Ad una prima lettura dell’Editto di Rotari molti di voi potrebbero ricavarne una profonda delusione: dove sono le tanto celebrate ordalie medievali che ci aspetteremmo di trovare tra le norme del processo longobardo? Nell’immaginario collettivo i processi medievali sono scanditi da prove demoniache come passare in mezzo al fuoco o sui tizzoni ardenti a piedi nudi, immergere un braccio nell’acqua gelida o bollente o gettare l’accusato in un fiume e riconoscerlo innocente se affonda, colpevole se si salva. Niente di tutto ciò è presente nell’Editto di Rotari . Questo tipo di pratiche, dette ordalie (diffuse tra i popoli germanici stanziati più a nord, ma arriveranno più tardi anche sulla penisola italiana e saranno utilizzati anche dalla Santa Inquisizione), riposano sulla convinzione di diretto un intervento divino pronto a rivelare, attraverso segni della natura invocati con corrette formule rituali, chi fosse l’onesto e chi il colpevole; dunque le sorti della lite giudiziaria dipendevano esclusivamente da tale rivelazione e non dall’accertamento storico del fatto. Tuttavia, ad una analisi più approfondita dell’Editto di Rotari, abbiamo due istituti assimilabili alle ordalie, ancorché dal sapore più moderato: il giuramento e il duello. Perché definirli ordalie e che ruolo effettivamente avevano nel processo? Capiamolo insieme.

Ordalia longobarda: il duello e il giuramento
Per il duello, detto anche giudizio di Dio dallo stesso legislatore longobardo, l’intuizione è immediata: ad avere la meglio sarebbe stato colui guidato dalla mano di divina e a soccombere (il duello poteva essere al primo o all’ultimo sangue) il colpevole o il falso accusatore. Questa era la forma inoppugnabile di risoluzione della controversia. C’è da precisare che non per forza l’accusato stesso o il suo accusatore dovevano confrontarsi in duello, ma era possibile affidarlo anche a dei rappresentanti, detti campioni. È proprio quello che succede nientedimeno che alla regina Gundeperga (moglie di Arioaldo e poi proprio di Rotari), accusata di adulterio (secondo la norma del non ancora codificato capitolo 198). Come ci racconta Paolo Diacono la regina si sarebbe ripulita dall’accusa attraverso il suo campione, il servo Carello, che avrebbe sconfitto in duello il suo accusatore alla presenza del popolo riunito e del re. A tale ricostruzione dell’istituto si potrebbe obiettare: bastava avere abbastanza soldi da pagarsi un campione forte per poter vincere ogni tipo di controversia giudiziaria?
Per il giuramento giudiziario il collegamento all’ordalia è meno intuitivo. Questo era un istituto complesso che prevedeva un doppio giuramento. Da un lato, un giuramento de veritate da parte dell’accusato o dell’accusatore sulla veridicità o meno del fatto contestato; e dall’altro, per confermare o meno tale affermazione, prevedeva un giuramento de credulitate da parte di sacramentali, ovvero persone nominate dall’accusato e dall’accusatore, che giuravano di credere a quanto detto dal giurante. Sembrerebbe che i congiurati non fossero chiamati a giurare sulla veridicità del fatto (al quale non avevano assistito), bensì sulla credibilità della persona! Il carattere ordalico starebbe nel fatto di credere che il falso giuratore sarebbe incorso inevitabilmente nell’ira divina e questo sarebbe stato abbastanza da obbligarlo a dire la verità in una società medievale improntata sull’onore e sulla fede. Anche qui si potrebbe obiettare: bastava essere bello, famoso e benvoluto da tutti per poter vincere ogni tipo di controversia giudiziaria? Per rispondere a tali domande, capiamo insieme il meccanismo del processo longobardo.
Ci sarebbe un terzo istituto, del quale però non abbiamo che una testimonianza indiretta nella tarda legislazione del cattolicissimo re Liutprando. Nel capitolo 50 Liutprando condanna la pratica di porre un servo sotto giuramento senza il consenso del padrone, e altresì quella mettere la mano di costui nel calderone bollente. Da una semplice lettura della norma non possiamo ricavare ulteriori informazioni sul se effettivamente quella pratica fosse davvero una ordalia processuale riservata esclusivamente ai servi. Certamente tale norma non era presente nell’Editto di Rotari, nè tale pratica è menzionata in altre fonti. Potrebbe trattarsi di una cawarfidae (una norma tramandata oralmente con lo stesso valore delle norme scritte) oppure potrebbe essere una semplice pratica di abuso di potere messa in atto illegalmente da alcuni giudici che Liutprando vuole sopprimere. A favore di questa seconda ipotesi ci sarebbe il fatto che, secondo il capitolo 50, destinatari di tale pratica fossero solo i servi, ovvero coloro che difficilmente avrebbero potuto ribellarsi ai soprusi in assenza del loro padrone (cosa esplicitata dalla norma stessa): se si trattasse di una ordalia (giudizio di Dio) difficilmente si coglierebbe la differenza di trattamento tra servi e uomini libri al riguardo.

La teoria classica dei processi germano-barbarici
Secondo la teoria classica che riconduce il processo longobardo a quello ancestrale di tutti i popoli germanici, il giudice non aveva alcun potere discrezionale di valutazione delle prove, giacchè non esercitava alcun potere di derivazione statuale e non era in una posizione di supremazia rispetto ai litiganti. Questo era dovuto al fatto che l’idea di Stato non era forte: di conseguenza l’uomo libero (il guerriero) non poteva essere sottoposto all’autorità decisoria di un funzionario del re o del duca. Pertanto, il giudice nel primo processo longobardo era un soggetto terzo stimato da ambe le parti che si limitava ad applicare le regole del gioco: l’esito della controversia sarebbe stato deciso in maniera trasparente ed oggettiva dal duello o dal giuramento, prove (dette formali) indiscutibili perché evocative di un giudizio ultraterreno.

