniti utilizzarono questa caratteristica a loro vantaggio, infliggendo una serie di sconfitte brucianti ai Romani.

Questo convinse i romani a passare all’esercito manipolare della Repubblica classica, l’esercito che conquisterà l’Italia e poi il mediterraneo. Si trattava di un esercito di cittadini, in gran parte della classe dei proprietari terrieri, organizzati in piccole unità dette “manipoli”. Ogni manipolo era formato da circa 150 uomini, unità flessibili e capaci di attaccare da ogni lato i soldati nemici. C’è di più, l’esercito manipolare era organizzato in tre file: gli hastati davanti, i Principes al centro e i Triarii in retroguardia e si disponeva in una formazione a scacchiera. Gli hastati erano i primi ad ingaggiare il nemico, i Principes sostenevano gli Hastati in caso questi ne avessero avuto bisogno, mentre i veterani Triarii non dovevano in teoria mai venire alle mani se non in casi disperati.
L’esercito manipolare si dimostrerà talmente flessibile da sconfiggere sanniti, galli e cartaginesi, fino a vincere la sua incarnazione precedente a Cinoscefale, sconfiggendo la famosa falange macedonica. Eppure verso la fine del II secolo avanti cristo l’esercito manipolare mostrò dei limiti notevoli contro le immense armate germaniche dei Cimbri e dei Teutoni che di nuovo inflissero delle cocenti sconfitte a Roma. Il massacro di soldati veterani e l’esaurimento del tradizionale bacino di reclutamento formato dai piccoli proprietari terrieri costrinse Roma all’impensabile, ovvero a passare ad un esercito professionale. Notoriamente fu Caio Mario a innovare l’esercito: da allora in poi l’esercito romano sarà un esercito professionale, pagato dall’erario e composto da soldati spesso reclutati tra gli strati più poveri della popolazione, a differenza dell’esercito manipolare.
L’esercito di Caio Mario non si differenziò solo nel reclutamento, ma anche nell’abolizione del sistema manipolare, oramai ritenuto inadeguato e superato: le legioni furono riorganizzate in Coorti di 500 uomini e fu abolita l’antica distinzione tra hastati, principes e triarii. Fu questo l’esercito delle guerre civili repubblicane e poi l’esercito del principato e della lunga pax romana, pur con modifiche nell’equipaggiamento e in mille altri particolari. L’essere l’esercito dei tre secoli più famosi della storia romana lo ha trasformato nell’immaginario collettivo nell’unica tipologia di esercito romano.
L’esercito del tardo impero
Eppure noi sappiamo che c’è ancora un quarto tipo di esercito romano: quello del tardo impero. Un esercito formato da corpi d’armata mobili – il comitatus – ed eserciti di guardia locale detti limitanei, un esercito composto di legioni più piccole – sui 1000 uomini – e più specializzate. Con una fanteria che torna ad usare lancia e scudo e una cavalleria che si rafforza e specializza in unità di arcieri e di clibanarii, la cavalleria pesante tardoantica. Questo nuovo esercito nasce dalla sconfitta delle legioni del principato ad opera dei Goti e del riorganizzato impero persiano sasanide. Non è quindi un’involuzione dell’esercito romano, ma un’evoluzione per far fronte ad una nuova minaccia per la quale le legioni del principato si erano dimostrate totalmente inadeguate.
L’esercito del tardo impero ebbe notevole successo: batté i Goti sotto Claudio II, Zenobia sotto Aureliano, i Persiani sotto Diocleziano e praticamente tutti i popoli confinanti sotto i tetrarchi e la dinastia di Costantino. Le sue sconfitte, nella spedizione di Giuliano e ad Adrianopoli, furono spesso dovute ad accidenti del destino o a scelte di natura logistica: paradossalmente l’esercito di Giuliano non fu mai sconfitto da Shapur II. I Romani non trovarono dunque nessuna ragione di modificarlo davvero fino alla metà del quinto secolo.

