Con questo episodio, iniziamo a narrare la storia del sesto secolo, che sarà diverso dal quinto: non abbiamo più un grande organismo imperiale da seguire, l’occidente si è frammentato in vari stati successori all’Impero Romano. L’Impero stesso sopravvive in oriente ed è destinato a giocare un ruolo crescente, non declinante, nella storia italiana, ma lo farà in modo molto diverso dal passato. Diventa sempre più difficile parlare di ogni parte dell’ex impero dedicandogli la giusta attenzione.
Nonostante questo però oggi, prima di tornare in Italia, faremo un giro in Gallia e nell’Impero dei Romani, per vedere cosa è accaduto in questi posti durante la guerra tra Teodorico e Odoacre e negli anni immediatamente successivi.
Poi voleremo a Ravenna, nel palazzo del nuovo Re d’Italia, Teodorico. Questi avrà una bella gatta da pelare: sistemare i suoi Goti in Italia senza allarmare i nuovi sudditi italiani. Teodorico dovrà inoltre negoziare con l’imperatore dei Romani per avere la sua indispensabile benedizione. Da Costantinopoli torneranno infine i suoi ambasciatori, con la risposta dell’Imperatore Anastasio e un regalo, il più prezioso di tutti.
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L’ascesa di Clovis
“Una grande nuova è giunta alle nostre orecchie” scrive il vescovo Remi di Rheims, il metropolita del nord della Gallia “voi avete ereditato il governo della belgica seconda. A questo posto dominante vi ha portato il vostro merito e la vostra umiltà, dovrete ora vegliare affinché il signore non vi sottragga mai il suo favore”.
Questa celebre lettera del vescovo Remi non è indirizzata a Teodorico, o ad un altro Re cristiano, ma ad un Re pagano appena asceso al trono, la prima figura di cui dobbiamo parlare per comprendere i prossimi decenni. Si tratta del Re dei Franchi salii, Clodoveo per gli italiani, Clovis per i contemporanei e i francesi moderni. Un gigante della storia che avrà un’influenza enorme sui destini del continente.
Clovis ereditò il dominio sulla provincia della Belgica II da suo padre Childeric, alla sua morte nel 481, 12 anni prima dell’incoronazione di Teodorico a Re dei Goti e degli italiani. Childeric era stato il grande alleato e sostenitore di Siagrio, il plenipotenziario romano che dominava la Gallia settentrionale dalla sua capitale a Soissons, vicino Parigi. Assieme erano riusciti a resistere all’avanzata dei Visigoti, fermandoli sulla Loira. I Franchi fino ad ora avevano giocato un ruolo in teoria secondario nello smembramento dell’Impero d’occidente, rimanendo confinati nelle province loro assegnate da Ezio. Anzi, i Franchi per decenni furono un baluardo per l’occidente e non si accaparrarono terre aggiuntive prima della deposizione di Romolo Augustolo. Ora però a Ravenna dominava Odoacre e i Visigoti avevano ingoiato buona parte dell’antico impero: Clovis decise che era arrivato il momento dei Franchi. Il suo obiettivo non era più quello di collaborare con quello che rimaneva delle autorità romane in Gallia, ma di costruire per sé e i suoi un vasto regno in Gallia.

Nel 486 Clovis mosse l’exercitum francorum alla volta di Soissons e qui affrontò in battaglia Siagrio: l’ultimo ufficiale romano dell’occidente fu sconfitto e dovette fuggire presso i Visigoti. Clovis ottenne con la diplomazia e le minacce ad Alaric II di aver consegnato Siagrio, facendolo immediatamente giustiziare. Con lui moriva l’ultimo brandello di autorità romana in occidente.
