Nello scorso episodio della narrazione principale abbiamo assistito all’anti climatica conclusione della guerra civile non guerreggiata tra Giuliano e Costanzo. Abbiamo salutato quest’ultimo, il nostro paranoico, vendicativo, implacabile ma efficiente Costanzo. In questo episodio vedremo cosa farà Giuliano con l’immenso potere accumulatosi nelle sue mani: vi do un indizio, ha qualche cosa a che fare con il motivo per il quale lo chiamiamo “l’apostata”.
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Giuliano, dopo aver ricevuto la notizia della sua elezione al trono anche da parte delle legioni orientali, non perse tempo e galoppò il più velocemente possibile verso Costantinopoli, la città dove era nato e che considerava la sua patria. Fece un ingresso trionfale nella città l’11 Dicembre. Qui il suo primo atto fu il solenne funerale a Costanzo II: Giuliano non solo partecipò al funerale ma permise che avvenisse con tutti i riti del cristianesimo di Costanzo: Costanzo fu quindi interrato nel mausoleo di famiglia nella chiesa dei Santi Apostoli. Non stupisca questo atto: Giuliano doveva la sua legittimità a governare alle azioni di Costanzo e rispettarne la memoria era il primo passo per consolidare il suo potere.
Subito dopo si occupò della transizione e dello spoil system. A ogni cambio di regime imperiale qualche testa inevitabilmente rotolava tra gli alti papaveri imperiali, sia in termini figurati che reali. Di solito si trattava di una veloce purga extragiudiziale: veniva fatta subito dopo l’incoronamento in modo da non doverne fare altre, per quanto possibile, durante il resto del regno. Giuliano aveva bisogno di eliminare le persone che più si erano opposte a lui ma decise anche di dedicarsi a rimuovere anche quelli tra gli alti papaveri imperiali che fossero dimostrabilmente molto corrotti. E qui lasciatemi fare un excursus sulla corruzione nell’antica Roma.
La corruzione era endemica dello stato romano, che non aveva i mezzi per impedirla in modo efficace: si può dire che anche noi successori non siamo molto bravi in questo. Quello che dobbiamo capire è che le cariche imperiali erano il meccanismo principale per legare le classi dirigenti imperiali al governo: l’impero era una forma statale costruita con il consenso e la partecipazione soprattutto della classe dei proprietari terrieri. Il governo aveva un fisco centralizzato che elargiva posizioni burocratiche a corte, pagando già di suo ottimi salari ai suoi funzionari. Era pratica accettata che questi salari fossero incrementati e rimpinguati con pagamenti diretti di privati per accelerare pratiche o prendere decisioni: si trattava, fino ad un certo punto, di una accettata integrazione al reddito dei funzionari. La paga dei funzionari – sia quella ufficiale che quella ufficiosa – servivano a dare alle classi superiori dell’impero un chiaro incentivo a volere e desiderare il mantenimento dello status quo, condizione fondamentale per il mantenimento del regime imperiale.
Giuliano non voleva certamente estirpare la corruzione, ma almeno eliminare gli altri papaveri più rapaci e quelli per i quali la priorità tra servire lo stato e arricchirsi era troppo spostata sull’arricchimento personale. Fece finta di seguire anche una procedura legale, mettendo su un tribunale “indipendente” sull’altro lato del bosforo, come a dire “vedete, i giudici sono indipendenti…non sono neanche sotto il mio naso”. Alcune teste rotolarono, altri furono esiliati. Furono esiliati ad esempio il curator palatii – l’amministratore delle fabbriche e degli edifici appartenenti all’imperatore – oltre al Comes rerum privatum, l’amministratore delle terre di proprietà dell’imperatore. Eh sì, li nomino solo perché mi piace darvi un’idea di quelle che erano alcune delle cariche principali della burocrazia imperiale. Un’altra carica fondamentale era quella del Comes largitionum, sostanzialmente il ministro delle finanze. Questa carica era amministrata da un Carneade che aveva avuto l’ardire di lamentarsi – di fronte alle rovine fumanti di Amida – del coraggio e delle capacità dell’esercito, esclamando “ecco come vengono spesi i soldi faticosamente raccolti dalla popolazione dell’impero”. I soldati se la segnarono al dito e la sua testa fu una delle poche a rotolare. Uno dei condannati a morte – ma in contumacia – fu il Fiorenzo che tanta noia aveva dato a Giuliano nelle Gallie, Fiorenzo si diede alla macchia ma non vi preoccupate, si rifarà vivo dopo la sua morte.