A differenza dei persiani e dei Goti, gli Unni inflissero una serie spettacolare di sconfitte all’esercito del tardo impero che si dimostrò completamente inadeguato a fermare la mortale combinazione di potenza militare messa su da Attila: l’esercito degli Unni era composto da tutti i popoli germanici di confine oramai abituati a combattere come il comitatus, da un buon numero di sudditi ex romani capaci di impiegare la straordinaria arte degli assedi dei Romani, il tutto sormontato da un nerbo di cavalleria unnica, dotata del micidiale arco delle steppe e della straordinaria capacità di colpire il nemico, ritirarsi in buon ordine continuando a far piovere frecce sul nemico per poi attaccare di nuovo in qualunque punto debole della formazione nemica.
Se i Romani volevano sopravvivere, dovevano trovare un modo di rispondere alla forza militare dei “Borg” della steppa, gli Unni
La fine dei Borg
Spero di aver spiegato bene nel corso del podcast che i Romani non avevano alcuna soluzione militare a questo problema: solo la combinazione del più grande generale romano dell’epoca unito a tutti i popoli foederati ai romani era riuscita a fermare Attila in Gallia.
L’impatto con una macchina da guerra con chiari vantaggi militari rispetto all’esercito del tardo impero non poteva non lasciare tracce sull’esercito romano. La vera caratteristica unica dell’esercito romano è la sua capacità di adattarsi al nemico, di continuare ad innovare in modo da mantenere il vantaggio comparato militare rispetto ai vicini, o almeno di annullarne i vantaggi.
La coalizione di Attila si dissolse nel vento a metà quinto secolo, ma nulla garantiva ai Romani che non si sarebbe di nuovo formata o che un nuovo popolo armato delle conoscenze delle steppe non fosse fuoriuscito dalla nebbia che avvolgeva il grande mare d’erba. I Romani compresero allora che avevano bisogno di un nuovo esercito, la quinta incarnazione dell’armata a difesa di Roma. Sebbene preceda il più famoso generale dell’epoca, lo chiameremo l’esercito di Giustiniano.
Strategikon

Una delle fonti principali di questo episodio è un documento straordinario, frutto probabilmente del lavoro dell’imperatore Maurizio, sul finire del sesto secolo: molte delle informazioni estremamente dettagliate dello Strategikon, il manuale del perfetto generale bizantino, sono rilevanti anche per il nostro periodo e corrispondono alla seconda fonte principale per l’esercito di Giustiniano: ma ovviamente la narrazione delle guerre di Procopio, il quale all’inizio della sua opera sottolinea come le vittore ottenute grazie ai cavalieri a cavallo non sono meno gloriose di quelle dei fanti dell’antichità: “Vi sono per esempio alcuni che chiamano semplicemente “arcieri” i soldati di oggi, riservando la qualifica di combattenti a quelli antichi e credono che l’eroismo del passato si sia trasmesso assai poco alle nostre generazioni. Ma in tal modo, essi dimostrano di avere un’opinione lontana dalla realtà. Ai tempi di Omero infatti gli arcieri erano chiamati con questo nome e associati ai vigliacchi, erano privi di cavallo e non avevano né scudo né lancia per difesa personale ma andavano in battaglia a piedi ed erano costretti a difendersi dietro gli scudi altrui. Tendevano inoltre gli archi solo fino al petto, scoccando frecce che erano inevitabilmente fiacche e in genere inoffensive. Comparate questo invece con i nostri arcieri che vanno in battaglia a cavallo, indossando la corazza e protetti da schinieri fino al ginocchio. Al loro fianco destro pende la faretra, al fianco sinistro la spada. Ve ne sono inoltre di quelli che portano una lancia e sulle spalle un piccolo scudo che ripara tutt’intorno il viso e il collo. Per di più cavalcano benissimo e sono anche capaci, facendo roteare rapidamente il cavallo, di lanciare senza difficoltà i dardi da destra e da sinistra e di inseguire i nemici colpendoli mentre fuggono. Tendono poi il nervo dell’arco all’altezza della fronte, fino all’orecchio destro e scoccano la freccia con tale forza da uccidere sempre chi si trova a tiro, né vi è scudo o corazza in grado di sostenere l’urto. Ma c’è pur sempre chi, non tenendo minimamento conto di questi fatti, venera e ammira i tempi passati e non apprezza il progresso.”