Clovis decise di trasferire simbolicamente la sua corte a Soisson, recandosi frequentemente a Parigi. Qui viveva Geneviève, la donna che a detta di molti aveva protetto Parigi contro gli Unni a forza di preghiere: Geneviève spinse per la conversione del Re al cristianesimo ma il Re restò pagano, pur essendo mosso da questa ascetica, anziana signora. Pochi anni dopo, mentre Teodorico era ancora in lotta mortale contro Odoacre, Clovis inviò in sposa a Teodorico sua sorella e allo stesso tempo sposò la nipote di Gundobad, la vecchia volpe Re dei Burgundi che era stato un tempo il braccio destro di Ricimer. La principessa dei Burgundi si chiamava Clotilde ed era una donna formidabile, lei e Clovis formarono immediatamente una coppia di regnanti affiatata e complementare. Clotilde era di fede fermamente cattolica e si adoperò molto per la conversione del Re. La regina aveva la confidenza di Clovis e gli fece presente che l’unico modo per assicurarsi il favore di Dio e allo stesso tempo la fedeltà assoluta dei suoi nuovi soggetti romani era di convertirsi al cristianesimo, e non al cristianesimo dei barbari, quello ariano, ma a quello dei romani, ovvero la dottrina ortodossa calcedoniana. Insomma, per Clotilde la conversione era allo stesso tempo una buona politica per la salvezza eterna nella città di Dio e per il dominio su terra nella città degli uomini.
Mentre Clovis meditava a riguardo, nel 496, gli arrivò una richiesta di soccorso dall’altra grande tribù dei Franchi. Si trattava dei Franchi cosiddetti ripari, che vivevano nella zona di Colonia e Treviri: erano sotto attacco degli Alemanni. Clovis mobilizzò il suo esercito e passò all’attacco dei nostri vecchi amici, gli Alemanni, che vivevano nel basso corso del Reno. Clovis li sconfisse in una grande battaglia e aggiunse i franchi ripari al suo dominio, dominio che oramai comprendeva tutto il nord della Gallia e vasti territori al di là del Reno che non avevano mai fatto parte dell’Impero.
Non sappiamo se fu questa battaglia l’ultima goccia, l’ultimo peso sulla bilancia: sta di fatto che Clovis prese la monumentale decisione di convertirsi al cristianesimo. I Franchi erano rimasti più a lungo di tutti gli altri germani un popolo pagano: erano stati franchi, in gran parte, i soldati che avevano portato in trionfo Giuliano l’apostati e nei lunghi secoli trascorsi dalla sua morte non avevano mai rinunciato alla loro fede. Ora però era sorta l’alba di un nuovo mondo e i Franchi oramai dominavano su metà Gallia e su una moltitudine di sudditi romani e cattolici.
E fu così che Clovis viaggiò verso Rheims con migliaia dei suoi soldati e il fior fiore della nobiltà franca. Era il giorno di Natale, forse proprio di quell’anno 496, e nell’antica cattedrale della città Clovis si inginocchiò di fronte al vescovo Remi. Qui, in una solenne cerimonia, ricevette il battesimo assieme a tutti coloro che lo seguivano. Quando si rialzò, Clovis era l’unico vero sovrano di tutto il mondo romano ad essere di fede calcedoniana: gli altri Re erano ariani, in oriente l’imperatore era considerato un monofisita. Il Re dei Franchi, da oggi, sarebbe stato il difensore della fede cattolica, o almeno avrebbe utilizzato questo ruolo a suo vantaggio. Il Re dei Franchi si ergerà a protezione della chiesa, un ruolo che i suoi successori continueranno ad arrogare per sé stessi; e questo non per qualche anno, né per qualche decennio, né per secoli, ma per più di un millennio. A mio avviso si può arrivare fino al 1870, alla caduta di Napoleone II e alla seguente presa di Roma dal nuovo stato italiano. Si, il battesimo di Clovis ha una portata duratura e rivoluzionaria per la storia europea e non è un caso che Rheims divenne con il tempo la cattedrale dove i Re di Francia venivano incoronati, non Notre Dame a Parigi ma la chiesa costruita sul luogo dove si chinò Clovis per ricevere il battesimo, all’alba del regno dei Franchi.

La scelta di Ariadne
Prima di tornare a Teodorico, dobbiamo parlare di un’altra successione al trono, quella per il trono più importante di tutti, il trono dell’imperatore dei Romani.
