Donne, cristianesimo e matrimonio da Fausta a Teodora.

alcuni aspetti di diritto tardoromano e romano altomedievale.

di Diego Serra

Nota: Per la prima volta, pubblico un articolo che mi è stato proposto dall’amico Diego Serra, ricercatore in storia del diritto che abbiamo già imparato a conoscere grazie alle dirette su Massenzio e sugli editti tetrarchici! Si tratta di uno studio approfondito e rivoluzionario sullo status della donna nella tarda antichità romana, che penso sia davvero illuminante! Buona lettura!

Premessa

Lo studio delle donne nel diritto tardoromano e romano altomedievale soffre spesso di stereotipi e luoghi comuni, che derivano in larga misura o da un mancato approfondimento dello studio delle fonti primarie oppure dall’applicazione di parametri di valutazione non aggiornati o anacronistici.

In generale, questi stereotipi e pregiudizi colpiscono sia la comprensione della asimmetrica e multiforme dimensione femminile (legata primariamente all’appartenenza a un ceto sociale e dunque a un certo status); quanto quella della società, etichettata variamente con le categorie di “tardoimperiale”, “bizantina” o “romana orientale”. Tali etichette sono per lo più impropriamente utilizzate con significato aprioristicamente negativo, nella comparazione con l’ipotetica “età dell’oro classica” e senza che se ne comprenda pienamente il significato.

In questo breve scritto, naturale prosecuzione di un saggio divulgativo pubblicato con Zhistorica (https://zweilawyer.com/2022/12/05/donne-e-diritto-romano-doriente-nel-periodo-giustinianeo/), si cercherà di sfatare alcuni miti e di rispondere alle seguenti domande:

a) che cosa si intende per diritto tardoromano e romano altomedievale? Quanto è corretto parlare di diritto bizantino o romano-orientale?

b) qual è stato l’impatto del Cristianesimo sulla condizione delle donne e sul diritto romano, da Costantino a Giustiniano? È stato un impatto negativo? Giustiniano ha proseguito l’opera di chi l’ha preceduto? Quale ruolo e influenza ha avuto Teodora?

Diritto tardoromano, romano-bizantino e romano altomedievale: parole e concetti

Quanto è corretto parlare di diritto bizantino, o diritto romano d’Oriente? È stato sostenuto da alcuni studiosi che il diritto romano orientale prenderebbe avvio dalla fondazione di Costantinopoli nel 330 d.C.; mentre per altri esso coinciderebbe con l’ascesa di Costantino nel 306 d.C[i].

L’espressione “diritto romano d’Oriente” o “diritto bizantino” potrebbe essere in parte fuorviante, e potrebbe essere adeguata soltanto laddove si intenda porre l’accento, ad es., sullo spostamento della “trazione politico-amministrativa” dell’Impero (in particolare, sulla sua capitale, Costantinopoli, sede del potere imperiale) o sulla lingua e cultura dominante della Pars Orientis, il greco e il Cristianesimo.

Sarebbe allora più una sineddoche (una parte per il tutto) piuttosto che un’espressione tecnica pregnante, avente a fondamento alcuni avvenimenti politici e giuridici incontestabili.

È una definizione convenzionale e generica, comoda soltanto formalmente, ma non propriamente corretta nella sostanza. Sarebbe forse preferibile l’utilizzo dei termini “diritto tardoromano”, “romano-bizantino” e “diritto romano altomedievale” per le ragioni seguenti.

È infatti vero che si registra una prima radicale trasformazione dell’ordinamento giuridico romano con la sostanziale suddivisione dell’Impero in due Partes già con Diocleziano (due Augusti, Augusto Iovio e Augusto Erculeo: 293-303 d.C.). Da un punto di vista amministrativo, la suddivisione tra una Pars Orientis e una Pars Occidentis sembra rafforzata con la divisione tra Arcadio e Onorio (nel 395 d.C.) e con la morte di Valentiniano III (455 d.C.: il c.d. periodo medio-postclassico secondo alcuni giuristi), cioè nel momento in cui cessa lo scambio delle costituzioni imperiali promulgate dai rispettivi imperatori tra le due Partes. Il processo di trasformazione culminerebbe infine con la formazione dei regni romano-barbarici in Occidente e con la grande codificazione di Giustiniano (periodo giustinianeo: 527-565 d.C.)[ii].

Fig. 1. Solido di Valentiniano III (425-455 d.C..; immagine da: https://shop.moruzzi.it/it/valentiniano-iii-solido-426-430-d-c-victoria-avggg-r-v-comob-ravenna-oro-spl-ric-2010.html).

Tuttavia, la legislazione romana orientale è in realtà basata sul corpus di leggi preclassiche e classiche e sull’interpretatio dei giuristi classici; la raccolta normativa di Giustiniano è ancora emanata in lingua latina, benché tenda progressivamente ad ellenizzarsi, sotto la spinta del greco, che è sempre lingua ufficiale e (non da ultimo) è pure la lingua della Septuaginta e dei Vangeli. Il latino deve necessariamente essere tradotto in greco per gli studenti grecofoni che frequentano i corsi dei professori universitari delle due uniche università riconosciute dallo Stato, Costantinopoli e Beirut (i professori sono chiamati militarmente antecessores, in quanto erano in prima linea nella formazione dei giovani giuristi).

Fig. 2a. Impero Romano d’Oriente alla morte di Giustiniano (immagine tratta da wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Byzantine_Empire_under_the_Justinian_dynasty#/media/File:4KJUSTINIAN.png).

I vecchi testi di legge e le interpretationes dei giuristi classici sono modificati per essere adattati alle nuove esigenze sociali, questo perché il diritto è vivo e cangiante come la società di cui è espressione. La continuità giuridica e istituzionale da Roma a Costantinopoli nel passaggio tra Tarda Antichità e Prima Età Medievale dovrebbe dunque essere intesa in questo senso e può essere descritta attraverso i seguenti punti fondamentali:

1) l’affermazione in Europa e nell’Oriente mediterraneo del Cristianesimo, che si struttura in seno all’Impero con nuove forme giuridiche di diritto pubblico e privato che riconoscono alla Chiesa forme sempre più ampie di autonomia (Codex Theodosianus I.27.1 sulla episcopalis audientia; XVI.2.4; XVI.2.6; rispettivamente in tema di lasciti ereditari alla Chiesa e necessità di provvedere ai pauperes; Codex I.2.14, sulla gestione del patrimonio ecclesiastico)[iii]; le due strutture, ecclesiastica e imperiale, costituiscono via via un sistema integrato[iv];

2) il diritto romano classico e i mores sono ora integrati (e spesso mitigati e temperati) dai valori cristiani, presenti nei Vangeli, negli Scritti dei Padri della Chiesa e nei Canoni dei Concili;

3) l’emergere di una rinnovata realtà politica e territoriale (nel senso sopra descritto), con nuova veste istituzionale e giuridica: l’Impero Romano altomedievale, progressivamente sempre più grecofono, e che nella teoria politica “romano-orientale” si considerava come un’entità che si poneva in continuità politica e giuridica con l’Impero Romano classico. In seguito alla formazione dei regni romano-barbarici, Costantinopoli sarà considerata la nuova capitale del medesimo antico Impero;

4) Dio è la fonte del diritto e l’imperatore è il produttore concreto delle norme giuridiche.

Fig. 2b. Mosaici di Sant’Apollinare, Ravenna (VI sec. d.C.; immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Basilica_di_Sant%27Apollinare_Nuovo#/media/File:Ravenna,_Sant’Apollinare_Nuovo,_Mosaic_002.JPG ).

Alcuni luoghi comuni

Nell’opinione comune, spesso si sente parlare di periodo tardoromano o bizantino come sinonimo soltanto di decadenza e corruzione (“basso impero”); assolutismo; vessazione; sadismo, specialmente nell’applicazione di pene truculente; anche grazie all’azione malefica del Cristianesimo che avrebbe oppresso la società e soprattutto le donne; e avrebbe ulteriormente causato la distruzione dell’idillio classico, trasformando una società tendenzialmente egualitaria e dai costumi liberi in una zelante teocrazia di bacchettoni fondamentalisti. A ciò si aggiunge la consueta visione dell’imperatrice Teodora come prostituta spregevole e dissoluta, in totale adesione agli scritti per nulla imparziali di Procopio e quale paradigma della degenerazione “bizantina”.

Da un punto di vista giuridico, sicuramente la tecnica legislativa del periodo post-classico, ad esempio, è di qualità inferiore rispetto a quella della fase classica, anche a causa dell’assunzione di personale carente di istruzione giuridica ma, nondimeno, formato nelle arti della logica e della retorica[v].