Questo pezzo, proprio all’apertura del libro di Procopio, subito dopo l’incipit dello scorso episodio, è a ragione considerato uno dei passaggi chiave dell’opera. Il super-conservatore Procopio si fa qui difensore del progresso, un sentimento molto raro in un’epoca dove per gli intellettuali il cambiamento aveva di solito un’accezione negativa, come se fosse un’involuzione rispetto ad una supposta epoca d’oro passata. In questo caso però Procopio vuole sostenere che i soldati suoi contemporanei non sono da meno dei soldati delle grandi storie sul passato.
Per questa ragione Procopio ci dà un quadro sorprendentemente vivido e chiaro dell’equipaggiamento e del modo di combattere dei cavalieri dell’esercito di Giustiniano. Per comprendere questo nuovo, sorprendente esercito romano va innanzitutto detto che in seguito al collasso dell’impero unnico dopo la battaglia del Nedao, nel 454, molte bande di combattenti unnici si rifugiarono nell’Impero orientale, venendo arruolate come bande di foederati nell’esercito romano. Con loro portarono le tattiche, le armi e le conoscenze dei Borg della steppa, oltre che il disprezzo per la fanteria.

L’esercito romano iniziò quindi un processo di rapido cambiamento: la cavalleria romana iniziò ad apprendere le tecniche dei nomadi della steppa che si erano dimostrate così efficaci contro gli eserciti tardo imperiali. La cavalleria, sin dai tempi di augusto, aveva utilizzato la lancia come sua arma principale, solo reparti di cavalleria di valore inferiore utilizzavano armi da lancio, di solito il giavellotto. Queste unità di cavalleria furono riaddestrate all’utilizzo dell’arco composito asimmetrico degli Unni oltre che alle difficilissime tecniche utilizzate da questi ultimi, come tirare con l’arco al contrario, mentre il cavallo va nella direzione opposta, o compensare l’asimmetria dell’arco con una correzione della direzione della freccia. Oltre a queste tecniche, i cavalieri dovettero apprendere la tattica della steppa: contro eserciti di fanteria, i cavalieri nomadi evitavano di ingaggiare le dense formazioni di fanteria pesante, limitandosi ad inondarle di micidiali frecce da lontano, indisturbati. Contro la cavalleria pesante, gli arcieri nomadi con corazza più leggera tiravano alcune raffiche di frecce, incitando i cavalieri a caricare, poi si ritiravano prima che i catafratti potessero ingaggiarli. Queste ritirate spesso attiravano i loro avversari in imboscate più in là, oppure semplicemente lasciavano che i cavalli della cavalleria pesante si stancassero, sfaldandone la formazione e rendendoli così vulnerabili a rapidi contrattacchi. Considerate che durante tutta la durata di questi falsi attacchi e false ritirate i cavalieri della steppa continuavano a far piovere micidiali frecce che colpivano accuratamente attraverso le più resistenti armature, se a distanza relativamente ravvicinata.
Queste capacità erano innate negli Unni perché le apprendevano dall’infanzia, passando un’intera vita a cavallo: riaddestrare i cavalieri romani ad utilizzare queste tecniche fu un’impresa colossale, che richiese anni di apprendimento e di combattimento a fianco dei foederati unnici. Con il tempo i Romani riuscirono però ad addestrare nuove unità di hippo-toxotai, gli arcieri a cavallo romani che costituiranno la vera arma micidiale dell’esercito di Costantinopoli quando questo si recherà in occidente, un occidente dove invece gli eserciti non passarono attraverso lo stesso processo e restarono in sostanza gli stessi che avevano combattuto ad Adrianopoli.
La nuova cavalleria romana
La cavalleria raggiunse una tale importanza che oramai non era più schierata sulle ali a difesa della fanteria, ma proprio al centro dello schieramento o comunque in posizione prominente. Di fronte di solito venivano schierati i Koursoures, le unità di arcieri a cavallo vere e proprie, armate del loro micidiale arco, un piccolo scudo e una spada per i combattimenti ravvicinati. Questi soldati erano i primi ad ingaggiare il nemico: Procopio riferisce che a differenza degli arcieri persiani la loro principale qualità non era il numero di frecce scoccate ma la loro precisione e letalità.