Sbrigata questa faccenda Giuliano si dedicò a ridurre l’enormemente accresciuto entourage imperiale, fatto di un numero infinito di cuochi, barbieri e eunuchi. Giuliano aveva sempre come sua stella polare gli imperatori del principato – quelli precedenti alla crisi del terzo secolo – che avevano avuto un approccio più egalitario e meno altisonante dei severi sovrani monarchici del quarto secolo. Narra Marcellino che un giorno era stato chiamato un barbiere per tagliare i capelli dell’imperatore e Giuliano vide entrare un uomo vestito sontuosamente. Allora chiese al barbiere quanto guadagnasse, e venne fuori che riceveva lauti compensi in natura, un importante stipendio annuo oltre che pagamenti per ben remunerate prestazioni straordinarie. Insomma, era un uscere del parlamento italiano. Va da sé che il suo posto di lavoro fu uno dei primi ad essere eliminato.
Giuliano sognava di essere Marco Aurelio, l’imperatore filosofo suo eroe d’infanzia e finì per cercare di assomigliargli, crescendo una lunga barba da filosofo. Cercò di imitare gli imperatori del periodo aureo dell’impero divenendo più accessibile: discuteva in Senato (quello di Costantinopoli) gli affari di stato, quando i suoi contemporanei erano oramai abituati a farsi dire che cosa applaudire dei progetti del sovrano. Camminava tra le persone comuni che erano abituate a vedere i loro imperatori da lontano, vestiti di regalia e considerandoli completamente inaccessibili in quanto sovrani e rappresentanti della divinità in terra. Dai tempi di Diocleziano gli imperatori erano figure altamente idealizzate e i Romani del quarto secolo non avevano idea di cosa fare di questo principe. Va detto infatti che questo comportamento lasciò molto perplessi i contemporanei, incluso Ammiano Marcellino che per il resto venerava Giuliano: pareva loro probabilmente come una riduzione della maestà della carica imperiale, non necessaria e svilente della figura dell’imperatore.
Ma non siete qui per sentirmi parlare di barbe e barbieri penso, credo che vogliate sapere come mai il nostro Giuliano è chiamato Apostata e bè la risposta è credo ovvia da tempo: apostata vuol dire rinnegatore del proprio credo, come Giuliano fece rinnegando privatamente la religione che lo Zio aveva portato al centro dello stato Romano. Quando tutto sembrò perduto, quando Costanzo marciava alla testa del suo esercito per mettere al suo posto il cugino ribelle, Giuliano iniziò a professare apertamente e senza sotterfugi la sua nuova fede, o la sua fede ritrovata come amava pensare. Poi arrivò la morte di Costanzo, con una tempistica che non poté sembrare a Giuliano null’altro che un messaggio da parte degli Dei per riportare i culti antichi al centro dello stato romano: questo incredibile avvenimento ne alimentò anche l’arroganza, da questo momento in poi Giuliano si sentirà un predestinato e non un semplice mortale.
Una volta agguantato l’ufficio più alto dell’Impero Giuliano si mise di lena per annientare i nazareni e il cristianesimo. Si ho detto annientare, anche se Giuliano non voleva annientare i cristiani ma marginalizzare e riportare ad una posizione minoritaria la loro religione. Per farlo Giuliano aveva studiato e pensato a lungo cosa fare e da principio aveva capito che le persecuzioni di alcuni imperatori pagani avevano fatto più male che bene: le persecuzioni di Nerone, Decio e soprattutto Diocleziano erano state a loro modo anche efficaci – checché ne dica la chiesa molti cristiani e perfino una buona parte del clero si arresero alle domande dello stato romano e fecero abiura della loro religione. Lo sappiamo perché la questione sulle modalità di riammissione alla chiesa, dopo Ponte Milvio, fu una delle questioni più spinose della cristianità. Ma le persecuzioni avevano avuto più effetti controproducenti, almeno dal punto di vista delle autorità imperiali pagane: avevano creato spesso martiri che potevano essere dei punti di riferimento per la nuova religione, degli esempi di vita a cui guardare per resistere allo stato. In più avevano unito le varie chiese cristiane, con tutte le loro differenze sulla natura divina e di cristo, fino al momento in cui era stato possibile rimuovere l’oppressione statale.