Tuttavia, queste affermazioni sono storicamente scorrette perché generalizzanti e talora anacronistiche, e non consentono di cogliere la complessità (e spesso l’attualità) di certi fenomeni che tendono a manifestarsi in maniera simile e ciclicamente, e che sono cruciali per capire la storia europea comune antica e contemporanea. Tanto nello studio delle lingue quanto in quello della cultura e del diritto, è sempre pericoloso parlare di evoluzioni o involuzioni (che portano con sé un giudizio non imparziale). Meglio dunque parlare di trasformazioni e fare un po’ di c.d. debunking.

La società romana (arcaica, preclassica, classica e delle fasi successive) è di tipo patriarcale ed è una società di diseguali retta da logiche spietate (chiaramente incompatibili coi ben più recenti principi del liberalismo o quelli del costituzionalismo contemporaneo e della narrativa dei diritti umani fondamentali). In particolare, le società antiche dell’Età del Bronzo e del Ferro e quella romana si fondavano sulla disparità tra liberi e schiavi; tra uomini e donne; tra ricchi aristocratici (honestiores) e masse plebee nettamente più povere (humiliores). Nella società romana, il riscatto e la scalata sociale erano assai difficili e limitate, in quanto erano legate alle contingenze storiche e alla legislazione di un determinato momento storico; alla cultura di una determinata Provincia rispetto ad un’altra; alle vicissitudini individuali più o meno favorevoli.

I diritti antichi sono poi caratterizzati da una stretta correlazione con la sfera religiosa (e quelli più arcaici sono spesso indistinguibili da quella magico-religiosa). Nel caso del diritto romano classico, Mario Talamanca sottolineava che «ius humanum e ius divinum o sacrum concorrono paritariamente a formare l’ordinamento della civitas»[vi]. Scindere i due piani, quello giuridico e quello religioso, porterebbe ad un’operazione anacronistica e antistorica di applicazione dei principi del liberalismo europeo[vii]. L’avvento del Cristianesimo dunque tende a trasformare alcuni elementi del rapporto tra diritto e religione, innovando su alcuni aspetti e proseguendone altri in piena continuità.

Fig. 2c. “stenografo” in udienza. Immagine da: U. Pappalardo 2021, Novità nello Scriptorivm dei romani, 90, Minima Epigraphica et Papyrologica, disegno di Cinzia Morlando.

Talora poi si ritiene che il diritto sia un argomento estremamente settoriale e limitato, ma questo è vero soltanto quando lo storico del diritto si cristallizza nei suoi giudizi, chiudendosi in sé stesso e non aprendosi al dialogo interdisciplinare. Il diritto è un punto di vista privilegiato per lo studio di una cultura antica o contemporanea: la cultura è un prodotto di una scala di valori (consuetudini, mores) che vengono trasmessi di generazione in generazione attraverso un linguaggio, per comunicare determinati modelli di azione e pensiero. Il rispetto della scala o piramide dei valori in cui la comunità o gruppo si riconosce è garantita dalle norme giuridiche attributive di diritti e obblighi. Questi concedono o comandano di dare o non dare, fare o non fare. Lo studio della storia del diritto è lo studio di una cultura in una determinata fase storica: la conoscenza dei fatti storici è fondamentale per comprendere la profonda ragione che ha portato una comunità a darsi quelle norme (oppure a non rispettarle) e richiede un approccio imparziale, lontano dall’applicazione di concezioni contemporanee, laiche, politicamente corrette o politicamente orientate.

Status sociale, matrimonio e costruzione dell’identità femminile nel diritto tardoromano e romano altomedievale

La condizione giuridica delle donne nella società tardoromana e altomedievale è asimmetrica in quanto si lega al ceto sociale di appartenenza (libera o schiava, patrizia o plebea) e alle caratteristiche culturali della singola Provincia (particolarmente, del sostrato sociale e giuridico preromano provinciale) in una data fase del diritto e della storia romana. Come diremo, la legislazione imperiale in tema di adulterio può trovare pedissequa applicazione in Oriente e una mitigazione o attenuazione in Occidente, e differenziarsi a seconda che un determinato fatto sia avvenuto in città oppure nelle aree rurali. Dunque, la condizione concreta della donna si lega non soltanto al suo status, collegato al suo ceto sociale, ma è fortemente influenzata dalle tradizioni culturali e dai costumi di una certa popolazione di una determinata Provincia e a un certo orientamento seguito dalla comunità ecclesiastica di quell’area geografica (es.: prevalenza dell’interpretazione evangelica e degli scritti di un certo Padre della Chiesa rispetto ad un altro; Canoni conciliari), che acquisirà sempre più peso grazie al riconoscimento delle funzioni giurisdizionali episcopali a partire da Costantino (episcopalis audientia: Codex Theodosianus I.27.1)[viii].

Le differenze di status marcano rilevanti divergenze in tema di tipologie di unioni coniugali, come rappresentato sinteticamente nelle due tabelle in basso.

Fig. 3a. Ricostruzione semplificata della piramide sociale nel periodo tardo-romano e giustinianeo (versione rielaborata da https://zweilawyer.com/2022/12/05/donne-e-diritto-romano-doriente-nel-periodo-giustinianeo/) [ix]

Donne della famiglia imperialeAugustae
Donne libere (ingenuae) e di famiglie nobili (honestiores, nobiles, principes, possessores)[x] che si comportano secondo i Mores (honestae)Matrona (donna sposata) e materfamilias (sposata con figli), virgines, viduae (vedove), clarissimae (famiglia senatoriale)    
Donne consacrateVirgines Dei (Consecratae) e Viduae Dei, Diaconissae
Donne inhonestae perché non rispettano i Mores o i precetti evangelici[xi]Mulierculae (possono essere destinatarie di provvedimenti da parte dell’autorità episcopale – per la rilevanza religiosa del fatto commesso – e dell’autorità imperiale – per la rilevanza civile o penale del fatto commesso)
Donne non onorate (humiliores) Libertae (schiave liberate),e libertae filia Domina tabernae (tenuta al rispetto della Lex Iulia de adulteriis)[xii]
Donne non onorate (humiles abiectaeque personae, uxores volgares)attrici (mulieres scaenicae, mimae), mezzane (lenae)[xiii], prostitute (pornai, meretrices)e relativa prole (scaenica e scaenicae filia) [ereditarietà per motivi di pubblica utilità] ex tabernaria e ex tabernarii filia; adulterae damnatae? Ministrae tabernae (servitrici ai tavoli delle taverne)
Donne in schiavitù Serva; ancilla (serva della matrona) e relativa prole (ancillae filia);

Fig. 3b. Sintesi delle caratteristiche delle unioni coniugali in età tardoantica e giustinianea. Iustum Matrimonium e Concubinati (versione rielaborata da https://zweilawyer.com/2022/12/05/donne-e-diritto-romano-doriente-nel-periodo-giustinianeo/).

La costruzione dell’identità femminile ben prima del periodo tardoromano e romano medievale è tutta maschile: la figura femminile ideale ruota attorno al concetto di honestas, proporzionale cioè al rispetto degli antichi costumi (i boni mores) e al culto della Dea Pudicitia. Possiamo semplicemente richiamare l’epitaffio di Claudia (del II sec. a.C.)[xxi], che definisce i canoni della donna ideale: ero di bell’aspetto; ho procreato figli; sono stata una buona moglie; dall’eloquio moderato; ho curato la casa e tessuto la lana.

La donna honorata è colei che rispetta i rigorosi limiti imposti dalla sua appartenenza ad un ceto sociale elevato: ella deve essere buona moglie e madre, contenuta e pudica, custode del focolare e della prole. Il valore della Pudicitia però non è soltanto attinente al pudore e al decoro sessuale delle sole matronae: nella società romana, il rispetto della Dea Pudicitia è tale da influire sull’efficacia delle preghiere agli Dei, specialmente elevate in momenti di guerra e pericolo per la civitas. Le preghiere non saranno ascoltate ed esaudite se la società è corrotta nei costumi[xxii].

Fig. 4. Denario di Giulia Mesa (dinastia severiana, 218-222 d.C.): al rovescio, il tema di Pudicitia (immagine tratta da https://www.colleconline.com/it/items/138285/coin-ancient-b-to-roman-republicain-imperial-julia-maesa-denarius-ric-268-pudicitia).