Come ho accennato, nel 491 era morto Zenone, forse anche con una spintarella di sua moglie Ariadne. Zenone non aveva lasciato eredi diretti, suo figlio Leone II era morto all’inizio del suo regno. La cosa interessante fu che praticamente tutta la classe dirigente di Nuova Roma riconobbe che era Ariadne a possedere la legittimità a governare: era lei che aveva passato la dignità imperiale a Zenone, in quanto figlia dell’imperatore Leone. Ora, in grazia del suo lungo ruolo di Augusta dell’Impero, era a lei che spettava di trovare un successore all’imperatore isaurico. Ovviamente questo non voleva dire che potesse regnare da sola, quel tempo non era ancora giunto, ma tutti fecero capire che se avesse scelto un nuovo marito quello sarebbe stato imperatore. Mentre Ariadne ponderava la sua scelta, nell’ippodromo di Costantinopoli il popolo della capitale si riunì gridando la sua richiesta all’imperatrice: dacci un imperatore Romano. La folla intendeva un vero romano, inteso in contrapposizione con Zenone, l’imperatore isaurico. Non ho il minimo dubbio che la folla fosse stata aizzata a questi canti dalle fazioni del circo, soprattutto i verdi e i blu, probabilmente foraggiati dalla stessa imperatrice.

Ariadne aveva infatti in teoria una scelta logica, ma che voleva evitare a tutti i costi: il fratello di Zenone, Longino, l’uomo che avrebbe voluto il suo defunto marito come successore. Ma Ariadne e Costantinopoli ne avevano avuto abbastanza degli isaurici e l’augusta decise di elevare al trono un sessantunenne membro della burocrazia imperiale, Anastasio Dicoro.
Anastasio era nato a Dyrrachium, la moderna Durazzo. Sua madre era una lontana discendente di Costanzo Gallo, il fratello di Giuliano l’apostata. Nelle sue vene scorreva quindi del sangue costantiniano. Anastasio per un po’ di tempo aveva contemplato una carriera nella chiesa, d’altronde era molto pio, ma le sue idee erano pericolosamente vicine a quelle dei monofisiti e la sua carriera era stata interrotta dal clero ortodosso della capitale. Si era però riciclato come impiegato a palazzo dove era diventato un confidente di Ariadne, forse perfino suo amante ancor prima della morte di Zenone.
Il problema di Anastasio, agli occhi di molti, erano però le sue simpatie monofisite e fu questa la ragione che spinse il patriarca di Costantinopoli Eufemio a chiedere una dichiarazione di ortodossia calcedoniana da parte dell’imperatore. Risolto questo problema, Anastasio fu presentato alla folla di Costantinopoli: il populus lo acclamò e il nostro Anastasio poté iniziare il suo regno che, data l’età, probabilmente molti pensarono che sarebbe stato piuttosto breve. Sarebbe invece durato ventisette lunghi anni, lui e Teodorico formeranno una sorta di coppia imperiale a coronamento di un’epoca che i posteri considereranno una sorta di età dell’oro.
Liberio, il grande allocatore
Ma torniamo a Theodericus Rex, nel suo palazzo di Ravenna, Re di un paese devastato dalla guerra e diviso in due parti: da un lato l’esercito dei Goti e dall’altro il vasto numero di soggetti romano-italiani, timorosi del futuro. Teodorico aveva iniziato con un passo falso, privando dei beni e dei diritti civili i Romani che avevano sostenuto fino all’ultimo Odoacre. Il vescovo di Pavia, Epifanio, lo riportò all’ordine con una lettera che ci è giunta, e che perorava la causa dei concittadini liguri: “pensa a quali uomini sei succeduto nel tuo regno: la loro malvagità ne ha causato la rovina. La rovina di chi viene prima di noi ha sempre da insegnare ai loro successori. La tua Liguria, o principe, si affida alla tua guida, affinché tu possa concedere i benefici della tua legge agli innocenti e il perdono ai colpevoli. Perdonare i peccati è divino, vendicarli è da uomini terreni”. Teodorico mantenne una certa fermezza nella risposta ad Epifanio, rivendicando l’autorità dello stato, ma in sostanza non applicò il suo decreto contro i sostenitori romani di Odoacre. Non solo, Eufemio fu inviato dal Re dei Burgundi Gundobad per riscattare migliaia di romani presi prigionieri durante la guerra: Eufemio tornò con i cittadini e la promessa di matrimonio tra il figlio di Gundobad e quello di Teodorico. Il Re dei Goti e degli Italiani aveva iniziato la sua offensiva diplomatica per poggiare il suo regno su basi solide, ingraziandosi i leader locali e i suoi più importanti vicini. La questione più spinosa era però un’altra: come trovare una casa agli Ostrogoti senza inimicarsi i locali.