Giuliano non intendeva fare nulla di tutto ciò e pensò bene di scatenare contro i cristiani il loro nemico più implacabile e terribile: loro stessi.
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Per capire cosa intendo dobbiamo capire che nei cinquant’anni scarsi trascorsi da Ponte Milvio si era combattuta una guerra senza esclusione di colpi per definire quale sarebbe stata la fede cristiana che sarebbe diventata la fede ufficiale dell’impero: era chiaro a tutti i cristiani – in fondo erano romani anche loro – che poteva esistere una sola religione in uno stato come Roma, dove la religione era intrinsecamente collegata con il potere politico. Gli imperatori desideravano avere un solo credo che unificasse la popolazione dell’impero e lo stesso volevano la maggior parte dei vescovi.
Da cinquanta anni e con maggior forza dopo il Concilio di Nicea – che avrebbe dovuto chiarire la questione una volta per tutte ma che finì solo per essere una tappa di questo processo – varie posizioni sulla trinità e natura di cristo si erano affrontate in ogni vescovado importante dell’impero. Gli ariani erano arrivati a Nicea divisi. C’erano alcuni – gli ariani veri e propri – che non credevano affatto alla natura divina di Gesù. I semi-ariani – la parte probabilmente più vicina a Costantino e Costanzo – credevano invece che il figlio fosse di una natura inferiore a quella di dio Padre. Divisi gli ariani avevano perso a Nicea ma si erano vendicati con gli interessi: erano riusciti a fare esiliare vescovi del credo Niceno ortodosso, come Atanasio di Alessandria, e avevano portato dalla loro i principali imperatori del loro tempo, vale a dire Costantino e soprattutto Costanzo II. La battaglia era ancora in corso e continuerà nell’impero almeno fino al concilio di Costantinopoli, nel 381 dopo cristo. Per capire a che punto eravamo nell’eterna contesa tra Ariani e Ortodossi occorre fare un passo indietro.
Nel 352 dopo cristo Liberio era stato eletto vescovo dal popolo dei cristiani di Roma, come si usava fare allora. Liberio era un convinto sostenitore della causa degli ortodossi e accolse a Roma Atanasio di Alessandria quando questi fu esiliato da Costanzo II: come detto in precedenza Atanasio era il vero capo del partito Niceno. I problemi per Liberio iniziarono quando Costanzo si impadronì di tutto l’occidente Romano, una volta sconfitto Magnenzio: Costanzo era un ariano convinto e fece notevoli pressioni sul papa per aderire alla sua versione semi-ariana del cristianesimo, versione che accettava la natura divina del figlio di Dio ma la considerava subordinata a Dio padre. Come bonus voleva ovviamente un nuovo esilio di Atanasio.
Nella primavera del 355 si tenne un concilio a Milano sotto l’egida di Costanzo II, I vescovi di corte si posero sulle posizioni semi-ariane, ne seguirono disordini tali che convinsero Costanzo ad intervenire personalmente: ordinò che tutti i vescovi condannassero Atanasio. I dissidenti furono esiliati. Inutili le proteste di Liberio, i cui legati furono a loro volta spediti in esilio. Il papa scrisse una lettera ai vescovi esiliati, chiamandoli martiri, ed esprimendo il suo rammarico per non era stato lui stesso il primo a soffrire tale pena. Fu presto accontentato.
L’imperatore voleva convincere il vescovo di Roma, l’ultimo primate della chiesa non ariano, ad aderire alla sua politica religiosa e inviò a Roma il prefetto di palazzo, l’eunuco Eusebio con il mandato di convincere il papa a tutti i costi. La risposta di Liberio non ammetteva repliche: non poteva condannare Atanasio e i seguaci di Ario avrebbero dovuto essere espulsi e la loro eresia sottoposta ad anatema, come d’altronde convenuto a Nicea. Convinto che non c’era modo di trattare con Liberio Costanzo ordinò al praefectus urbi di Roma, Flavio Leonzio, di arrestare Liberio e di trascinarlo a corte. La cattura avvenne nottetempo, per evitare che il popolo di Roma causasse disordini. L’imperatore bandì il papa a Beroea in Tracia, lasciandogli però uno stipendio. Al suo posto, Costanzo fece eleggere l’arcidiacono Felice, che badate bene era anch’esso ortodosso ma a quanto pare più malleabile. Atanasio venne di nuovo esiliato.