Si tratta di concetti che permangono nella società tardoromana (seppur progressivamente arricchiti e conformati dai principi cristiani), come ben esemplificato dall’imperatore Massenzio nel provvedimento anonimo sui chierici e, indirettamente, nel suo rescriptum contro la donatista Lucilla (311-312 d.C.), muliercula scaltra e lesta nel raggiro, che osa mettersi a capo di una Chiesa regionale scismatica, in opposizione ai legittimi vescovi riconosciuti da Roma e dall’autorità imperiale[xxiii]. Per riassumere in maniera sintetica, semplificata e non esaustiva l’interazione tra fonti del diritto e parametri comportamentali legislativi, consuetudinari e cristiani, possiamo far riferimento alla seguente tabella. Non si descrive una scala gerarchica ma una interazione:

Antichi MoresAnticamente: nota censoria
Costituzioni imperiali, scritti dei giuristiclassiciGiurisdizione imperiale
Principi cristiani (Vangeli, scritti dei Padri della Chiesa, Canoni conciliari; vite esemplari dei martiri)Giurisdizione episcopale (rapporti personali o di famiglia)

Fig. 5. Fonti del diritto, parametri di comportamento morali, consuetudinari e legislativi nel periodo tardoromano e romano altomedievale (308 d.C. – 565 d.C.). I mores e la legislazione imperiale vengono sempre più integrati e arricchiti dai principi cristiani. Tabella semplificata.

L’importanza della preghiera elevata da soggetti incorrotti e dediti soltanto alla purezza e al culto di Pudicitia, dalle antiche Vestali ai chierici cristiani, dal focolare casalingo al cubiculum di preghiera, è ben rappresentata dalla costruzione della figura delle virgines consecratae cristiane, che sono identificate con l’altare coperto da un bianco velo, contenente reliquiari al suo interno: allo stesso modo, le virgines sono spose di Cristo e specchio di Maria Vergine, contenitori di purezza e santità a beneficio della comunità[xxiv]. La scelta delle Virgines o delle Viduae (vedove) consecratae poteva essere dettata da varie contingenze e vicissitudini personali: da scelta indipendente influenzata dall’ascetismo orientale o strumento di riscatto sociale e emancipazione; a meccanismo coercitivo di relegazione e punizione (specialmente a seguito di violazione delle leggi matrimoniali).

Fig. 6. Virgines consecratae: particolare del Vangelo di Rossano (VI sec. d.C.), fol 2v, Museo Diocesano e del Codex (immagine tratta da: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/01/Meister_des_Evangeliars_von_Rossano_002.jpg).

Ciascuna donna deve inoltre rispettare l’abbigliamento che ne riflette esteriormente l’appartenenza ad una classe sociale: nel diritto romano “l’abito fa il monaco”, al punto che l’offesa (iniuria) pronunciata contro le honestae virgines vestite da schiave o da prostitute, cioè in maniera non adeguata alla propria condizione sociale (spesso per svincolarsi dai rigori di tale appartenenza) poteva comportare una riduzione della pena per il trasgressore, e una forma minore di tutela nei casi di adtemptata pudicitia (offese morali contro donne perbene; induzione a compiere atti immorali che corrompono la pudicitia del soggetto offeso)[xxv].

Fig. 7. Matrona tardoromana (Eutropia, madre di Massenzio, IV sec. d.C.), fotografia di Rachele Lori, Rievocatrice Bettina Winkler[xxvi].

Matrimonio e adulterium: Fausta e Costantino

Prenderemo ora in considerazione alcuni aspetti applicativi delle norme su matrimonio e adulterio che ci offrono un sintetico spaccato delle trasformazioni che hanno investito il diritto romano e la posizione della donna nella società, dalla crescente “rappresaglia” di Costantino degli anni 314, 320, 326-331 d.C. in tema di adulterio sino all’attenuazione e tendenziale equiparazione della responsabilità dei coniugi in Teodosio II e Giustiniano, soffermandoci sul ruolo di Teodora nell’applicazione delle nuove leggi matrimoniali di Giustino e Giustiniano.

Mostreremo due tendenze fondamentali, cronologicamente separate ma collegate da una trasformazione univoca favorita dall’applicazione dei principi cristiani al diritto romano:

  1. nel primo caso, descriveremo in breve l’efferata e vessatoria legislazione di Costantino in tema di divorzio e adulterium, e le tappe che hanno portato ad un suo sostanziale superamento grazie agli interventi legislativi di Teodosio II e Giustiniano, fortemente (seppur rigidamente) ispirati ai principi cristiani[xxvii];
  2. nel secondo caso ci soffermeremo brevemente su alcuni passi diffamatori di Procopio contro Teodora, che in realtà ci descrivono il tentativo da parte della Augusta di far applicare e rispettare la legislazione romana matrimoniale di ispirazione cristiana.

Le leggi di Costantino (Codex Theodosianus IX.7.2; III.16.1, del 326 e del 331 d.C. rispettivamente) rendono estremamente sbilanciato il rapporto tra coniugi in tema di divorzio unilaterale e addebito della responsabilità: avendo equiparato già in precedenza l’adulterio all’omicidio e al maleficio (delitti capitali: Codex Theodosianus IX.40.1; 314 d.C.)[xxviii]. Costantino, infatti, limita le cause di divorzio invocabili dalle donne alle sole tre ipotesi in cui il marito abbia commesso omicidio, o sia responsabile di magia “nera” o violazione di sepolcri[xxix]; il ripudio senza causa da parte della donna, cioè non rientrante nelle suddette tre cause tipiche previste dalla legge, comportava l’applicazione nei suoi confronti delle pene della deportazione (relegatio in insulam) e della perdita della dote[xxx]. Di fatto, Costantino consente al marito di risposarsi, dal momento che non è prevista alcuna invalidità del suo secondo matrimonio[xxxi]. Escludendo l’adulterio maschile dalle cause di divorzio invocabili dalla moglie, e attribuendo ai soli parenti prossimi dell’adultera la possibilità di proporre azione in giudizio contro di lei (il marito può agire anche in base ad un semplice sospetto), Costantino sovverte totalmente gli antichi principi della Lex Iulia de adulteriis di Augusto. Di fatto e di diritto dunque, è sulla donna che principalmente gravavano le asperità (e i rischi) delle nuove leggi costantiniane. Ogni altra causa invocata dalla moglie (infedeltà coniugale del marito, alcolismo, gioco d’azzardo) sono dettate da cupidigia o bramosia sessuale delle donne, secondo le testuali parole di Costantino.

Fig. 8. Solido di Costantino (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/a/a6/Constantine_multiple_CdM_Beistegui_233.jpg/800px-Constantine_multiple_CdM_Beistegui_233.jpg).

Costantino si discosta nettamente dalla tendenza cristiana ad equiparare fornicatio e adulterium, cioè sanzionando qualsiasi rapporto sessuale extramatrimoniale commesso tanto dal marito quanto dalla moglie (Matteo V.32; Matteo 19.9)[xxxii]. Soprattutto, Costantino scarta totalmente proprio l’insegnamento evangelico del valore del perdono, un caposaldo enunciato in Giovanni 8,3-11 in cui Gesù perdona l’adultera. Autori antichi e numerosi studiosi contemporanei hanno cercato in tutti modi (o forse a tutti i costi) di trovare una spiegazione (e talora una giustificazione) al comportamento del «primo principe cristiano», che appare difatti «singolare» (come ben nota Morello 2021, pag. 634). Gli orientamenti dei Padri della Chiesa, univoci sulla necessità del perdono e sul ripudio della sanzione capitale[xxxiii], sono tutt’altro che coerenti sulle cause di divorzio e dipendono da quei fattori culturali e geografici che abbiamo sopra richiamato: per Basilio di Cesarea, ad esempio, in Oriente non rientrerebbe quale causa di divorzio femminile la fornicazione del marito, l’adulterio maschile e neppure le violenze fisiche ai danni della moglie[xxxiv].

L’adulterio poteva comportare l’applicazione della pena di morte già con Alessandro Severo (Codex IX.9.9, del 224 d.C.)[xxxv], tuttavia questa punizione (nel caso dell’adulterio femminile) si attagliava alla specifica congerie culturale severiana, e alla rappresentazione femminile così come esemplificata dalle potenti donne di tale dinastia, paradigmi di Pudicitia e dotate di effettivi poteri decisionali ai vertici della gerarchia imperiale. Nel caso di Costantino invece, l’inasprimento della legislazione sull’adulterio sembra essere collegato al suo rapporto personale con le donne e – in seguito – alla terribile vicenda della moglie Fausta (sorella di Massenzio) e del figlio Crispo, e non sembra avere nulla a che vedere coi principi o orientamenti cristiani o con i mores di una determinata cultura e area geografica[xxxvi].

Fausta, che già si era mostrata moglie fedele denunciando il tentativo di suo padre, l’ex Augusto Massimiano Erculeo, di uccidere Costantino (avendo peraltro l’Erculeo già in precedenza mostrato le sue insidiose trame contro Massenzio), aveva denunciato una violenza carnale di Crispo, avvenuta presumibilmente nell’anno 326 d.C., cioè proprio quello in cui vennero ridefinite alcune misure in tema di adulterium[xxxvii]. È difficile se non impossibile ricostruire la vicenda e il rapporto di causa-effetto tra i due fatti (violenza di Crispo, processo e condanna a morte di Crispo; uccisione di Fausta come rappresaglia posteriore da parte di Costantino, da un lato; nuova legislazione in tema di raptus e adulterium, dall’altro). Non è chiaro cioè se si tratti di una tragica coincidenza o di un atto premeditato da tempo, rispecchiando peraltro una tendenza vendicativa di Costantino contro le donne già attestata almeno dal 320 d.C., come diremo (o addirittura precedente).