Era evidente che se l’Italia doveva essere difesa da attacchi e invasioni sarebbe stato l’esercito dei Goti a difenderla, ma questo esercito non era più un esercito professionista romano, abituato ad essere pagato per i propri servigi. Gli Ostrogoti non erano solo un esercito, erano anche un popolo, e volevano in cambio dei loro servigi militari la possibilità di vivere indipendentemente, da popolo foederato. Sicuramente alcuni o molti tra di loro si ritenevano i nuovi padroni della penisola: è evidente che questo sentimento non era condiviso dal Re, Goti e italiani erano in un condominio, non uno alle dipendenze dell’altro, ma se Teodorico non li avesse accontentati i suoi nobili avrebbero fomentato una rivolta da parte delle spade che gli avevano conquistato il regno. D’altra parte se li avesse accontentati in ogni desiderio avrebbe alienato l’opinione pubblica degli autoctoni, quella classe senatoriale che aveva nelle mani le chiavi per amministrare l’Italia. Era infatti la classe dirigente senatoriale dei grandi proprietari terrieri della penisola quella che sarebbe stata la più danneggiata da una ridistribuzione delle terre. Teodorico dipendeva dai Senatori per la legittimità a governare ma non solo: erano i Romani che pagavano le tasse, erano i Romani che gestivano l’ancora florida economia italiana, erano i Romani che sapevano far funzionare la meravigliosa macchina burocratica dello stato romano. Proprio quella macchina fatta di civitas, province, diocesi, prefetture, ufficiali statali che ho descritto nell’episodio dedicato a Odoacre, l’episodio 46. Se non ricordate qualche dettaglio riascoltatelo per ricordarvi chi è chi, le stesse cariche rimangono valide anche per il regno di Teodorico, a sottolineare la continuità che c’è tra l’impero del quinto secolo, il dominato di Odoacre e il regno di Teodorico.
Insomma, se il nuovo Re avesse alienato immediatamente la classe senatoriale, questa avrebbe trovato il modo di vendicarsi, magari inceppando i meccanismi statali, magari boicottando il nuovo regno, magari spingendo Nuova Roma ad intervenire, il caso peggiore di tutti.
Il primo capolavoro politico di Teodorico fu quindi quello di navigare questa situazione in cui non ci potevano essere vincitori e vinti: Teodorico sapeva che gli Ostrogoti andavano sistemati sulle terre degli italiani, utilizzando il sistema della hospitalitas che ho più volte descritto e che prevedeva l’assegnazione di lotti di terreno esentasse ai foederati attraverso l’allocazione di un terzo delle proprietà dei locali. C’era una certa logica in questo meccanismo: i foederati, a differenza dei soldati romani, non andavano pagati, vivendo dei frutti della terra che era loro assegnata. Questi “terzi” assegnati agli Ostrogoti avrebbero avuto il privilegio di non pagare le tasse, in cambio gli occupanti si impegnavano a rimanere militarizzati e non trasformarsi in oziosi proprietari terrieri: il servigio nei confronti dello stato, da parte degli Ostrogoti, rimaneva quello della difesa in armi della nazione italiana.