Se i Koursoures riuscivano a causare abbastanza danni e confusione nelle formazioni nemiche, l’esercito di Giustiniano poteva a questo punto utilizzare i Defensores, le unità di cavalleria pesante del tempo, armate sempre di arco ma con armature più pesanti e dotati anche di una lancia. Le loro cariche dovevano spezzare la resistenza dei nemici, in modo che poi i Koursoures potessero continuare a coprirli di frecce una volta che questi si fossero volti in fuga.

La fanteria
Il grosso dell’esercito continuava ad essere composto dalla fanteria, armata come durante il tardo impero di scudo, lancia e spada. La nuova attenzione dedicata alla cavalleria portò al declino del prestigio e della qualità di queste unità, mentre la maggior parte dei migliori combattenti preferiva arruolarsi nella cavalleria. Nonostante tutto il focus sui reparti a cavallo, la fanteria restava comunque la parte più numerosa dell’esercito ed era divisa in reggimenti di fanteria pesante, di circa mille uomini, e reggimenti di arcieri appiedati. Questi ultimi avevano sostituito gli antichi ausiliari, le antiche unità di fanteria leggera a supporto di quella pesante. Un tempo si pensava che questa evoluzione fosse dovuta ad un desiderio di risparmiare sull’equipaggiamento della fanteria, ma l’interpretazione moderna è che l’equipaggiamento della fanteria fu alleggerito per permettere una maggiore mobilità, in modo da utilizzare la fanteria in modo maggiormente integrato con la mobilità della cavalleria. Ciò non toglie che è evidente come Belisario non si fidasse molto della sua fanteria, spesso comandata da ufficiali di dubbia qualità: mi sono fatto l’idea che nel sesto secolo i Romani dessero per scontato il fatto che la fanteria si sarebbe messa in fuga in caso di opposizione determinata da parte del nemico.

Fanteria e cavalleria si esercitavano per operare in combinazione tattica, con la fanteria che aveva il ruolo principale di ingaggiare e mantenere bloccata la fanteria nemica o sfruttare un vantaggio tattico creato da una carica della cavalleria. I fanti avevano anche il ruolo di coprire la ritirata degli arcieri a cavallo. La fanteria a volte portava dietro delle barriere mobili, una specie di cavalli di frisia, utilizzati per proteggerli dalle cariche della cavalleria e tenere lontani gli arcieri a cavallo nemici: queste barriere mobili si chiamavano munitiones.
Insomma, i Romani erano riusciti un’altra volta nel loro stratagemma più antico: imitare i punti di forza dei loro nemici, sfruttando la superiore capacità istituzionale dell’esercito romano, un esercito professionale dove un numero di ufficiali preparati era preposto proprio allo studio di nuovi armamenti e tattiche. C’era voluto un po’ di tempo e diversi nasi rotti, ma alla fine l’esercito romano aveva appreso la lezione infertagli dagli Unni.
L’armamento
Come erano armate queste unità di cavalleria e fanteria? Una differenza rispetto al tardo impero era il modo in cui i soldati si rifornivano di armamenti e protezioni. Da Diocleziano in poi queste erano state fornite dalle Fabricae imperiali, cosa che aveva certamente standardizzato la produzione, per quanto possibile nel tardo impero, ma aveva anche avuto l’effetto di concentrare l’attenzione dello stato verso la produzione di armamenti e armature facili e veloci da produrre.