Crispo verrà processato e riconosciuto colpevole di stuprum per vim; ciononostante. Fausta invece verrà brutalmente uccisa da Costantino in circostanze non chiare: a) bollita viva, secondo alcune fonti, il che lascerebbe pensare ad una condanna eseguita dai servitori; b) strangolata nei bagni del palazzo imperiale per inscenare un incidente, secondo altre, il che in realtà non escluderebbe uno scatto d’ira dello stesso imperatore – con tutte le implicazioni giuridiche e religiose che ne possiamo trarre —; c) infine, denudata, legata e fatta sbranare viva dalle bestie pubblicamente), come atto di vera e propria vendetta a posteriori[xxxviii]. Le motivazioni del gesto e del perché avesse ritenuto Fausta corresponsabile ce le spiega lui stesso in Codex Theodosianus IX.24.12 (del 320 d.C.).

Fig. 9. Satiro che abbraccia una ninfa (Villa degli epigrammi, Pompei, I sec. d.C.; immagine tratta da: https://imperiumromanum.pl/en/curiosities/incest-adultery-or-fornication/).

La furia paranoica di Costantino, il quale si auto-identifica chiaramente nella vicenda dell’Ippolito di Euripide[xxxix], si riverbera infatti nella sua legislazione. In Codex Theodosianus IX.24.1.2 (del 320 d.C.)[xl] Costantino aveva già in precedenza emanato un’altra legge estremamente vendicativa nel caso di raptus (rapimento di una donna ai fini di violenza): nel raptus, la fanciulla doveva ritenersi responsabile e punibile (perdita dei diritti ereditari) sia in quanto non era rimasta opportunamente al riparo sino al giorno del matrimonio; sia nel caso in cui, laddove il reo fosse entrato nella di lei abitazione, non avesse invocato adeguatamente l’aiuto dei vicini con tutti i mezzi a sua disposizione. Come pena vendicativa di contrappasso, Costantino aveva previsto che la nutrice della fanciulla, se consenziente al rapimento, sarebbe stata giustiziata mediante ingestione di piombo fuso versatole in bocca[xli].

È utile ricordare che, da qualche tempo, adulterium e stuprum avevano finalmente cominciato ad essere differenziati (Codex IX.9.20, del 290 d.C.), e trattati separatamente: lo stuprum venne infatti ricondotto non più alla Lex Iulia de adulteriis (che colpiva qualsiasi rapporto sessuale extramatrimoniale delle donne honoratae non sposate con le pene della relegatio in insulam e con pene patrimoniali accessorie, a prescindere dalla consensualità) ma alla Lex Iulia de vi, punendo lo stuprum con la pena di morte proprio a partire da Costantino[xlii].

La Lex Iulia de adulteriis (ricordiamo) colpiva con la relegatio in insulam e pene patrimoniali accessorie i rapporti sessuali extramatrimoniali delle donne honoratae (nubili, mogli o vedove); consentendo peraltro al pater familias l’uccisione della filia e dell’amante colti in flagranza (il marito di lei poteva soltanto uccidere l’amante, se appartenente agli humiliores); infine, il marito era obbligato (nel caso di adulterium della moglie) al divorzio tempestivo, potendo altrimenti essere punito per lenocinium (intermediazione per procacciare amori illeciti nell’attività di sfruttamento della prostituzione)[xliii].

Fig. 10. Agostino di Ippona (Roma, Laterano, affresco del VI sec. d.C.; immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Agostino_d%27Ippona#/media/File:Augustine_Lateran.jpg). 

La reazione della Chiesa talora fu di fatto avversa[xliv]: Agostino, ad esempio, inviterà le donne a rivolgersi alla giurisdizione ecclesiastica, dal momento che la legge non garantiva loro alcuna azione e dato che la Chiesa equiparava adulterio e fornicazione, a prescindere dal fatto che fosse stata commessa dal marito o dalla moglie. Nonostante la pena di morte (irrogata ancora sotto Valentiniano contro senatori e clarissimae colpevoli di adulterio) fosse talora commutabile con il carcere a vita o con la condanna ad metalla, nelle grandi città occidentali come Roma e Milano la recezione della legge di Costantino sembra sia stata più blanda per motivi legati non soltanto alla diversa cultura delle città occidentali rispetto a quelle orientali o alle zone rurali, ma anche al fatto che la Chiesa avrebbe inflitto la scomunica a chi avesse testimoniato in una causa di adulterium o per delitti capitali (contrari alla testimonianza sono, ad es., Lattanzio e i canoni conciliari di Elvira). A Roma, sembra che i divorzi femminili fossero decisamente più facili. Molti erano dunque i motivi che avrebbero spinto gli individui a rivolgersi alla giurisdizione ecclesiastica, nonostante i limiti di questa rispetto a quella imperiale e nonostante il fatto che la Chiesa fosse apertamente contraria al secondo matrimonio.

Ben lontano dunque dagli ideali di pietas cristiana[xlv] e pietas legislativa decantati da Eusebio, Costantino mostra in realtà tutto il suo lato violento e vendicativo nei confronti delle donne, lontano dall’applicazione di principi cristiani, e ciò già prima della vicenda di Fausta. La legislazione costantiniana sull’adulterio si attenuerà con Onorio cent’anni dopo (sebbene in misura lieve e non pienamente chiara, Codex Theodosianus, III.16.2, del 421 d.C.)[xlvi]  e subirà un’importante riformulazione con Teodosio II (Codex, V.17.8 del 449 d.C.)[xlvii]; la pena di morte costantiniana verrà abrogata da Giustiniano con la Novella 117 c. 8 (542 d.C.)[xlviii].

Fig. 11. Solido di Teodosio II (408-450 d.C.; immagine tratta da https://auctions.nomismaweb.com/it/lot/559341/teodosio-ii-408-450-solido-/#gallery-1).

Teodosio II stabilirà, tanto per gli uomini quanto per le donne, la riconduzione dell’adulterio all’interno della categoria dei gravi crimini (sebbene ancora non siano equiparati adulterio maschile e fornicazione), tale da rappresentare causa legale di divorzio se si fosse posto unitamente ad atti lesivi della dignità della moglie, quale quello di introdurre una impudica mulier nell’abitazione familiare, costringendo la moglie a subirne la presenza. Cionondimeno, Teodosio II prevede altri gravi casi giustificanti il divorzio, che valgono tanto per la moglie quanto per il marito, come ad es. la fustigazione del coniuge, l’omicidio, il veneficio, la violazione di sepolcri, la lesa maestà, il falso, il furto sacrilego, il brigantaggio (o, nel caso della donna, il favoreggiamento dello stesso), l’abigeato, il plagio e il tentato uxoricidio[xlix]. A seguito di sentenza di condanna del marito, la moglie avrebbe così potuto presentare la richiesta di divorzio.

Giustiniano e Teodora

Attraverso le Novellae 22, 117, 127 e 134 Giustiniano, in ossequio ai principi cristiani (seppur restando ancora distante dalla nostra morale e dal nostro diritto contemporaneo) abolirà la pena capitale per adulterio e concederà all’adultera la possibilità del perdono maritale, rispristinando la funzione punitiva rigorosa (ma non disumana) della Lex Iulia e mitigandola con la pietas e il perdono cristiani. Giustiniano, infatti, con la Novella 134 c.10 del 556 d.C.[l] (pur formalmente conservando le pene contro gli adulteri della legislazione precedente, ma ripetendo parte del contenuto della precedente e cruciale Novella 117, del 542 d.C., come ora si dirà subito)[li] in realtà punirà l’adultera mediante segregazione in perpetuo in apposito convento (una sorta di monastero di confino penale[lii], con obbligo di isolamento e di indossare vesti differenti da quelle delle altre monache, e salvo che il marito avesse deciso di riportarla a casa entro il termine di due anni, decorsi i quali la reclusione sarebbe stata a vita). Mentre tanto per la moglie quanto per il marito divorzianti sine causa era prevista la segregazione in convento e il divieto di nuove nozze[liii]. Sono previste pene esclusivamente patrimoniali a carico del coniuge colpevole, a tutto vantaggio di quello innocente.[liv]

Fig. 12. Giustiniano (Mosaico di S. Vitale, Ravenna; immagine tratta da Foto: Petar Milošević, CC BY-SA 4.0 https://www.storicang.it/a/limperatrice-teodora-santa-e-peccatrice_15469).