Per effettuare la delicata operazione della distribuzione delle terre, Teodorico non scelse però sé stesso, o uno dei suoi: no, la commissione a cui fu affidato l’insediamento dei Goti nella penisola fu presieduta da un senatore italiano, e non un senatore qualsiasi ma un uomo che attraverserà la storia dei prossimi decenni, sotto Teodorico, i suoi successori e anche l’impero di Giustiniano. Pietro Marcellino Felice Liberio, Liberio per gli amici, aveva sostenuto Odoacre fino all’ultimo e si era guadagnata la fama di un uomo retto, giusto ed integerrimo. Teodorico nominò Liberio a Prefetto del Pretorio dell’Italia e gli affidò l’arduo compito di trovare una sistemazione agli Ostrogoti. Era una sorta di mission impossible, ma per Teodorico si trattava di un tipico win-win: se Liberio fosse riuscito nell’impresa, tanto meglio, altrimenti Teodorico avrebbe avuto un utile capro espiatorio da sacrificare.
Liberio, a detta di tutti i contemporanei, riuscì nella sua missione impossibile, nello stupore generale. Furono assegnate ai Goti, per quanto possibile, le terre dei sostenitori di Odoacre ora morti, molti membri dell’antico esercito d’Italia. Quando questo non fu possibile, furono utilizzate le terre pubbliche. In forma residuale, si passò anche ad assegnare terre prese dai latifondi privati: gli espropri ci furono, ma Liberio cercò di attutire il colpo per quanto possibile e anche distribuirlo in modo equilibrato tra i vari proprietari terrieri, senza grandi e apparenti favoritismi.
Come detto, i Goti avevano diritto ad un terzo delle terre dove sarebbero stati stanziati. Gli Ostrogoti non ricevettero però un terzo di tutte le terre d’Italia, come ho spesso trovato pedissequamente riportato nei libri di storia. I Goti ricevettero un terzo delle proprietà identificate dalla commissione di Liberio per l’esproprio, o nel caso di “nobili” gotici, la metà. Va detto che alcuni storici – Goffart, Durliat, Wolfram stesso – sostengono che i Goti non ricevettero terre, ma solamente un terzo della rendita di queste terre. Più analizzo però i documenti del periodo più mi convinco che ci fu un vero trasferimento di proprietà della terra, visto che ci sono anche documenti notarili sopravvissuti che sono consistenti con la distribuzione delle terre, non delle rendite.
L’Italia dei Goti
Ma dove furono sistemati gli Ostrogoti? In generale le testimonianze archeologiche puntano verso regioni dell’Italia centro-settentrionale, qualcosa di coerente con la difesa dell’Italia, le cui minacce principali venivano da nord e da est. I Goti erano certamente presenti in tre aree principali: la prima era la Liguria tardo-imperiale, ovvero la regione intorno a Pavia, la capitale militare dell’Italia, oltre che varie località dell’arco alpino e del Piemonte, tra le quali Tortona, una città dove Teodorico fece costruire un’importante fortezza. La seconda zona era quella intorno ad un’altra città che sarà molto amata da Teodorico: ovvero Verona. I Goti erano stabiliti in tutta la Venetia, con insediamenti sparsi verso il moderno Friuli e il Trentino: a Trento, a guardia della valle dell’Adige, Teodorico fece costruire un’altra fortezza su una collina che domina la città, il Doss Trento. Infine la terza area era la costa adriatica, a partire da Ravenna e giù fino alle moderne Marche e Abruzzo settentrionale. Non a caso le tre capitali di Teodorico, le città con un palazzo reale, saranno Pavia, Verona e Ravenna.

Marco Aimone, in un ottimo saggio sui recenti scavi nel nordovest italiano, ha trovato nuove risposte a vecchie domande: erano gli insediamenti gotici di natura principalmente militare o si trattava di veri villaggi agricoli, erano poi i Goti insediati in modo separato dagli italiani o stretto contatto con i locali? Sono domande importanti, perché servono a rispondere ad un quesito a monte: erano i Goti che vennero in Italia principalmente un esercito in armi, senza le famiglie al seguito, o si trattava di un popolo?