Anastasio aveva cambiato tutto questo: oltre alla loro paga e ai donativi, i soldati ricevevano di nuovo una indennità per l’acquisto degli strumenti del mestiere. Questo aumento di stipendio rese di nuovo appetibile per i cittadini romani il mestiere delle armi: a quanto pare si ridusse la necessità di ricorrere alla coscrizione e aumentò progressivamente la percentuale di soldati che erano allo stesso tempo cittadini dell’impero. L’altra conseguenza fu il rifiorire del mercato privato delle armi: i soldati avevano certamente delle linee guida da seguire sul loro armamento, ma per il resto erano liberi di acquistare le armi a loro più adatte. Avrebbero ovviamente dovuto acquistare ad esempio uno scudo da decorare con le insegne della propria unità, ma per il resto restava libero l’acquisto di spade, armature, elmi che fossero il più congeniali possibili al portatore. La visione di un reggimento tutto composto da soldati vestiti e armati nello stesso identico modo non è mai molto rilevante per l’epoca antica e medievale, lo è ancor meno per questo periodo.

Anche negli armamenti si nota una forte influenza dei popoli delle steppe: gli elmi acquisiscono il paranaso che questi popoli preferivano per i loro cavalieri, mentre diventano sempre più popolari le armature lamellari o quelle a scaglie: queste armature sono utili a cavallo per deviare i colpi, evitando che il cavaliere venga infilzato. Ciò nonostante, sono utilizzate anche le armature a maglia (ovvero con anelli di acciaio), soprattutto per ufficiali e unità d’élite. Cavalleria e fanteria pesante erano dotate anche di schinieri costituite non da pezzi unici di metallo ma da lamelle verticali di legno o metallo che circondavano le gambe. La stessa tipologia di armatura era possibile per le braccia, soprattutto per le unità che non dovevano usare l’arco.
I cavalli persero la pesante armatura dei clibanarii, la cavalleria corazzata costituita ad imitazione di quella persiana: oramai i Romani preferivano la rapidità alla pesantezza della corazza. Lo Strategikon comunque consiglia di proteggere i cavalli degli ufficiali e delle unità d’élite con protezioni in metallo per la testa e i fianchi dei cavalli.
In alto e in basso potete vedere un po’ di immagini che possano dare un’idea di come doveva essere l’aspetto dei soldati a cavallo e appiedati dell’esercito di Giustiniano ma una parola di avvertimento: è in gran parte frutto di supposizioni e la certezza non c’è.
Le formazione dello strategikon
Le unità militari dell’esercito erano anche loro cambiate. Qui dobbiamo affidarci molto allo Strategikon, che è stato scritto però circa 70 anni dopo la storia che stiamo raccontando. Allora le unità militari portavano nomi in greco, cosa che è già possibile per il tempo di Belisario ma a mio avviso improbabile: il greco diventava sempre più importante nell’amministrazione dell’impero ma il latino rimaneva la lingua della legge e dell’esercito, anche se questo stava cambiando rapidamente al tempo di Giustiniano che però, ricordiamolo, era lui stesso latinofono.
I reggimenti di fanteria si chiamavano numeri in latino e tagma in greco. I reggimenti erano composti, sulla carta, da 256 uomini, un numero divisibile per 16 per formare un quadrato di 16 uomini per lato. Sappiamo infatti che la fanteria si schierava in formazioni profonde 4, 8 o 16 uomini, con le lance a formare una sorta di falange macedonica, di nuovo una formazione in teoria adatta a resistere a cariche di cavalleria. Quattro reggimenti di fanteria formavano una legione, erede delle antiche legioni alto imperiali ma oramai completamente trasformata. In ogni legione c’era un comandante, sempre un tribounos, con un vice, un aiutante da campo, un ufficiale addetto all’addestramento, un chirurgo e un quartiermastro addetto al treno di bagagli e con il compito di distribuire i rifornimenti. Ogni legione aveva a disposizione circa dieci sottoufficiali con il grado di Ekatontarxos, che corrisponde in sostanza al grado di Centurione. Più legioni assieme, di solito cinque, formavano una Moira, circa 5000 soldati.

