In una qualsiasi visita in Sardegna, anche di quelle più brevi e con destinazione esclusivamente balneare, non possiamo fare a meno di incrociare almeno un edificio simbolico del remoto passato dell’Isola. Stiamo parlando naturalmente dei nuraghi, le imponenti costruzioni megalitiche tipiche della civiltà nuragica, presenti in gran numero (tra 6.000 e 8.000 siti) e spesso visibili a poche decine di metri dai guardrail delle principali arterie di comunicazione dell’Isola. Il dibattito sulla natura e le caratteristiche originarie di questi monumenti è a dir poco complesso e controverso: da decenni storici e archeologi si chiedono se i nuraghi fossero degli edifici di culto, delle fortezze militari, delle regge o tutti questi aspetti insieme, magari in tempi diversi. Con certezza si può affermare che il grande periodo costruttivo dei nuraghi fu tra il 1500 e il 1100 a.C., ovvero la media età del bronzo, e che, la costruzione degli stessi appare già terminata da secoli ai tempi dei primi contatti tra le genti fenicie e la popolazione dell’isola, che ancora in parte abitava presso i villaggi nuragici e con cui i levantini intrattenevano fiorenti rapporti commerciali (come documentato dai risultati degli scavi archeologici presso il villaggio di Sant’Imbenia, vicino ad Alghero).
Nonostante l’abbandono e l’avanzare dei secoli, i nuraghi sono rimasti ben presenti nel paesaggio sardo, anche nella successiva età romana (a partire dal 238 a.C. ) e bizantina. E non sono rimasti inutilizzati: molti di questi monumenti continuarono a rivestire un ruolo importante, sia per la loro posizione strategica, sia come centri agricoli e pastorali. Alcuni di essi, nel Medioevo, furono trasformati in aree funerarie, ospitando sepolture di personaggi di rilievo con ricchi corredi funebri . E in alcuni casi furono con tutta probabilità condotti dei rituali di carattere pagano per tutta l’epoca tardoantica, anche dopo l’avvento ufficiale della religione cristiana. Addirittura, lo storico e linguista Massimo Pittau ipotizzava che ci possa essere stata una continuità di culto dei nuraghi perdurata sino al cristianesimo, dal momento che ancora oggi possiamo trovare circa 280 nuraghi intitolati a santi cristiani.

La religiosità nella Sardegna romana
La domanda è quindi lecita: i nuraghi furono davvero un luogo di culto anche in epoca tardoantica e cristiana? Se sì, all’interno si praticavano ancora i culti di epoca nuragica? Il quadro è complicato anche da quasi un secolo di interpretazioni storiografiche legate all’autonomismo isolano, la più celebre delle quali è quella del celebre archeologo sardo Giovanni Lilliu, che parlò più volte di una “costante resistenziale sarda” e che nel suo testo “Sopravvivenze nuragiche in età romana”, vide nel riutilizzo dei nuraghi e nell’insistere di centinaia di insediamenti romani nei terreni già occupati da agglomerati abitativi nuragici una “testimonianza della sopravvivenza di elementi della civiltà proto sarda”.
Oggi, il quadro è decisamente più sfumato e sembra esserci un sostanziale accordo sul fatto che la Sardegna abbia vissuto una ricca fase di acculturazione nel corso dei secoli in cui fu soggetta all’autorità romana, anche in ambito religioso, con la presenza di culti importati, provenienti sia dall’Oriente (come Iside) che dall’Occidente”. In questo contesto, le credenze tradizionali dell’età nuragica non erano del tutto scomparse. L’esempio più evidente di divinità locale fu il Sardus Pater, eroe-fondatore figlio dell’Ercole libico, che i mitografi classici ritenevano giunto in Sardegna con una schiera di Libici. A lui era dedicato il tempio di Antas (Fluminimaggiore), fondato dall’imperatore Augusto intorno al 38 a.C. su un precedente santuario dedicato a Sid, dio punico associato alla salute e restaurato al tempo dell’imperatore Caracalla, a riprova di un culto guardato con favore dalle autorità romane. Secondo gli esperti il culto del Sardus Pater racchiudeva in sé, oltre alle caratteristiche del dio Sid, anche quelle di un’arcaica divinità isolana chiamata Babay.