È chiara l’abrogazione della pena di morte costantiniana per l’adulterio, che risultava infatti incompatibile con la ratio della Lex Iulia (vi andava in esplicito contrasto, snaturandone la funzione) e che dunque, in ultima istanza, andava contro le antiche leggi romane che erano espressione degli antichi mores di cui Augusto con le sue Leges Iuliae si era fatto restauratore.

Pur mirando a mantenere in vita perpetuamente il vincolo coniugale, salvo pochissime eccezioni vessatorie per la moglie, Costantino aveva alterato l’obiettivo della Lex Iulia. La prosecuzione dell’opera di Costantino in Giustiniano è soltanto apparente: non è dirimente infatti evidenziare l’ostilità di Giustiniano per il divorzio, il che è più applicazione di principi cristiani che di continuità costantiniana.

E che la pena di morte per l’adulterio sia stata formalmente e sostanzialmente abrogata pensando primariamente alla condizione femminile lo dimostra il favore di Giustiniano per le donne di qualunque ceto sociale in Codex, IX.13 (del 533 d.C.; vd. https://zweilawyer.com/2022/12/05/donne-e-diritto-romano-doriente-nel-periodo-giustinianeo/, pena di morte per i raptores di virgines consecratae, viduae consecratae e donne di qualsiasi condizione).

Con la Novella 117 del 542 d.C.[lv] (che prevede, tra le varie cose, ad es. un’equa e restrittiva redistribuzione delle cause unilaterali di ripudio) Giustiniano sottopone il marito alle pene a cui sarebbe stata condannata l’adultera qualora non avesse raggiunto la prova dell’adulterio[lvi]. In continuità apparente ma con sostanziale spregio delle leggi costantiniane che consentivano al marito l’azione per adulterio in base al solo sospetto, così facendo Giustiniano non soltanto scoraggia azioni infondate ma, pur consentendo ancora la proposizione della domanda per il mero sospetto, la circonda di cautele e oneri formali (triplice ammonizione scritta e verificata da tre fededegni)[lvii]. Inoltre, Giustiniano restringe il campo di non punibilità del marito al solo caso in cui questi avesse ucciso l’amante della moglie in flagranza di adulterio: è dunque vietata dalla legge l’uccisione della moglie adultera ed è pienamente punibile il marito che uccide la moglie in flagranza di adulterio). Inoltre, l’uccisione dell’amante della moglie deve essere preceduta da tre diffide scritte e può avvenire soltanto in luoghi esplicitamente menzionati dalla nuova legge[lviii].

Alla luce di quanto detto, è impossibile non vedere l’enorme influenza della Augusta Teodora nella legislazione giustinianea sulle donne, e soprattutto acquistano un senso (sebbene a contrario) le diffamatorie e ingiuriose parole di Procopio contro Teodora (Storia Segreta, XVII. 13-14)[lix], accusata di perpetrare alcune condotte che in realtà altro non sono se non l’implementazione in concreto della legislazione varata da Giustino I che, col suo storico rescritto in Codex, V.4.23 del 520-523 d.C. aveva stabilito l’affrancamento delle figlie delle ex-attrici (post expurgationem prioris vitae matris suae natae sint) dallo stigma sociale (non videantur scaenicarum esse filiae) e giuridico (nec subiacere legibus) che precludeva loro di sposarsi.

Giustino I aveva aperto la via della redenzione irrevocabile per le ex-attrici, rimuovendo gli impedimenti matrimoniali (sine dubio mereantur ad matrimonium eas venire permittentes legitimum) per quante avessero abbandonato le scene al fine di abbracciare il valore della honestas. Dopotutto, lo snaturamento della Lex Iulia de maritandis ordinibus imputabile a Giustino I è da lui effettuato in un’ottica ugualitaria ispirata tanto dal Cristianesimo quanto dalle pratiche esigenze di consentire il matrimonio di Giustiniano con Teodora (vietato dalle precedenti Leges Iuliae), ed è pur sempre applicazione di principi egualitari di ispirazione cristiana che mostrano il favor e non una vessazione della donna.

Fig. 13. Imperatrice Teodora (al centro). Particolare del mosaico di S. Vitale di Ravenna (VI sec. d.C.). Immagine: https://www.turismo.ra.it/corteo-teodora-giustiniano-basilica-san-vitale/

Infatti, dopo le turbolente e atroci vicissitudini che avevano colpito Teodora nella sua vita precedente, esercitando un mestiere degradante e previsto come obbligatorio dalla legge per alcune categorie di donne (vd. https://zweilawyer.com/2022/12/05/donne-e-diritto-romano-doriente-nel-periodo-giustinianeo/), è chiaro che le pressioni di Teodora per maritare due nubili accusate di vita licenziosa sono tutt’altro che un’azione violenta e depravata, come recriminato da Procopio.

Da un lato (comprendendo il meccanismo alla rovescia della damnatio), è verosimile ipotizzare che l’imperatrice mirasse a fugare le degradanti e infamanti voci di licenziosità che avevano colpito le due giovani; e dall’altro, inducendole a sposarsi con gli humiliores, ella tendeva ad implementare la legislazione di Giustino I e proteggere le donne stesse dalle voci infamanti, salvandone proprio l’honestas, anche contro la volontà di queste, in un intento moralizzante particolarmente avvertito da chi, come lei, aveva patito l’atroce stigma delle mimae.

D’altronde, dopo aver esplicitamente ammesso che Teodora si fosse prodigata per aiutare le donne in difficoltà, Procopio mette in relazione la Augusta con la severità nella prova dell’adulterio richiesta ai mariti (severamente puniti con la restituzione del doppio della dote, fustigazioni e carcere), che altro non è se non un riferimento all’applicazione della Novella 117 (forse così testimoniando il ruolo di ispirazione di Teodora per l’emanazione della legge del 542 d.C.). In applicazione di un evidente favor per le donne, con questo gesto Teodora aveva chiaramente inteso limitare gli abusi che si erano verificati nel diritto previgente, proprio in applicazione di alcuni aspetti della vecchia legislazione costantiniana sulla proposizione dell’azione per il mero sospetto. Tutto ciò sembra un’ulteriore prova del disprezzo sostanziale verso la precedente legislazione costantiniana (o la sua concreta applicazione in giudizio).

Proprio in connessione con il tema della calunnia si pone l’ulteriore accusa di Procopio contro Teodora, secondo il quale la Augusta avrebbe obbligato Saturnino a sciogliere il fidanzamento con la di lui cugina per maritarlo con la figlia di Crisomallo (ex ballerina e cortigiana), facendolo poi frustare dal momento che Saturnino aveva preso ad infamare la moglie, lamentandosi del fatto che non fosse vergine[lx].

Anche in questo caso, è evidente l’azione di Teodora che, da un lato, agisce per l’implementazione della legislazione di Giustino I in Codex V.4.23 e per scongiurare le calunnie sull’adulterio femminile richiedendo un adeguato onere probatorio, in un intento moralizzante di promozione di matrimoni “misti” (e non endogamici) con donne che avevano sofferto atrocemente durante l’obbligo del palcoscenico (e le rispettive figlie); e, dall’altro, ella mirava proprio a maritare quelle donne che, intrattenendo chiaramente rapporti extraconiugali pur con giovani di pari rango, erano accusate di condurre una vita licenziosa.

In conclusione, l’analisi delle fonti non soltanto mostra un quadro variegato e asimmetrico, legato alle condizioni sociali, culturali, geografiche e giuridiche sopra evidenziate. Il diritto tardoromano e romano altomedievale ha progressivamente offerto alle classi sociali più umili o svantaggiate le condizioni per ottenere alcune forme di riscatto sociale e giuridico, nonostante si sia radicalizzato su alcuni aspetti come quelli legati al credo religioso. Numerosi sono ancora i luoghi comuni da sfatare, ma si spera di aver offerto in questo scritto, pur divulgativo, un breve contributo utile al debunking.


[i] Secondo alcuni giuristi, la suddivisione delle fasi rilevanti per il diritto sarebbe la seguente: un primo periodo altopostclassico (dalla morte dell’ultimo giurista classico Modestino al c.d. “editto di Milano” del 313 d.C.); mediopostclassico (dal 313 d.C. alla morte di Valentiniano III nel 455, in cui cessa lo scambio di costituzioni imperiali tra Parte Occidentale e Parte Orientale); bassopostclassico (dal 455 all’ascesa di Giustiniano al trono nel 527 d.C.); giustinianeo (dal 525 d.C. alla morte di Giustiniano nel 565 d.C.). G. Pugliese 1998. Istituzioni di diritto romano. Torino: Giappichelli, pag. 22.

[ii] Vd. Pugliese, cit. pag. 22.

[iii] Per una sintesi, vd. R. Arcuri, 2012. I beni della Chiesa nel VI sec. d.C. tra economia, diritto e religione. Atti dell’Accademia Pontaniana. Gianini: Napoli, pp. 123-137.