L’unità principale della cavalleria era invece la “banda”, un termine che si pensa derivi dal gotico bandwa, che indicava prima un segno tra persone e poi per associazione un gruppo organizzato di persone. Si tratta di un termine ovviamente che è passato nell’uso comune dell’italiano. La banda di cavalleria si componeva di 300 uomini più gli ufficiali, i musici, il vessillifero e ovviamente il comandante, sempre detto Tribounos nel caratteristico misto di greco-latino dell’esercito di Giustiniano. Più bande di cavalleria formava una chiliarchia, al comando del Chiliarca che aveva sotto di sé tra i due e i tremila uomini. Due o tre chiliarchie formavano una Moira, tra i cinque e i sette mila uomini, comandata dal Merarches, l’equivalente di un tribuno a capo di una legione romana classica. Tre o quattro meros di cavalleria e fanteria, assieme, formavano un Dhungos, un esercito da campo completo di 15-20 mila uomini, comandato da uno Stratigos, come ad esempio Belisario. Lo Strategikon raccomanda che ogni reggimento e ogni moira abbiano insegne dello stesso colore, in modo che siano facilmente riconoscibili dai soldati.
Gli eserciti da campo imperiali
Nell’esercito romano del sesto secolo c’erano inizialmente cinque eserciti da campo imperiali ma, come vedremo, Giustiniano ne aumentò da subito il numero a sei. Due degli eserciti da campo erano quelli “presentali” o alla presenza dell’Imperatore, acquartierati nei dintorni di Costantinopoli, uno sulla sponda asiatica e uno sulla sponda europea del Bosforo. In Europa c’era un altro esercito a guardia della Tracia, in sostanza la bassa frontiera danubiana e la moderna Bulgaria, e un esercito a guardia dell’Illirico orientale, ovvero la Grecia e la Macedonia. In oriente c’era stato un solo esercito nel quinto secolo, l’esercito per orientem, ma appunto Giustiniano lo divise in due comandi, a nord l’esercito dell’Armenia, con il compito di difendere le montagne e gli altopiani dell’Anatolia, mentre all’esercito dell’oriente, con base ad Antiochia, spettava il compito di difendere la Siria e la frontiera araba. In totale il numero di soldati che un tempo si sarebbe detto comitatensi era di circa 120 mila uomini, ai quali si aggiungevano i numerosi limitanei. Gli storici in generale ritengono che il numero totale di soldati arruolati nell’esercito di Giustiniano fosse di circa 300 mila uomini.

Questi soldati erano divisi in sei tipologie: nella capitale abbiamo le due guardie imperiali. Le scholae palatine erano probabilmente composte da diversi reggimenti per un totale di 2000 uomini, ma il loro ruolo di unità di élite nel quarto e quinto secolo si era ridimensionato nel sesto: a quanto pare non venivano mai inviati in campagna militare. Erano di solito stabiliti nei dintorni di Costantinopoli. L’altro reparto era quello comandato da Giustino prima della sua ascesa al trono: gli excubitores. Questi erano circa 300 uomini selezionati per essere i più forti combattenti dell’impero: il loro ruolo era di difendere la persona dell’imperatore e a tal fine erano acquartierati direttamente nel palazzo imperiale. Gli ufficiali degli excubitores svolgevano lo stesso ruolo che nei secoli precedenti avevano avuto i domestici: essere un ufficiale degli excubitores qualificava il detentore per diventare alla bisogna un comandante di un esercito da campo. Il loro comandante era il comes excubitorum, la posizione tenuta da Giustino: si trattò nel sesto e nel settimo secolo di una figura molto importante a corte, spesso considerata quasi quella dell’erede al trono: dopo Giustiniano, diventeranno imperatori ben tre conti degli excubitores: Giustino II, Tiberio II e Maurizio, l’autore dello Strategikon.