Credete che sia finita? Tutt’altro. Liberio rimase in esilio per due anni e poi nel 357 dopo cristo, mentre Giuliano combatteva gli Alemanni nella campagna di Strasburgo, gli fu consentito di tornare a Roma. Le fonti sono discordanti sul motivo per il quale gli fu permesso di tornare, alcune fonti sostengono che Liberio non tentennò mai nella sua fede e fu richiamato su insistenza del popolo di Roma. Altre fonti invece testimoniano che a Liberio mancasse molto Roma e il suo seggio vescovile e avrebbe sottoscritto il credo di Costanzo, pur di tornare a casa, non vedendo alcuna speranza di ravvedimento o ceduta di Costanzo. Il credo di Costanzo negava che il figlio fosse “della stessa sostanza del padre” come declamato a Nicea, ma concedeva che fosse di “simile, nella sostanza, al Padre”. Si, tutti questi problemi nella chiesa di Roma erano dovuti alla differenza tra “stesso” e “simile”. Comunque sia il cedimento del Papa di Roma alla pressione degli ariani fu un colpo enorme per la causa Niceana. da questo momento in poi Liberio fu considerato da parte del partito niceno, a torto o ragione, come compromesso con il potere ariano.
Nel 359, dopo il cedimento di Liberio, Costanzo fece convocare due concili delle chiese orientali e occidentali, in simultanea. Si tratta dei concili di Seluci e di Rimini. In entrambi gli ariani erano ben rappresentati e con pressioni, minacce di esilio e la sensazione che la storia stesse girando verso gli ariani alla fine i Niceni finirono per cedere e approvare la formula semi-ariana secondo cui il Figlio, creato dal Padre e di simile sostanza, fosse a lui subordinato.
Le cose stavano così nel tardo 361, quando morì Costanzo. In questa battaglia si inserisce Giuliano che dichiara di non volere prendere alcuna posizione a riguardo: ognuno nell’impero sarà libero di credere quel che vuole e qualunque variante del cristianesimo che preferisca, lo stato non si prenderà la briga di stabilire quale credo sia corretto e quale sbagliato e non userà il suo potere per dare ragione a questa fazione o quell’altra.
Può sembrare un ammirevole editto di libertà religiosa, ma Giuliano era un astuto politico: sapeva che i vescovi si sarebbero combattuti senza sosta pur di far trionfare questa o quella versione del cristianesimo e fece capire in modo chiarissimo che lo stato ritirava qualunque appoggio diretto alla chiesa o alle chiese. Senza il provvidenziale intervento di Giuliano oggi credo che la chiesa sarebbe ariana, visto come stavano andando le cose. Ma Giuliano intervenne e revocò tutte le condanne all’esilio e liberò i Niceni, permettendogli di tornare all’attacco: Giuliano ovviamente non voleva che i Niceni vincessero ma si augurava che Ariani e Niceni si sbranassero l’un l’altro, privi dei mezzi dello stato per decidere chi fosse davanti a chi. Liberio ad esempio annullò pubblicamente le decisioni di Rimini e Seluci e confermò nel loro incarico i vescovi che rifiutarono la dottrina ariana. Inoltre, firmò un decreto che vietava di ribattezzare coloro che avevano ricevuto il battesimo ariano.
Ma Giuliano non si accontentò di mettere zizzania tra i cristiani. Fece capire che le Chiese dell’impero sarebbero oramai state trattate come culti tollerati ma non appoggiati. I vescovi, abituati ad essere alla pari di ufficiali pubblici nelle rispettive città, sarebbero stati trattati dallo stato romano come meri cittadini. Una serie di privilegi di natura fiscale fu eliminata, il sostegno finanziario alle spese ecclesiastiche soppresso o spostato sui culti antichi. Il passaggio più importante fu forse sui beni: Le proprietà dei templi pagani, spesso passate dallo stato alla chiesa cristiana, furono ristabilite. Non contento di ciò, diede perfino mandato di ricostruire il tempi di Gerusalemme, in modo da portare gli Ebrei dalla sua e avere un’altra religione monoteistica legata al potere imperiale. Gli ebrei avevano un bel po’ di cose delle quali lamentarsi nei confronti dei Romani e non diedero molto retta alle ouverture di Giuliano mentre la costruzione del tempio fu interrotta dopo il presentarsi di prodigi divini contrari (dando retta alla tradizione) o a causa di un terremoto, se si dà retta agli storici.