[iv] D. Ceccarelli Morolli. Il diritto dell’Impero romano d’Oriente. Orientalia Christiana, 2016, pp. 18-19.

[v] S. Troianos, 2015. Le fonti del diritto bizantino (traduzione a cura di P. Buongiorno). Torino: Giappichelli, pag. 7.

[vi]  M. Talamanca,1989. Lineamenti di storia del diritto romano, pag. 32. Milano: Giuffrè.

[vii] Talamanca, cit. pag. 32.

[viii] Vd. Pugliese, cit. pag. 206.

[ix] Come sottolineato nell’articolo di Zhistorica del dicembre 2022, si tratta di una ricostruzione che non ha pretesa di completezza ma che tenta un inquadramento per rendere comprensibile e accessibile la materia a tutti.

[x] Vd. Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, pag. 93. Roma: La Sapienza Editrice: honestiores, sono coloro che appartengono a classi socialmente elevate, anche in virtù delle cariche che sono ricoperte dagli appartenenti alla famiglia (gens).

[xi] V. sul punto: D. Serra e M. Cecini, El Senatoconsulto y el edicto de Diocleciano y Maximiano contra Christianos y el edicto abrogativo de Majencio: BHG 1576, BNF Grec. 1470, ff. 120v-121r, pp. 195 e ss. In open access al seguente link: https://revistas.um.es/ayc/issue/view/21011/3621.

[xii] Con legge di Costantino in Codex Theodosianus IX.7.1.

[xiii] Si tratta di una intermediatrice o procacciatrice di rapporti amorosi illeciti. Le controparti maschili, gli sfruttatori della prostituzione, sono detti lenoni.

[xiv] Sino all’abolizione della categoria di donne in quas stuprum non committitur, era penalmente vietato avere rapporti sessuali con donne honoratae al di fuori del iustum matrimonium.

[xv] Categoria abolita poi in periodo giustinianeo. Non tutti gli studiosi concordano sul fatto che le donne in quas stuprum non committitur sono quelle con le quali sia possibile il solo concubinato.

[xvi] E. Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, pag. 676. Roma: La Sapienza Editrice.

[xvii] Nel diritto romano classico, è la volontà dei due coniugi che doveva perdurare nel tempo. Con il Cristianesimo invece, trionferà una concezione di affectio maritalis come volontà iniziale e perpetua.

[xviii] Vd. Volterra, cit., pag. 676: il concubinato con donne ingenuae, sino alla abolizione della categoria delle donne in quas stuprum non committitur, era non punito.

[xix] I figli nati dalla schiava che ha vissuto in concubinato con il padrone divengono liberi se il dominus non ha diversamente disposto (Codex VII.15.3).

[xx] Vd. Volterra, cit., pag. 676.

[xxi] F. Miranda, 2018. Il ruolo della donna nel processo romano. Tesi di dottorato, Università degli Studi Federico II di Napoli, Université Paris II, pag. 16. Vd. http://www.fedoa.unina.it/12321/1/Il_ruolo_della_donna_nel_processo_romano.pdf.

[xxii] S. Fusco, 2010. Edictum de adtemptata pudicitia. Diritto @ Storia, 9, pp. 1-46.

[xxiii] V. sul punto: D. Serra e M. Cecini, El Senatoconsulto y el edicto de Diocleciano y Maximiano contra Christianos y el edicto abrogativo de Majencio: BHG 1576, BNF Grec. 1470, ff. 120v-121r, capitolo 7.

[xxiv] Vd. V. Ivanovici, S. Undheim, 2019. Consecrated Virgins as Living Reliquaries in Late Antiquity. RIHA, pp. 1-21.

[xxv] S. Fusco, 2010. Edictum de adtemptata pudicitia. Diritto @ Storia, 9, pp. 1-46.

[xxvi] Si ringraziano il collega dott. Marco Cecini, la fotografa Rachele Lori e la rievocatrice Bettina Winkler per la gentile concessione.

[xxvii] Faremo riferimento allo scritto di V. Neri, 2014. I Cristiani e la legislazione imperiale su adulterio e divorzio (IV-V sec. d.C.). Ravenna Capitale. Permanenze del mondo giuridico romano nei secoli V-VIII, pp. 189-209. Santarcangelo di Romagna: Maggioli.

[xxviii] Vd. Neri, cit. pag. 199. Codex Theodosianus, 9.40.1 [=brev.9.30.1]. Imp. Constantinus a. ad Catulinum. Qui sententiam laturus est, temperamentum hoc teneat, ut non prius capitalem in quempiam promat severamque sententiam, quam in adulterii vel homicidii vel maleficii crimine aut sua confessione aut certe omnium, qui tormentis vel interrogationibus fuerint dediti, in unum conspirantem concordantemque rei finem convictus sit et sic in obiecto flagitio deprehensus, ut vix etiam ipse ea, quae commiserit, negare sufficiat. Dat. III. non. nov. Treviris. acc. XV. kal. mai. Hadrumeti, Volusiano et Anniano coss.

[xxix] Neri, cit. pag. 208. Codex Theodosianus, 3.16.1 [=brev.3.16.1]Imp. Constantinus a. ad Ablavium pf. p. Placet, mulieri non licere propter suas pravas cupiditates marito repudium mittere exquisita causa, velut ebrioso aut aleatori aut mulierculario, nec vero maritis per quascumque* occasiones uxores suas dimittere, sed in repudio mittendo a femina haec sola crimina inquiri, si homicidam vel medicamentarium vel sepulcrorum dissolutorem maritum suum esse probaverit, ut ita demum laudata omnem suam dotem recipiat. Nam si praeter haec tria crimina repudium marito miserit, oportet eam usque ad acuculam capitis in domo mariti deponere, et pro tam magna sui confidentia in insulam deportari. In masculis etiam, si repudium mittant, haec tria crimina inquiri conveniet, si moecham vel medicamentariam vel conciliatricem repudiare voluerit. Nam si ab his criminibus liberam eiecerit, omnem dotem restituere debet et aliam non ducere. Quod si fecerit, priori coniugi facultas dabitur, domum eius invadere et omnem dotem posterioris uxoris ad semet ipsam transferre pro iniuria sibi illata.

Dat. iii. non. mai. Basso et Ablavio coss.

[xxx] Neri, cit. pag. 198.

[xxxi] Neri, cit. pag. 199.

[xxxii] Vd. Neri, cit. pag. 196.

[xxxiii] Vd. la discussione in Morello 635.

[xxxiv] Neri, cit. 208.

[xxxv] Codex 9.9.9 Imperator Alexander Severus. Castitati temporum meorum convenit lege Iulia de pudicitia damnatam in poenis legitimis perseverare. Qui autem adulterii damnatam, si quocumque modo poenam capitalem evaserit, sciens duxit uxorem vel reduxit, eadem lege ex causa lenocinii punietur * ALEX. A. PROCULO. *<A 224 PP.VII K.FEBR.IULIANO ET CRISPINO CONSS.>.

[xxxvi] Si farà riferimento interamente all’ottima analisi di Rocco: vd. nota successiva.

[xxxvii] Per un tentativo storico-giuridico di ricostruzione della vicenda, vd. M. Rocco, 2013. Fausta, Costantino e lo stuprum per vim. RSA, 43, pp. 243-260.

[xxxviii] Vd. sul punto e per i dettagli: Rocco, cit. pag. 247, che passa in rassegna dettagliatamente le fonti. È evidente che Costantino rimproveri a Fausta il fatto di non aver opposto adeguata resistenza alla violenza carnale del figliastro.

[xxxix] Vd. Rocco, cit. pag. 256, nota 56.

[xl] Per consultare il Codex Theodosianus gratuitamente, vd. https://droitromain.univ-grenoble-alpes.fr/Constitutiones/CTh09.html . Il testo della costituzione è il seguente, ed è tratto dal link appena richiamato:  C.Th. IX.24.1 [=brev.9.19.1]. Imp. Constantinus a. ad populum. pr. Si quis nihil cum parentibus puellae ante depectus invitam eam rapuerit vel volentem abduxerit, patrocinium ex eius responsione sperans, quam propter vitium levitatis et sexus mobilitatem atque consilii a postulationibus et testimoniis omnibusque rebus iudiciariis antiqui penitus arcuerunt, nihil ei secundum ius vetus prosit puellae responsio, sed ipsa puella potius societate criminis obligetur. 1. Et quoniam parentum saepe custodiae nutricum fabulis et pravis suasionibus deluduntur, his primum, quarum detestabile ministerium fuisse arguitur redemptique* discursus, poena immineat, ut eis meatus oris et faucium, qui nefaria hortamenta protulerit, liquentis plumbi ingestione claudatur. 2. Et si voluntatis assensio detegitur in virgine, eadem, qua raptor, severitate plectatur, quum neque his impunitas praestanda sit, quae rapiuntur invitae, quum et domi se usque ad coniunctionis diem servare potuerint et, si fores raptoris frangerentur audacia, vicinorum opem clamoribus quaerere seque omnibus tueri conatibus. sed his poenam leviorem imponimus solamque eis parentum negari successionem praecipimus. 3. Raptor autem indubitate convictus si appellare voluerit, minime audiatur.4. Si quis vero servus raptus facinus dissimulatione praeteritum aut pactione transmissum detulerit in publicum, Latinitate donetur, aut, si Latinus sit, civis fiat Romanus: parentibus, quorum maxime vindicta intererat, si patientiam praebuerint ac dolorem compresserint, deportatione plectendis. 5. Participes etiam et ministros raptoris citra discretionem sexus eadem poena praecipimus subiugari, et si quis inter haec ministeria servilis condicionis* fuerit deprehensus, citra sexus discretionem eum concremari iubemus. Dat. kal. april. Aquileia, Constantino a. VI. et Constantino c. coss.