I recenti scavi hanno trovato una serie di situazioni diverse, molto variegate. In generale in Italia sembrano esserci stati alcuni insediamenti di natura prettamente militare, utili alla difesa della penisola, spesso con la presenza di persone di chiara estrazione nobile gotica. Eppure nella maggior parte dei casi i Goti erano sistemati in villaggi a scopo agricolo, spesso fianco a fianco con i loro vicini romani. In alcuni casi andarono ad occupare tenute agricole che erano state chiaramente abbandonate, forse durante le lunghe guerre della seconda metà del quinto secolo. L’obiettivo di Teodorico e Liberio, in questo caso, sembra essere stato quello di riportare a coltivazione aree sotto sfruttate o abbandonate, questo a vantaggio dell’economia italiana.
Quindi possiamo dedurne che a venire in Italia fu davvero un intero popolo, probabilmente compreso tra 100 e 200 mila persone, mentre la popolazione della penisola è stimata tra i sei e gli otto milioni di abitanti. Questi Goti erano ovviamente molto diversi tra loro, divisi in tre classi: i nobili, gli uomini liberi e un sottostrato di schiavi. I nobili ricevettero le terre migliori, i liberi in generale furono sistemati in piccoli villaggi autosufficienti, o a stretto contatto con i locali, gli schiavi finirono probabilmente per aggiungersi alla manodopera servile della penisola, già molto numerosa, finendo per lavorare la terra per conto della nobiltà gotica.
Romani e Goti
L’anonimo valesiano riporta questo giudizio sul regno di Teodorico: “Governò due popoli contemporaneamente, Romani e Goti, e sebbene egli stesso appartenesse alla setta Ariana, non fece tuttavia alcun assalto alla religione cattolica”.

Forse la caratteristica più conosciuta del regno di Teodorico è la sua natura duale, con gli ariani Goti impegnati nella difesa del regno e gli ortodossi Romani nella gestione dell’amministrazione civile. È una visione nel complesso corretta, ma proveremo anche a moderarla con le scoperte più recenti.
La prima differenza tra Romani e Goti era ovviamente la fede: i Goti continuarono in grandissima parte a seguire la loro fede ariana. Teodorico però rispettò in modo assoluto i diritti del clero ortodosso, non solo evitando persecuzioni nello stile dei vandali ma attivamente incentivando la costruzione e il restauro delle chiese romane. Allo stesso tempo però Teodorico pretese dal clero romano la tolleranza nei confronti degli ariani: nelle principali città dove erano stanziati i Goti, Teodorico fece costruire delle chiese per la fede ariana. Gli unici esempi rimasti sono a Ravenna: qui abbiamo il battistero degli ariani e la chiesa di S. Apollinare nuovo.
Romani e Goti erano divisi anche dalla professione: i Goti stanziati nella penisola avevano l’obbligo del servizio militare e rispondevano territorialmente ad un Comes, come d’altronde aveva fatto anche l’esercito romano. Tendenzialmente c’era un Comes, detto Comes gothorum, per ogni provincia e città principale, con il compito di coordinare la difesa, mentre gli affari civili erano gestiti dalla burocrazia romana. Questa non era un’innovazione di Teodorico ma corrispondeva alla divisione dei compiti voluta già da Diocleziano, l’unica differenza era che all’esercito d’Italia si era sostituito l’esercito dei foederati ostrogoti. Una sorpresa è stata per me imbattermi però in anche soldati e comandanti romani. Questi erano in larga parte confinati agli antichi limitanei, le truppe di confine concentrate sull’arco alpino: questi soldati rispondevano a dei Dux romani ma erano di qualità inferiore rispetto all’esercito mobile d’Italia, l’exercitum gothorum. Questi limitanei erano stanziati a guardia del Norico, della Raetia e dei valici alpini nel moderno Tirolo. Altre ai Comes “tradizionali”, Teodorico utilizzava una sorta di Comes straordinari, i suoi “pompieri” da inviare con una missione speciale in un’area che necessitava attenzione: si trattava dei “Saiones”, gli uomini del Re. Non avevano titoli speciali, non avevano un potere costituzionale ma ovunque venivano inviati prendevano il comando degli affari locali, la nobiltà gotica e i cittadini romani erano informalmente tenuti ad ubbidirgli.