Questo per quanto riguarda quello che Giuliano intraprese da subito per ostacolare i cristiani, ma cosa voleva di converso costruire Giuliano? Per capirlo dobbiamo fare un breve excursus sulla filosofia neoplatonica dominante ai tempi di Giuliano, e per diversi secoli dopo di lui. Parliamo della filosofia Neoplatonica.
I Neoplatonici sono l’ultima grande corrente filosofica dell’antichità. Il loro capostipite è di solito considerato essere Plotino, vissuto nel terzo secolo dopo cristo. Ora sono ancor meno filosofo di quanto sia storico, ma quello che importa capire è che il neoplatonismo costruì una filosofia che assomigliava molto ad un monoteismo, con un “uno” universale e creatore da cui si emanano in ordine discendente l’intelletto, l’anima e la materia semplice. Tutta la realtà è concepita come emanazione dell’entità divina assoluta, l’Uno: compito supremo dell’uomo è cercare di risalire a quell’unità, giungendo all’assimilazione mistica con il divino. In questo quadro i neoplatonici avevano dato anche una spiegazione dell’antico Pantheon, come rappresentazioni di diversi aspetti dell’uno percepiti dagli antichi. La filosofia neoplatonica si inserisce sicuramente nella corrente culturale del terzo secolo, tendente a sorpassare gli antichi culti politeistici, e sarà di fondamentale influenza sul cristianesimo: molti dei grandi padri fondatori del cristianesimo e non ultimo S. Agostino saranno neoplatonici, o influenzati dal pensiero neoplatonico. Giuliano non si mise quindi di lena per riportare in auge il vecchio Pantheon ma cercò di costruire qualcosa di nuovo, una sorta di religione semi-politeista neoplatonica.
A tal fine Giuliano studiò molto attentamente i suoi avversari. Giuliano riconosceva i punti di forza della religione cristiana: in particolare la sua organizzazione in una struttura parastatale di vescovi e sacerdoti, l’apertura verso le masse, le donne, gli oppressi e infine l’appeal di una religione monoteistica. Giuliano non puntava a riportare in auge il vecchio pantheon greco-romano ma cercò di creare una struttura religiosa ai culti politeistici che non erano mai stati una religione coerente, ma un coacervo di credenze disparate. Istituì un clero pagano strutturato come la chiesa cristiana: al vertice era l’imperatore, nella sua qualità di pontefice massimo, seguito da sommi sacerdoti, responsabili ciascuno per ogni provincia i quali, a loro volta, sceglievano i sacerdoti delle diverse città. Diede impulso a che i sacerdoti pagani entrassero di più nella società romana, praticando la carità e l’assistenza ai poveri. A guida dell’intero movimento doveva esserci un vago monoteismo neoplatonico che riconduceva ad una divinità maggiore – il dio Sole – la responsabilità della creazione delle varie anime del Dio rappresentate nelle divinità classiche. Pianificò perfino che fossero introdotti libri di preghiera ed Inni per una liturgia pagana universale basata anche questa sul modello cristiano.
In questo si vede come Giuliano guardasse al lungo periodo: era giovane, aveva poco più di trent’anni, e contava di essere al potere per un ventennio o più. Con un po’ di fortuna avrebbe mantenuto il potere su tutto l’impero più a lungo di Costantino e Costanzo e avrebbe potuto riportare la cristianità in una scatoletta della dimensione di una minoranza dell’impero: la maggior parte delle campagne restavano pagane, il cristianesimo aveva avuto un successo spettacolare negli ultimi cinquanta anni soprattutto nelle città perché lì si concentravano gli amministratori pubblici, i vescovi, gli stipendiati dallo stato che avevano abbracciato la nuova fede per mettersi in pari con i voleri dello stato centrale. Ora, spostando il patronage sulla sua nuova, antica religione, Giuliano contava di fare lo stesso, ma al contrario: dare più potere, soldi, status al suo nuovo sacerdozio e meno ai vescovi, dare più ruoli nelle forze armate e nell’amministrazione ai pagani. Ma il colpo più grosso lo aveva riservato al meccanismo più potente di trasmissione di qualunque religione: l’educazione.