[xli] Vd. Rocco, cit., pag. 256, nota 55.

[xlii] Vd. Rocco, cit. pag. 252.

[xliii] Pugliese, cit., pp. 255-259.

[xliv] Vd. i casi discussi da Neri, cit. pag. 202.

[xlv] Vd. D. Serra, F.M. Serra, M. Cecini, A. Podda, Marcianus Gr. II 145 (1238) f. 1R: nota preliminare a due inedite epistulae dell’Imperatore Massenzio nel quadro dei rapporti tra Cristianesimo e Impero. Riflessioni sulla cronologia del primo editto di tolleranza. Anejos VIII de Antigüedad y Cristianismo – Universidad de Murcia, capitolo 6.2.

[xlvi] Codex Theodosianus, III.16.2. Imppp. Honorius, Theodosius et Constantius aaa. Palladio pf. p. Mulier, quae repudii a se dati oblatione discesserit, si nullas probaverit divortii sui causas, abolitis donationibus, quas sponsa perceperat, etiam dote privetur, deportationis addicenda suppliciis: cui non solum secundi viri copulam, verum etiam postliminii ius negamus. Sin vero morum vitia ac mediocres culpas mulier matrimonio reluctata convicerit, periura dotem donationemque viro refundat, nullius umquam* penitus socianda coniugio: quae ne viduitatem stupri procacitate commaculet, accusationem repudiato marito iure deferimus. Restat, ut, si graves causas atque involutam magnis criminibus conscientiam probaverit, quae recedit, dotis suae compos, sponsalem quoque obtineat largitatem, atque a repudii die post quinquennium nubendi recipiat potestatem; tunc enim videbitur sui magis viri id exsecratione quam alieni appetitione fecisse. 1. Sane si divortium prior maritus obiecerit ac mulieri grave crimen intulerit, persequatur legibus accusatam impetrataque vindicta et dote potiatur, et suam recipiat largitatem et ducendi mox alteram liberum sortiatur arbitrium. Si vero morum est culpa, non criminum, donationem recipiat et dotem relinquat, aliam post biennium ducturus uxorem. Quod si matrimonium solo maluerit separare dissensu, nullisque vitiis peccatisque gravetur exclusa, et donationem vir perdat et dotem, ac perpetuo coelibatu insolentis divortii poenam de solitudinis moerore sustineat, mulieri post anni metas nuptiarum potestate concessa. 2. Super retentionibus autem dotium propter liberos iuris antiqui praecepimus cauta servari. Dat. vi. id. mart. Ravenna, Eustathio et Agricola coss.

[xlvii] Il testo del Codex è liberamente consultabile al seguente link: https://droitromain.univ-grenoble-alpes.fr/Corpus/codjust.htm. Codex 5.17.8 Imperatores Theodosius, ValentinianusConsensu licita matrimonia posse contrahi, contracta non nisi misso repudio solvi praecipimus. Solutionem etenim matrimonii difficiliorem debere esse favor imperat liberorum 1 Causas autem repudii hac saluberrima lege apertius designamus. Sicut enim sine iusta causa dissolvi matrimonia iusto limite prohibemus, ita adversa necessitate pressum vel pressam, quamvis infausto, attamen necessario auxilio cupimus liberari 2 Si qua igitur maritum suum adulterum aut homicidam vel veneficum vel certe contra nostrum imperium aliquid molientem vel falsitatis crimine condemnatum invenerit, si sepulchrorum dissolutorem, si sacris aedibus aliquid subtrahentem, si latronem vel latronum susceptorem vel abactorem aut plagiarium vel ad contemptum sui domi suae ipsa inspiciente cum impudicis mulieribus ( quod maxime etiam castas exasperat) coetum ineuntem, si suae vitae veneno aut gladio vel alio simili modo insidiantem, si se verberibus, quae ab ingenuis aliena sunt, adficientem probaverit, tunc repudii auxilio uti necessariam ei permittimus libertatem et ca usas discidii legibus comprobare. 3 Vir quoque pari fine claudetur nec licebit ei sine causis apertius designatis propriam repudiare iugalem, nec ullo modo expellat nisi adulteram, nisi veneficam aut homicidam aut plagiariam aut sepulchrorum dissolutricem aut ex sacris aedibus aliquid subtrahentem aut latronum fautricem aut extraneorum virorum se ignorante vel nolente convivia appetentem aut ipso invito sine iusta et probabili causa foris scilicet pernoctantem, nisi circensibus vel theatralibus ludis vel harenarum spectaculis in ipsis locis, in quibus haec adsolent celebrari, se prohibente gaudentem, nisi sui veneno vel gladio aut alio simili modo insidiatricem, vel contra nostrum imperium aliquid machinantibus consciam, seu falsitatis se crimini immiscentem invenerit, aut manus audaces sibi probaverit ingerentem: tunc enim necessariam ei discedendi permittimus facultatem et causas discidii legibus comprobare. 4 Haec nisi vir vel mulier observaverint, ultrici providentissimae legis poena plectentur. Nam mulier si contempta lege repudium mittendum esse temptaverit, suam dotem et ante nuptias donationem amittat nec intra quinquennium nubendi habeat denuo potestatem: aequum est enim eam interim carere conubio, quo se monstravit indignam 4a Quod si praeter haec nupserit, erit ipsa quidem infamis, conubium vero illud nolumus nuncupari: insuper etiam arguendi hoc ipsum volenti concedimus libertatem. 4b Si vero causam probaverit intentatam, tunc eam et dotem recuperare et ante nuptias donationem lucro habere aut legibus vindicare censemus et nubendi post annum ei, ne quis de prole dubitet, permittimus facultatem. 5 Virum etiam, si mulierem interdicta arguerit attemptantem, tam dotem quam ante nuptias donationem sibi habere seu vindicare uxoremque, si velit, statim ducere hac iusta definitione sancimus. Sin autem aliter uxori suae renuntiare voluerit, dotem redhibeat et ante nuptias donationem amittat 6 Servis scilicet seu ancillis puberibus, si crimen adulterii vel maiestatis ingeritur, tam viri quam mulieris ad examinandam causam repudii, quo veritas aut facilius eruatur aut liquidius detegatur, si tamen alia documenta defecerint, quaestionibus subdendis. Super plagis etiam, prout dictum est, illatis ab alterutro commovendis easdem probationes ( quoniam non facile quae domi geruntur per alienos poterunt confiteri) volumus observari  7 Si vero filio seu filiis, filia seu filiabus extantibus repudium missum est, omne quidquid ex nuptiis lucratum est filio seu filiis, filiae seu filiabus post mortem accipientis servari, id est si pater temere repudium miserit, donationem ante nuptias a matre servari, si mater, dotem ipsam eidem vel eisdem filio seu filiae patre moriente dimitti censemus: patri videlicet vel matri in scribendis filiis heredibus, unum seu unam vel omnes si scribere vel uni ex his donare velit, electione servata. 7a Nec ullam alienandi seu supponendi memoratas res permittimus facultatem: sed si aliquid ex isdem rebus defuerit, ab heredibus seu earum detentatoribus, si tamen non ipsos heredes scripserit aut scripti filii non adierint, praecipimus resarciri, ut etiam hoc modo inconsulti animi ad repudium mittendum detrimento retrahantur. 8 Pactiones sane, si quae adversus praesentia scita nostrae maiestatis fuerint attemptandae, tamquam legum contrarias nullam habere volumus firmitatem. * THEODOS. ET VALENTIN. AA. HORMISDAE PP. *<A 449 D.V ID.IAN.PROTOGENE ET ASTERIO CONSS.>

[xlviii] Vedi per una bella analisi di insieme: M. Morello, 2021. Aspetti dell’accusatio iure mariti vel patris in materia di adulterio. Studi Urbinati, 55, pp. 615-644; vd. in particolare, pp. 637-638.

[xlix] Vd. Neri, cit. pp. 206 e ss.