I Goti delle tre aree di insediamento principali si riunivano ogni anno nelle città di riferimento, vale a dire Pavia, Verona e Ravenna. Qui incontravano il Re e ricevevano donativi e pagamenti straordinari, abitudine questa che probabilmente Teodorico derivò da Costantinopoli, dove si faceva lo stesso, in occasione della Pasqua. Teodorico era il comandante supremo dell’esercito ma sin dalla sua ascesa al trono d’Italia non si mise più alla testa degli eserciti del suo regno, limitandosi a nominare dei Dux plenipotenziari per le campagne principali, imitando anche in questo gli imperatori di Nuova Roma. A Costantinopoli questa era oramai la tradizione: sin dai tempi di Arcadio, gli imperatori rimanevano nella capitale e inviavano i loro sottoposti a fare la guerra, non fosse altro per evitare un disastro come quello di Adrianopoli. Era un modo, inoltre, per elevare ancora la dignità imperiale, che non si abbassava a guerreggiare con altri re. Per tutto il suo regno, Teodorico seguì questo modello che aveva appreso a Costantinopoli: una bella differenza rispetto alla sua gioventù guerriera, quasi a simboleggiare il nuovo rango e la nuova dignità di Re d’Italia, così diversa rispetto a quella di quando era solo il Re degli Ostrogoti, quando aveva comandato il suo popolo in una serie di guerre in giro per i Balcani.
La burocrazia del Regno
Questa l’organizzazione dell’esercito, quanto alle massime cariche dell’amministrazione civile e burocratica, queste rimasero in generale di prerogativa della classe senatoriale romana, come era d’altronde il caso da decenni. Come abbiamo visto, le cariche della burocrazia erano quelle che definivano il rango senatoriale, anche qui nulla cambiò rispetto agli ultimi decenni dell’impero, che avevano sempre visto l’esercito dominato dai germani e l’amministrazione dominata dai Romani. C’erano però anche qui delle eccezioni: Il conte al patrimonio personale, il comes rerum privatarum, poteva infatti essere un goto. Le massime cariche civili e militari, assieme, formavano il “comitatus”, ovvero il consiglio del Re. Questo organo sopravanzò sotto Teodorico l’antico concistorio. Il comitatus prendeva le decisioni più importanti del regno e de facto deteneva anche il potere sulle faccende ecclesiastiche dell’Italia, nominando i vescovi della penisola, nella generale ed impotente insoddisfazione del papato. Come vedremo, il Re e il comitatus saranno anche chiamati a dirimere questioni religiose della chiesa romana, non una novità nella tradizione imperiale ma decisamente interessante quando si considera che Teodorico era ariano e che la vulgata vuole che il papato avesse acquisito una ruolo preminente con la cosiddetta caduta dell’Impero Romano: di questa preminenza nessuno aveva ancora avvertito il governo di Ravenna, sempre saldamente al comando delle faccende italiane.

Per quanto riguarda i tribunali e le leggi a cui erano sottoposte le due nazioni che condividevano l’Italia, il dibattito è aperto: la tesi originale era che i Goti continuarono a vivere secondo le loro leggi di tradizione germanica, mentre ovviamente i romani seguivano il codice teodosiano e la giurisprudenza romana. L’unica volta in cui entrambi erano equiparati era in caso di una controversia che contrapponesse un goto ad un romano, nel qual caso un comes gotico poteva giudicare la controversia, ma solo con l’aiuto di giureconsulti romani, mi pare evidente che in questo caso si applicasse la legge romana. Lo storico Arnold, di converso, nega che ci fosse alcuna distinzione legale, sostenendo che la rilettura delle fonti dimostra come in realtà non sia chiaramente attestata una legge gotica e che entrambi i popoli vivevano sotto la legge romana. Non è questo però il parere della maggior parte degli storici.