I gesuiti dicono giustamente “datemi un bambino nei primi sette anni di vita e io vi mostrerò l’uomo”: l’istruzione influenza in modo fondamentale chi siamo. Ai tempi dell’impero l’istruzione superiore – pur riservata alle classi cittadine e agiate dell’impero – era comunque relativamente di massa e la chiave fondamentale per assicurare un futuro di successo per la propria progenie. L’impero era una struttura statale costruita da, per e attraverso le città e i cittadini dell’impero dovevano studiare il corso di studi pubblici se fossero voluti accedere a qualunque carica pubblica o di rilievo nella società, sarebbe stata una caratteristica dello stato romano considerata indispensabile dalle famiglie. Più leggo a riguardo dell’Impero Romano del quarto secolo più questo finisce per sembrare un mondo talmente familiare ai nostri occhi moderni da sembrare irreale.
Quello che irritava enormemente Giuliano era vedere i membri del clero cristiano insegnare nelle scuole imperiali: il corso di studi era fortemente incentrato su Omero, sui grandi classici latini e greci e questi venivano regolarmente interpretati con una visione cristiana dalla classe di insegnanti cresciuti nel periodo post costantiniano. Giuliano voleva far crescere una nuova generazione di Romani con la cultura e la filosofia classica del mondo greco-romano, pur aggiornata dal suo neoplatonismo semi-monoteistico. In applicazione di questa politica, nel 362 Giuliano emise un editto con il quale stabiliva l’incompatibilità tra la professione di fede cristiana e l’insegnamento nelle scuole pubbliche. Alla legge Giuliano fece seguire una lettera circolare che spiegava più approfonditamente il contenuto e il significato della norma: «È necessario che tutti gli insegnanti abbiano una buona condotta e non professino in pubblico opinioni diverse da quelle intimamente osservate. In particolare, tali dovranno essere coloro che istruiscono i giovani e hanno il compito di interpretare le opere degli antichi. Trovo assurdo che coloro che spiegano i loro scritti disprezzino gli dèi che quelli onoravano. Se i maestri cristiani considerano saggi coloro di cui sono interpreti e di cui si dicono, per così dire, profeti, cerchino prima di rivolgere la loro pietà verso gli dèi. Se invece credono che questi autori si siano sbagliati circa le entità da venerare, vadano allora nelle chiese dei Galilei a spiegare Matteo e Luca.»
La riforma della scuola ovviamente causo occupazioni a catena dei licei da parte degli studenti e cortei a Roma organizzati dai sindacati: si lo so, a volte il passato sembra così simile al presente che tendo a confondermi. A parte gli scherzi trovo incredibile la modernità di uno stato come quello romano, basato sull’educazione di una fetta importante della popolazione e dove un argomento fondamentale era il tipo di educazione da dare agli studenti. Verranno diversi secoli – assai meno bui di quel che si creda ma sempre difficili – dove l’educazione e la scrittura saranno davvero appannaggio di pochi.
La riforma scolastica di Giuliano non fu popolare, come credo non furono popolari molte delle altre riforme che intraprese durante il suo breve regno. Va sottolineato però che Giuliano non ebbe nessun serio tentativo di rivolta e usurpazione, pur essendo imperatore unico di un impero oramai abituato ad averne diversi. Certo, forse con il tempo sarebbero venuti fuori ma credo sia comunque testamento della sua generale popolarità e della popolarità delle sue convinzioni religiose per una parte certamente ancora non minoritaria dello stato romano.