Al di sotto delle guardie palatine abbiamo le antiche truppe comitatensi, oramai detti più spesso Stratiotai, in greco. Formano la maggior parte degli eserciti da campo imperiali. I limitanei sono le truppe che meno sono state modificate dall’ultima volta che abbiamo parlato dell’esercito romano nell’episodio 15, anche se ora sono più spesso chiamati Akritai, sempre in greco. A completare l’esercito da campo, assieme agli stratiotai, abbiamo i foederati, le truppe di barbari stabiliti all’interno o sui confini dell’impero: è chiaro nello Strategikon che i Foederati sono considerati tra le truppe migliori dell’esercito. A differenza di un tempo è permesso ai cittadini romani di arruolarsi in unità di foederati, segno che era considerato un onore farne parte. Nell’esercito di Giustiniano sono attestati foederati Eruli e Unni ma, come vedremo, erano considerati foederati anche gli alleati arabi dei bizantini, in particolare i Ghassanidi. Spesso i foederati erano comandati da ufficiali romani e, a differenza del quinto secolo, è chiaro che fossero parte integrante del sistema militare romano. Ai foederati si aggiungevano truppe di alleati, ovvero di soldati inviati da Re e potenze amiche per combattere al fianco dei Romani.
Infine abbiamo l’ultima tipologia di soldati, forse la più importante: i bucellarii. Ho fatto già riferimento a queste truppe, ma vi ricordo che i Bucellarii erano una milizia privata costituita al di fuori del sistema di reclutamento statale, erano infatti arruolati direttamente dai nobili come truppa personale. In questo i Bucellarii assomigliano in un certo senso agli eserciti che si affermeranno con il feudalesimo. Il loro addestramento era mediamente superiore a quello delle truppe regolari, così come il loro armamento. La loro consistenza dipendeva ovviamente dalle possibilità economiche del generale: Belisario ne aveva circa 1.000 nella sua campagna d’Africa, ma giunse ad impiegarne 7.000 nelle sue guerre in Italia. È ovvio che avere in giro per l’Impero degli eserciti personali era una scelta pericolosa per l’Imperatore, ma questi manteneva una forza soverchiante di due eserciti presentali nei dintorni della capitale, senza contare che il vantaggio di non dover pagare attraverso il fisco imperiale questi soldati d’élite deve essere stato un fattore decisivo nel permettere l’esistenza di queste unità.
La battaglia
Il giorno della battaglia, ci informa lo Strategikon, gli ordini erano dati in latino: perché in latino vi chiederete, visto che oramai i romani orientali parlano in gran parte greco? Innanzitutto questa è la tradizione militare dell’esercito romano. Ma c’è anche una ragione pratica: l’oriente è comunque un impero multietnico, composto da persone che vengono da regioni che parlano lingue diverse come il copto, il goto e l’aramaico. Inoltre nell’esercito ci sono anche germani, unni, bulgari, armeni: la pratica di utilizzare parole latine permane dunque come lingua franca dell’esercito. Ecco dunque, come riportato dallo Strategikon, la sequenza di ordini che prepara ad una battaglia.
Innanzitutto gli ekatontarxos, i centurioni, daranno l’ordine di “silentium”, in modo da far sentire gli ordini successivi. “Nemo demittat!” “Nessuno arretri” “Nemo antecedat bandum” “nessuno sopravanzi il proprio stendardo”, poi continuano gli ordini in progressione “mantenete gli occhi sullo stendardo: se lo abbandonerete non sarete vittoriosi. Soldati! Rimanete nei ranghi, vessillifero! Mantieni la tua posizione! Soldati! Nel combattimento non inseguite in modo scomposto il nemico, causando la rottura dei ranghi!” A questo punto i soldati avrebbero intonato assieme il “Kyrie eleison”, il canto della liturgia orientale che vuol dire “signore abbi pietà” e che uso anche come base musicale per il podcast. Alla fine, prima di muovere il primo passo, i soldati avrebbero gridato tre volte “nobiscum deus”. Il signore sia con noi. Da questo momento in poi il loro fato era nelle mani del loro coraggio, della loro fortuna, dell’abilità dei loro generali e soprattutto del volere di Dio.

Resta da parlare della strategia della nuova armata romana, di questo irriconoscibile esercito di Giustiniano. Lo Strategikon non ha dubbi a riguardo dell’importanza della strategia: “Gli inesperti potrebbero pensare che a vincere le battaglie sia il numero dei combattenti, il coraggio incondizionato o l’assalto frontale. Non è così: le battaglie sono decise, per grazia del signore, dalla strategia e dall’abilità. La strategia ci fa utilizzare nel miglior modo possibile i tempi e i luoghi del combattimento, mentre l’effetto sorpresa e l’utilizzo di stratagemmi può permettere il più delle volte di vincere senza che sia affatto necessario combattere. La strategia è essenziale alla sopravvivenza ed è la vera caratteristica del generale coraggioso ed intelligente.”