Il riutilizzo dei nuraghi dopo l’era nuragica
Difficile però è affermare con certezza quale fosse la funzione dei nuraghi nel contesto religioso dell’epoca tardoantica e altomedievale. Però, come ci racconta Marco Muresu, Ricercatore in Archeologia Cristiana, Tardoantica e Medievale dell’Università degli Studi di Cagliari, perlomeno sappiamo che i nuraghi erano chiamati già così al tempo dei romani: “Uno dei pochi elementi che ci permettono di localizzare in modo tutto sommato affidabile una delle popolazioni locali della Sardegna, ovvero gli Ilienses, è legato proprio a un nuraghe o, meglio, a una sua fase di riutilizzo. Parliamo dell’architrave romana del nuraghe Aidu Entos, nel territorio di Bortigali (Nuoro), dov’è chiaramente visibile la scritta ILI IUR IN NURAC SESSAR. L’ultima parola è con tutta probabilità il nome specifico del nuraghe, oltre a essere una delle testimonianze più antiche, se non proprio la più antica, del termine nuraghe. In questo caso la funzione era probabilmente di delimitazione di confine, ma nell’Isola ci sono state diverse modalità di utilizzo dei nuraghi da parte delle comunità locali, con una relativa abbondanza di testimonianze materiali. Tanto da farci pensare che, nonostante la penuria di fonti scritte, l’importanza di questi siti fosse percepita dalle popolazioni dell’epoca. Anche perché i nuraghi, in qualunque area della Sardegna, costituiscono un elemento importante per il controllo dei passaggi, delle valli e dei pascoli. La loro vicinanza rispetto alle strade attuali, non è casuale: i nuraghi sono stati l’espressione più efficace del controllo del paesaggio per centinaia di anni, tale da disciplinare tutte le fasi successive”.
La natura dei rituali
Insomma ci sono moltissime testimonianze archeologiche che dimostrano come i nuraghi, anche quelli meno noti, ebbero delle fasi di utilizzo anche in epoca romana, bizantina e ancora prima punica, grazie alla scoperta di materiali al loro interno, in strutture che erano state magari abbandonate da parecchi secoli. E in qualche caso le implicazioni religiose sono evidenti: “Talvolta sono stati individuate delle testimonianze di rituali, verosimilmente legati alla fertilità delle campagne. Ci sono diversi contesti archeologici, come il nuraghe Genna Maria di Villanovaforru o il nuraghe Cuccurada di Mogoro, dove sono stati ritrovati manufatti legati probabilmente a culti della vita agreste, della fertilità e così via, che a loro volta sono riconducibili alle comunità dei contadini che vivevano nei pressi di quei nuraghi e che forse avrebbero potuto riutilizzare queste strutture megalitiche a scopo religioso, anche se naturalmente la portata dei rituali e delle comunità legate ai siti è ancora da stabilire. Si pensa anche a possibili legami devozionali con la Dea Cerere, come testimoniato dalle lucerne e dai frammenti votivi individuati, così come da resti di sacrifici animali. In definitiva in età romana non c’è un culto specifico che riguarda i nuraghi, ma ci sono diversi elementi archeologici che ne dimostrano per alcuni di essi, un plausibile riuso di tipo cultuale”.
Anche il culto del Sardus Pater richiamato in precedenza non sembra essere in relazione diretta con i nuraghi: “Per trovare un legame diretto a un culto specifico deve esserci un manufatto o una fonte che lo richiami direttamente. Per esempio oggi abbiamo la certezza dell’esistenza del culto del Sardus Pater Babi perché esiste l’iscrizione sull’epistilio tempio di Antas che lo menziona. Se in un nuraghe trovassimo una iscrizione similare potremmo affermare l’esistenza di un legame del genere, ma sinora non abbiamo mai trovato nulla in questo senso”.
In definitiva, oggi abbiamo dunque gli elementi soltanto per parlare della persistenza di rituali di paganesimo in alcuni specifici siti nuragici, legati alle comunità rurali che vivevano in un territorio e in un paesaggio in cui da tempo immemorabile esistevano i nuraghi, che quindi venivano utilizzati a questo scopo. La prudenza è comunque d’obbligo perché i siti archeologici in cui è possibile ipotizzare un riuso di tipo cultuale sono riferibili comunque a un campione ridotto rispetto al totale.