[l] Vd. Novella 134, https://droitromain.univ-grenoble-alpes.fr/Corpus/Nov134.htm. Novella 134, c.10 (556 d.C.):  CAPUT X. Si quando vero adulterii crimen probetur, iubemus illas poenas peccantibus inferri, quas Constantinus divae memoriae disposuit; et illis similibus subiciendis poenis, qui medii <aut> ministri huiusmodi impio crimini facti sunt. De substantia vero adulteri, si habeat uxorem, dotem et propter nuptias donationem ei salvari, aut partem a nostra lege datam si dotalia instrumenta non subsecuta sunt; residuam vero eius substantiam, si quidem sint ascendentes aut descendentes usque ad tertium gradum, accipiant hi secundum ordines et gradus, si vero non sint huiusmodi aliqui, fisco applicari haec iubemus.

1. Adulteram vero mulierem competentibus vulneribus subactam in monasterio mitti. Et si quidem intra biennium recipere eam vir suus voluerit, potestatem ei damus hoc facere et copulari ei, nullum periculum ex hoc metuens, nullatenus propter ea quae in medio tempore facta sunt nuptias laedi. Si vero praedictum tempus transient, aut vir prius quam recipiat mulierem moriatur, tondi eam et monachicum habitum accipere, et habitare in ipso monasterio in omni propriae vitae tempore.

2. Et si quidem habeat descendentes, duas partes accipere eos substantiae secundum legum divisas ordinem, reliquam vero tertiam partem monasterio in quo mittitur dari. Si vero descendentes non fuerint, sed ascendentes inveniantur non consentientes huiusmodi inquitati, quattuor uncias eos secundum leges divisas accipere, octo vero uncias dari monasterio in quo includitur huiusmodi mulier. Si vero neque descendentes neque ascendentes habeat, aut ascendentes consenserint huiusmodi iniquitati, omnem eius substantiam accipere monasterium illi conservandam, ut per omnes casus viro pacta dotalibus illata instrumentis serventur.

[li] Per chi volesse consultare la versione greca (CXLI [141], corrispondente alla suddetta 117), può reperirla al seguente link: C.E. Zachariae von Ligenthal, 1831. Imperator Iustiniani PP.A. Novellae quae vocantur, Parte II, pag. 214 del volume (pag. 211 del PDF). Lipsiae: Teubner. https://archive.org/details/impiustinianipp01linggoog/page/n3/mode/2up?view=theater. Per lo studio delle Novellae, si può segnalare anche uno scritto del Maestro Fausto Goria, liberamente consultabile al seguente link; F. Goria, 2007. Le raccolte delle Novelle giustinianee e la collezione greca delle 168 Novelle. Diritto @ Storia, 6: https://www.dirittoestoria.it/6/Memorie/Scienza_giuridica/Goria-Novelle-giustinianee-collezione-greca-168-.Novelle.htm#_2._%E2%80%93_La_Collezione_delle_168_Novell

[lii] Vd. Morello, cit. pag. 638, nota 61.

[liii] Vd. Volterra, cit. pag. 658.

[liv] Vd. Morello, cit., pag. 639.

[lv] Per una sintesi più accessibile rispetto a Morello, vd. https://www.treccani.it/enciclopedia/divorzio_%28Enciclopedia-Italiana%29/. Per consultare il testo della Novella gratuitamente, vd. https://droitromain.univ-grenoble-alpes.fr/Corpus/Nov117.htm. Novella 117. Novella 117. CAPUT VIII. Quia vero plurimas in veteribus et nostris invenimus legibus causas ex quibus facile nuptiarum solutiones fiunt, ea causa perspeximus ex his abscidere aliquas, quae nobis indignae ad solvendas nuptias visae sunt, et eas solum nominatim praesenti inserere legi, pro quibus rationabiliter potest sive vir sive mulier repudium mittere. Nunc autem causas ex quibus maritus repudium sine periculo mittere potest et dotem uxoris lucrari (servato in ea dominio ex eodem matrimonio filiis, aut filiis non extantibus frui etiam proprietate) has esse disponimus:

1. Si contra imperium cogitantibus aliquibus conscia est mulier aut etiam suo viro non iudicet. Si autem vir hoc a muliere denuntiatum tacuerit, liceat mulieri: per quamcumque personam hoc declarare imperio, ut vir nullam ex hac causa repudii inveniat occasionem.

2. Si de adulterio maritus putaverit posse suam uxorem convinci, oportet, virum prius inscribere mulierem aut etiam adulterum, et si huiusmodi accusatio verax ostenditur, tunc repudio misso habere virum super ante nuptias donationem etiam dotem, et ad haec, si filios non habet, tantum accipere ex alia uxoris substantia quantum dotis tertia pars esse cognoscitur, ut eius proprietati et dos et a nobis definita poena applicetur. Si enim filios habuerit ex eodem matrimonio, iubemus et dotem secundum de hoc leges aliamque mulieris substantiam filiis conservari, et ita adulterum legitime convictum una cum uxore puniri. Et si quidem habeat uxorem adulter, accipere eam et dotem propriam et propter nuptias donationem, ut si filios habent, solo usu mulier fruatur donationis proprietate secundum leges filiis servanda; aliam vero mariti substantiam eius filiis ex nostra largitate donamus. Filiis autem non existentibus antenuptialis quidem donationis proprietatem mulieri competere sancimus, aliam vero mariti omnem substantiam fisco secundum antiquas applicamus leges.

3. Si quolibet modo mulier vitae viri fuerit insidiata, aut aliis hoc facientibus conscia viro non indicaverit.

4. Si cum viris nolente marito extraneis convivit aut cum eis lavatur.

5. Si nolente viro foris domum manserit, nisi forsan apud proprios parentes.

6. Si circensibus aut theatris aut amphitheatris interfuerit ad spectandum ignorante aut prohibente viro.

7. Si ergo contigerit aliquem citra unam praedictarum causarum suam uxorem domo propria expellere, ut illa non habens parentes apud quos possit manere ex necessitate foris habitet nocte, iubemus nullam esse marito licentiam propter hanc causam repudium mittere uxori, eo quod ipse huius rei auctor exsistit.

CAPUT IX.

Causas autem pro quibus rationabiliter potest viro a muliere mitti repudium <et> ex quibus potest et dotem accipere et propter nuptias donationem exigere (similiter filiis servanda donationis proprietate, aut filiis non extantibus habere etiam huius dominium) has esse solas disponimus:

1. Si contra imperium aut ipse cogitaverit aliquid aut cogitantibus conscius non indicaverit imperio aut per se aut per quamcumque personam.

2. Si quolibet modo vir insidiatus fuerit vitae mulieris, aut aliis hoc volentibus sciens non manifestaverit uxori et studuerit secundum leges ulcisci.

3. Si maritus uxoris castitati insidiatus aliis eam adulterandam temptaverit tradere.

4. Si vir de adulterio inscripserit uxorem et adulterium non probaverit, licere mulieri volenti etiam pro hac causa repudium destinare viro, et recipere quidem propriam dotem, lucrari autem et antenuptialem donationem, et pro huiusmodi calumnia, si filios non habuerit ex eodem matrimonio, tantum secundum proprietatem accipere mulierem ex alia viri substantia quantum antenuptialis donationis tertia pars esse cognoscitur. Si autem filios habuerit, iubemus omnem viri substantiam filiis conservari, firmis manentibus quae de antenuptiali donatione aliis legibus continentur, ita tamen ut etiam propter illatam adulterii accusationem et non probatam illis quoque maritus subdatur suppliciis, quae esset passu mulier, si huiusmodi fuisset accusatio comprobata.

5. Si quis in sua domo, in qua cum sua coniuge commanet, contemnens eam cum aliis inveniatur in ea domo manens, aut in eadem civitate degtens in alia domo cum alia muliere frequenter manere convincitur, et semel et secundo culpatus aut per suos parentes aut per mulieris aut per alias aliquas fide dignas personas huiusmodi luxuria non abstinuerit, licere mulieri pro hac causa solvere matrimonium, et recipere datam dotem et antenuptialen donationem, et pro tali iniuria tertiam partem aestimationis quam antenuptialis facit donatio ex eius substantia percipere, ita tamen ut, si filios habuerit, usu solo mulier potiatur rerum quas ex antenuptiali donatione et poena tertiae portionis mariti substantiae acceperit, dominio communibus filiis conservando. Si autem filios non habuerit ex eodem matrimonio, habere eam talium rerum etiam proprietatem praecipimus.

[lvi] Vd. Morello, cit., pag. 639-641.

[lvii] Morello, pag. 639.

[lviii] Vd. Morello, cit. pag. 160.

[lix] Procopio, Storie Segrete, a cura di F. Conca, versione italiana di P. Cesaretto, pp. 220-229. Milano: BUR Rizzoli.

[lx] Vd. Conca, cit., pag. 227.

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