Dalle parole di Maurizio si comprende un dettaglio importante: in questo secolo i soldati sono ancora più preziosi di un tempo. Ci vogliono almeno due anni per addestrare un soldato della nuova cavalleria e nessun generale lo considererà un elemento valido prima che abbia combattuto in campagna per altri anni ancora. Perdere questi uomini non è solo una perdita di manodopera militare, vuol dire rimanere senza un’armata vitale agli interessi dell’impero per anni e anni. L’impero non può permettersi una nuova Adrianopoli.
A tal fine le battaglie campali sono apertamente scoraggiate dallo Strategikon: “la guerra è come la caccia. Gli animali selvaggi sono catturati grazie agli esploratori, grazie alle reti e attendendo con pazienza in agguato, accerchiando la preda e usando tutti gli stratagemmi che non siano la forza bruta. In guerra occorre fare lo stesso, che i nemici siano tanti o pochi. Il combattimento corpo a corpo in campo aperto è un’impresa molto rischiosa e che può causare seri danni. A parte le emergenze estreme, è assurdo e ridicolo cercare di ottenere una vittoria il cui costo porti allo stato solo una gloria vuota di significato”.
Insomma, una battaglia campale va rischiata, in questo quadro, solo in condizioni di soverchiante vantaggio per i Romani. In tutti gli altri casi è necessario utilizzare ogni fattore a vantaggio dell’esercito in modo da intrappolare i nemici, cacciarli in una situazione logisticamente insostenibile, attaccarne i distaccamenti, assalirne le unità in foraggiamento, tendere imboscate, costruire posizioni di difesa salda che sia poi compito del nemico sloggiare. Tutte queste mosse tattiche seguono la strategia generale di fiaccare le capacità combattive del nemico, in modo che, nelle parole di Maurizio, si riesca a vincere senza che sia affatto necessario combattere.
“Il generale saggio, prima di entrare in guerra studia il nemico – scrive Maurizio – cerca di proteggersi contro i suoi punti di forza e sfrutta le sue debolezze. Per esempio, se il nemico è più forte nella cavalleria, il generale punterà a distruggere le sue riserve di foraggio. Se è superiore nel numero di truppe fa in modo di tagliare i suoi rifornimenti. Se le armate nemiche sono composte di più popoli variegati cercherà di corromperne alcuni con regali, favori e promesse. Se c’è dissenso tra loro, proverà ad ampliarli mettendoli uno contro l’altro.”.
Come vedremo Belisario combatterà diverse battaglie campali ma il grosso delle sue campagne militari sarà fatto di manovre, di assedi, di azioni militari difensive, di guerra d’attrito e non di scontri frontali. La nuova dottrina militare è volta a proteggere prima di tutto il bene principe dell’esercito: i suoi insostituibili soldati professionisti, i soldati che formano la “new model army” romana, per utilizzare un termine che viene dalla guerra civile inglese del diciassettesimo secolo. Eppure non fatevi ingannare dalle tattiche difensive di questo esercito e non dubitate neanche per un istante l’efficacia della “new model army” di Giustiniano: è cambiato tutto, ma l’esercito romano è sempre formidabile.
Grazie mille dell’ascolto! Nel prossimo episodio andremo di nuovo a Costantinopoli in compagnia di un ospite speciale: con Galatea Vaglio esploreremo Nuova Roma e parleremo dei grandi personaggi della capitale. Armati di queste conoscenze, potremo davvero far partire le guerre di Procopio: la guerra persiana, la guerra vandalica, la guerra gotica. Vi ricordo che potete trovare tutte le puntate, i testi del podcast, mappe, fonti e genealogie sul mio sito italiastoria.com. Se volete sostenermi, c’è anche una sezione con questo fine. Oppure potete andare su patreon.com/italiastoria. Alla prossima puntata!
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