I nuraghi nel contesto dell’avvento del cristianesimo
Ancora più complicato è stabilire se i nuraghi siano stati utilizzati come chiese cristiane, come accaduto a molti templi pagani nell’ultima fase dell’impero romano. Il ragionamento di Pittau richiamato in precedenza sui nuraghi battezzati con nomi di santi cristiani va in questo senso e, senza dubbio, nell’età cristiana e bizantina esiste spesso una certa prossimità geografica: a volte la Chiesa del paese viene infatti costruita intorno al nuraghe o nelle immediate vicinanze. Muresu è però molto prudente a proposito: “Il ragionamento di Pittau è suggestivo ma anche problematico. Il fatto che un nuraghe sia stato chiamato con nomi che richiamano in qualche modo il cristianesimo non è detto che sia la prova di un legame diretto. Allo stesso tempo non c’è la documentata presenza di attività rituali o liturgiche di tipo cristiano all’interno dei nuraghi. Abbiamo senza dubbio, invece, delle testimonianze archeologiche che dimostrano come i nuraghi siano stati utilizzati in alcuni casi come sepolcreti. Un caso di questo tipo è il nuraghe Su Nuraxi di Siurgus Donigala, nelle vicinanze della Chiesa di San Teodoro (un santo orientale), dove sono stati trovati dei corredi funerari di età bizantina. Ma non abbiamo prove che al loro interno dei religiosi cristiani officiassero delle funzioni”.
I nuraghi come mausoleo per la nobiltà di epoca bizantina
In effetti, evidenzia l’archeologo dell’Università di Cagliari, all’interno di alcuni nuraghi sono stati trovati arredi e materiali legati a delle sepolture riconducibili all’ambito militare, come coltelli, pugnali, fibbie, attrezzi da cavalcatura come speroni, morsi di cavallo, briglie, staffe. Ma non è comunque certo che si trattasse di soldati bizantini: “La ricchezza dei corredi e degli oggetti che accompagnavano i defunti (uomini e donne, queste ultime con indosso gioielli, orecchini, collane, anelli e bracciali) suggerisce che potesse trattarsi di persone per cui le armi potevano richiamare non solo (o esclusivamente) l’ambito militare in senso stretto, ma uno status elevato, una sorta di simbolo di classe sociale elevata. In altre parole, le armi erano l’attributo di chi aveva la dignità di portarle, non necessariamente di soldati in servizio. Il nuraghe poteva, in un certo senso, svolgere la funzione di “mausoleo” per questi individui e le loro famiglie, accrescendo con la sua presenza nel territorio il valore simbolico di supremazia o alto lignaggio sociale già suggerito dalle armi. Una architettura tanto monumentale, pur in rovina o in parte coperta dalla terra, poteva comunque essere adatta a diventare la tomba dei personaggi importanti per la società del tempo”.

I nuraghi come mausoleo per la nobiltà di epoca bizantina
Qualsiasi discorso sull’avvento del cristianesimo in Sardegna nell’epoca tardo antica non può comunque prescindere dalla celebre lettera di Papa Gregorio Magno a Ospitone, duca dei Barbaricini , datata maggio 594. In cui si può leggere:
«Gregorio ad Ospitone, duce dei Barbaricini.
Poiché nessuno della tua gente è cristiano, per questo so che sei il migliore di tutto il tuo popolo: perché sei Cristiano. Mentre infatti tutti i Barbaricini vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre, tu, per il solo fatto che veneri il vero Dio, hai dimostrato quanto sei superiore a tutti.
Ma dovrai mettere in atto la Fede che hai accolto anche con le buone opere e con le parole, e al servizio di Cristo, in cui tu credi; dovrai impegnare la tua posizione di preminenza, conducendo a Lui quanti potrai, facendoli battezzare e ammonendoli a prediligere la vita eterna.
Possibile immaginare che i culti pagani a cui fa riferimento Gregorio Magno nell’epistola fossero proprio quelli di cui si è trovata traccia nei nuraghi? Ed è poi plausibile che questi riti siano rapidamente scomparsi a seguito delle disposizioni in essa contenute?
“Siamo stati abituati a immaginare il passaggio tra paganesimo e cristianesimo come brusco e privo di mediazione, ma in realtà non fu così, ce lo dicono le stesse fonti. Il fatto a cui fa riferimento Gregorio Magno riguarda la persistenza del paganesimo nelle campagne. L’episodio descritto dalla lettera non è però certo una specificità sarda, quasi fosse un riferimento identitario per l’isola, ma era un problema abbastanza ricorrente per la Chiesa del tempo. Conosciamo infatti epistole similari per la Corsica, per le quali Gregorio Magno utilizza la stessa frase “Ligna et lapides”, cioè idoli pagani fatti di pietra e di legno. Verrebbe istintivo ricollegare queste parole ai simboli della religiosità protosarda, o ai nuraghi, ma in realtà, ma in realtà per Gregorio si trattava di un termine tecnico, che la cancelleria papale utilizzava per identificare ciò che non era cristiano, non soltanto in Sardegna”. Per quanto riguarda gli stessi barbaricini, la popolazione che viene menzionata nell’epistola, c’è chi ha ipotizzato una sorta di continuità con le popolazioni ribelli dell’interno più volte menzionate dalle fonti di età romana, pur senza delineare un quadro omogeneo. Ma questi barbaricini non è detto che fossero stanziati effettivamente nelle aree centrali della Sardegna, nell’attuale Barbagia, non c’è nulla di stabilito. Lo stesso termine barbaricino, tra l’altro, non è certo impiegato dalle fonti come un sinonimo di barbarico”.