Ma Giuliano non ebbe il tempo di sedersi a riformare lo stato romano per decenni, perché incombeva la guerra persiana. Giuliano doveva dare una risposta a Shapur, che aveva minacciato le province mesopotamiche negli ultimi anni e saccheggiato l’importante città di Amida. Avrebbe potuto seguire l’esempio del cugino e impegnarsi in una guerra di posizione fino a stancare il suo opponente. Ma Giuliano non era fatto così e la sua naturale impulsività era stata alimentata dalla sensazione di essere un predestinato dagli idei, invulnerabile dagli attacchi del fato. In più aveva fascino su di lui l’antica maledizione di Alessandro Magno, il desiderio per ogni grande re e generale ellenistico e romano di ripercorrerne i passi. Giuliano aveva domandato agli oracoli. I sacerdoti lo designavano redivivo Alessandro, destinato a ripeterne le gesta di distruttore dell’antico Impero persiano, a raggiungere da dominatore quelle terre da cui proveniva il culto di Mitra, il suo nume tutelare, a eliminare una volta per tutte quella storica minaccia, e a fregiarsi del titolo di «vincitore dei Persiani. L’interno dell’Asia chiamava Giuliano, che decise di rispondere. Infine credo che pensò che una vittoria contro i persiani – una grande vittoria, non una vile guerra di posizione – sarebbe stata la spinta in termini di legittimità e prestigio che sarebbero serviti a Giuliano per davvero modellare l’impero a sua immagine e somiglianza, senza preoccupazione di opposizioni serie.
Sta di fatto che Giuliano decise di lasciare Costantinopoli e recarsi ad Antiochia, la base naturale per ogni imperatore che volesse invadere la Persia Sasanide. Antiochia accolse festosamente Giuliano, che indisse giochi per la cittadinanza e perfino uno spettacolo all’ippodromo, spettacolo che odiava. Giuliano diminuì perfino le tasse. Ma l’armonia tra l’austero imperatore e gli abitanti della frivola città era destinata a spezzarsi. Antiochia era – con Alessandria – il centro pulsante del cristianesimo romano e in una città tanto cristianizzata la sua devozione agli dei e i frequenti sacrifici non potevano essere graditi. Presto cominciarono a circolare epigrammi che deridevano il suo aspetto “poco imperiale”: la sua barba fuori moda, i capelli arruffati, il comportamento per nulla ieratico anzi, stranamente alla mano, «democratico», le abitudini austere, la mancanza di senso dell’umorismo, una serietà che appariva eccessiva ai loro occhi, la sua stessa fede pagana.
Nei pressi della città si stendeva, in una valle ricca di boschi e di acque, il sobborgo di Dafne, dove sorgeva un santuario dedicato ad Apollo. Giuliano visitò il santuario e vide lo stato a suo modo di vedere scandaloso dei luoghi: il santuario era stato fatto chiudere da Costanzo e era andato in rovina. Ancor peggio, vi era stata costruita una cappella dove erano stati sepolti i resti del vescovo Babila. Il sacerdote al seguito di Giuliano – visti i risultati inconcludenti delle divinazioni al santuario – disse che la presenza del sepolcro del vescovo era responsabile del silenzio degli dei. I resti di Babila furono così riesumati, con grande scandalo dei cristiani, e fatti seppellire ad Antiochia. Pochi giorni dopo il tempio di Dafne andò completamente distrutto da un violento incendio che sia Giuliano che molti altri ritennero doloso. Giuliano ordinò, in risposta, la chiusura della Cattedrale di Antiochia.
Giuliano era arrivato a detestare cordialmente questa città, allo stesso tempo licenziosa e profondamente cristiana, due qualità che cozzavano con il profondo del suo animo. Scrive Giuliano: «mi ha in odio la maggioranza, per non dire la totalità del popolo, che professa l’incredulità negli dèi e mi vede attaccato ai dettami della religione patria; mi odiano a motivo dei ballerini e dei teatri, non perché io li privi di queste delizie, ma perché a me di queste delizie importa meno dei ranocchi delle paludi».
Il 5 Marzo del 363 Giuliano lasciò a loro stessi gli Antiochiesi, probabilmente con mutua soddisfazione di entrambi. Partì alla testa di 65 mila uomini, il più grande esercito d’invasione Romano a memoria d’uomo. Si ripromise mentalmente di non mettere mai più piede in quella insolente città. Non sarebbe stato deluso, dalla Persia Giuliano non tornerà mai. Nel prossimo episodio vedremo come l’anabasi di Giuliano si concluderà in un disastro per lui e il suo esercito, portando a termine una fase importante di recupero dell’Impero Romano inaugurata da Aureliano e Diocleziano.
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