Le ricerche più recenti sulla questione
Come suggeriscono ricerche più moderne, tale impostazione non convince, o meglio, potrebbe essere riferita solo al primissimo periodo longobardo: già al tempo di Rotari il processo longobardo non poteva essere completamente indifferente all’accertamento dei fatti. Tale conclusione può essere dedotta sia dalla documentazione di casi pratici (es. disputa sui confini tra le civitates di Parma e Piacenza sotto re Arioaldo 626-636 decisa a seguito di accertamenti obiettivi svolti da funzionari del re), ma anche da una più attenta analisi dalle norme dello stesso Editto. Infatti, dobbiamo partire dal presupposto che l’Editto di Rotari sia per buona parte una trascrizione di norme orali ancestrali (es. quelle che rimandano al processo germanico classico), affiancate da norme più moderne che già avevano in alcuni casi soppiantato le precedenti. I longobardi non possedevano quella cultura giuridica dei romani tale da permettere una adeguata organizzazione e abrogazione delle norme, molte delle quali appaiono scoordinate tra loro.
Come detto, seppur dobbiamo aspettare i capitoli di Liutprando per la consacrazione della prova documentale e testimoniale come mezzi di prova che il giudice può liberamente valutare, già nell’Editto di Rotari ci sono una serie di norme che ci inducono a ritenere che il giudice già facesse lo stesso. Ad esempio possiamo citare in ambito civile il cap. 146 :
“Se qualcuno incendia una casa altrui dolosamente (…) la rimborsi al triplo (…) secondo la valutazione fatta da uomini di fiducia del vicinato”
oppure il cap. 172:
“Se qualcuno voglia donare legalmente ad altro i propri beni (…) lo faccia in presenza di uomini liberi”
in cui gli uomini liberi in presenza di controversia devono essere chiamati a testimoniare con un giuramento de veritate. Oppure in ambito penale il cap. 16:
“Se qualcuno trova un uomo morto in un fiume (…) e subito ne dà notizia ai vicini”
in cui i vicini in presenza di controversia devono essere chiamati a testimoniare. Queste norme, più che eccezionali, sembrerebbero dimostrare una tendenza da parte dell’ordinamento longobardo di favorire, quando possibile, sempre una testimonianza de veritate da parte di chi ha assistito al fatto. Lo stesso Liutprando, quando nel suo cap. 133 introduce in un caso specifico il giuramento estimatorio de veritate da parte di testimoni, ci tiene a precisare che si tratti di una cawarfidae:
“abbiamo inserito ora queste cose perché tale questione è sempre stata giudicata, al tempo dei nostri predecessori e nel nostro, in questo modo (…) ma senza essere scritta nell’Editto”.

Una rilettura del primo processo longobardo
Tali elementi ci inducono a ritenere che probabilmente, nonostante la loro importanza decisoria ancora indiscussa, il giuramento ed il duello avessero una applicazione solo complementare e residuale rispetto all’accertamento della verità mediante analisi delle prove (come lo sono ancora oggi nel nostro ordinamento gli istituti ormai desueti del giuramento decisorio o estimatorio art. 2736 c.c.). Ovvero, il giuramento poteva essere un mezzo per confermare formalmente un convincimento che il giudice si era creato durante l’analisi delle prove; pertanto sarebbe stato deferito alla parte che era andata più vicina a dimostrare la verità (pro ampotandam intentionem, cioè per troncare la controversia). Lo stesso giuramento de credulitate dei congiurati potrebbe essere stato parametrato non tanto alla reputazione della persona che giura, quanto piuttosto alla veridicità di quanto affermato in relazione alla reputazione stessa, trasformando l’ordalia in una sorta di giuria medievale.
Il duello, invece, da un lato, poteva rivestire un carattere di complementarità essendo utilizzato nel caso in cui il giudice non riusciva mediante le prove a crearsi un convincimento sul fatto; dall’altro, poteva avere propria autonomia nei casi di controversie che incidevano particolarmente sull’onore e per questo scappavano totalmente alle dinamiche processuali. Infatti, lo stesso Liutprando nel suo capitolo 118 (testimoniando un’applicazione fraudolenta dell’istituto al fine di uccidere qualcuno di scomodo e appropriarsi del suo patrimonio) afferma che, sebbene l’esito del duello possa spesso essere iniquo rispetto al vincitore e al soccombente, risulta difficile abolirlo a causa della sua radicata consuetudine nella stirpe dei Longobardi.

Questa ricostruzione renderebbe anche il primo processo longobardo più lontano da quello classico germanico e più vicino a quello romano, poiché entrambi mirerebbero all’accertamento di una verità storica. Tuttavia, bisogna contare che l’esperienza longobarda in tutta la penisola non è stata unitaria e ha vissuto una integrazione graduale e territorialmente asimmetrica con i costumi romani; dunque trattare il processo longobardo ante Liutprando come un procedimento sottoposto sempre e comunque alle medesime regole potrebbe essere fuorviante. Perciò, lungi dall’offrire soluzioni al riguardo, questo articolo mette in luce osservazioni della letteratura più recente, auspicando che la ricerca su tale questione continui.
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Fonti:
Luca Loschiavo, Il più antico “processo” longobardo: per una rilettura, Reti Medievali Rivista, 22, 2 (2021)
Claudio Azzara e Stefano Gasparri (a cura di), Le leggi dei longobardi, Viella – Editrice La Storia (2005)