La lenta fine del paganesimo
Per quanto riguarda invece la possibilità che la lettera di Gregorio Magno abbia prodotto una fine repentina del paganesimo nell’Isola, il parere di Muresu è prudente: “Non abbiamo fonti dirette che testimoniano un’evoluzione netta in tal senso, probabilmente nei secoli successivi questi riti sono andati progressivamente scemando, ma ma mio avviso è legittimo ipotizzare che siano proseguiti comunque ancora per diverso tempo. Sono note, a livello archeologico, diverse ecclesiae rurali che testimoniano la volontà, da parte della chiesa insieme alle classi latifondiste, di evangelizzare le campagne. Alcune di esse sono ancora oggi note e inglobate nei paesi, come ad esempio la chiesa di San Giorgio di Decimoputzu, oggi in forme romaniche ma costruita sopra un edificio di culto di età paleocristiana. Nonostante queste iniziative, comunque, è plausibile che le popolazioni della campagna, distanti dalle città e dai luoghi dove le leggi (anche antipagane) arrivavano prima e più efficacemente, mantenessero in uso pratiche rituali legati alle loro radici pagane. D’altra parte le aree rurali, persino di recente (al tempo dei nostri nonni), sono sempre state un mondo molto più lento e refrattario ai cambiamenti rispetto alle città, dunque molto più attaccato alla tradizionalità. Non è quindi strano che questa tradizionalità si sia manifestata nella persistenza di questi riti, che erano poi quelli che i loro avi facevano da generazioni. In altri termini: se nella città il tempio pagano poteva spesso essere smantellato e trasformato in una Chiesa perché così imponeva la legge – e abbiamo tantissimi esempi illustri di questa pratica, come ad Atene i casi del Partenone, che da tempio di Atena Parthenos (Vergine) diventa in età bizantina la Chiesa della Theotokos (Maria, Madre di Dio), o l’Hephaisteion, il tempio di Efesto sempre ad Atene (domina l’Agorà), riconsacrato come chiesa di San Giorgio pochi decenni dopo – nelle campagne probabilmente era molto più difficile rimuovere l’altarino utilizzato dai contadini del luogo”.
Conclusioni
I nuraghi furono insomma abbondantemente riutilizzati anche dopo la fine dell’era nuragica, sino perlomeno a tutto l’Alto Medioevo. Ma questo riutilizzo era fatto da persone contemporanee alla loro epoca, sia da un punto di vista sociale che religioso. Dobbiamo comunque tenere presente, in conclusione, che le comunità che vissero intorno ai nuraghi furono parte di una società sarda che, in città come in campagna, era multietnica e multireligiosa, come dimostrano anche le numerose tracce di convivenza tra differenti credo (tra cui il Giudaismo) rinvenute in altrettanti siti archeologici urbani e rurali della Sardegna e i materiali rinvenuti nelle necropoli della Sardegna altomedievale.
Bibliografia
- Massimo Pittau, La Sardegna Nuragica
- Romina Carboni, Chiara Pilo, Religione e culti della Sardegna in età romana
- Intervista dell’autore a Marco Muresu, Ricercatore in Archeologia Cristiana, Tardoantica e Medievale dell’Università degli Studi di Cagliari
- Alfonso Stiglitz: Tra egemonia e subalternità. Il “riuso” dei nuraghi come luogo di culto
- Manlio Brigaglia, Attilio Mastino e Gian Giacomo Ortu: Storia della Sardegna, Dalle origini al Settecento
- Giovanni Lilliu, Sopravvivenze nuragiche in età romana
- Marco Cappelli, Podcast e sito Storia D’Italia
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Un pensiero riguardo “Il riutilizzo rituale dei nuraghi tra tarda antichità e Medioevo”