Riassumendo, Romani e Goti vivevano dunque a stretto contatto ma la mattina erano impiegati in attività diverse, il pomeriggio erano giudicati da giudici della loro gente e andavano a messa la domenica in chiese diverse. Non proprio il simbolo di una vita comune e in armonia.
Tutta questa descrizione può dare l’impressione di un regno fatto da due separati in casa. C’è sicuramente del vero, ma più si scava più si trovano eccezioni alla regola: abbiamo esempi di Romani che fecero carriera nell’esercito e che insegnarono il modo di combattere dei Goti ai loro figli, un esempio è il senatore Cipriano. Di converso il nipote di Teodorico – Teodato – si rintanerà nelle biblioteche, studiando filosofia, questo almeno prima di essere fatto Re lui stesso. Lo storico Procopio, il vescovo Ennodio e l’amministratore Cassiodoro ci hanno tutti lasciato un’immagine di un regno duale, eppure un breve passaggio dell’anonimo valesiano sembra dare maggior corpo alle eccezioni fin qui rilevate: uno dei detti famosi di Teodorico era che “Il povero romano imita il goto, Il ricco goto imita il romano”, per i poveri romani una vita da Goto, ovvero nella casta militare della penisola, iniziò ad essere sempre più attraente. Mentre i nobili gotici presero l’abitudine di investire i loro fondi acquistando maggiori proprietà o sposando ricche nobildonne romane, con l’obiettivo di trasformarsi in grandi proprietari terrieri, proprio come i senatori romani.
Romeo e Giulietta
Ma non ho trovato forse miglior esempio della progressiva simbiosi che andò comunque formandosi tra romani e goti della storia del tesoro di Desana. A Desana, in Piemonte, è stata scavata una villa tardo antica dove in precedenza fu rinvenuto un piccolo tesoro, nascosto forse in tutta fretta allo scoppio della guerra greco-gotica. Il tesoro include diversi pezzi ma il più interessante è un anello nuziale: porta il nome del padrone Stefanius e della padrona Valatrud, l’uno chiaramente un discendente romano dei padroni ancestrali della villa, l’altra la sua sposa gotica, certamente di altissimo lignaggio visto che nella villa è stato trovato quello che doveva essere il suo corredo, nel tipico stile orafo del mondo danubiano che andava di moda tra le nobildonne gotiche. Mi immagino il loro matrimonio, nello splendore di entrambi i popoli, quasi il simbolo della nuova Italia.

Certo, un esempio è solo un esempio, ma un tempo si credeva che questi rapporti fossero impossibili e ora abbiamo la certezza che invece ci furono, e appunto al massimo livello della società. I romani e i goti non arrivarono mai a fondersi in una sola nazione, ma il loro rapporto divenne sempre più simbiotico, come due organi dello stesso corpo. Forse Stefano e Valatrud erano gli araldi di un mondo a venire, di un’Italia non più fatta di due separati in casa ma di un’Italia unita, senza distinzioni tra romani e germani, proprio come il regno che costruiranno Clovis e i suoi discendenti in Gallia. Il matrimonio tra le armi gotiche e la civiltà romana sarà però interrotto della guerra che tra qualche decennio porterà via con il vento il mondo di Stefanius e Valatrud, tra il fragore delle armi e lo scorrere del sangue.

Ravenna, Roma e Costantinopoli
Come menzionato nell’episodio “il ritorno del Re”, la prima ambasciata di Teodorico a Costantinopoli arrivò già nel 491, a guerra non ancora conclusa, per chiedere al nuovo imperatore Anastasio il riconoscimento di Teodorico come legittimo sovrano dell’Italia.
Anastasio aveva mantenuto aperte le sue opzioni, ma si era rifiutato di riconoscere Teodorico: questo mise Teodorico in una posizione molto precaria, la stessa in cui si era ritrovato in precedenza Odoacre, ovvero quella dell’usurpatore, almeno agli occhi di Nuova Roma. Per sua fortuna, quando Teodorico si fece acclamare Re della penisola senza l’autorizzazione di Costantinopoli, Anastasio era occupato in oriente con la guerra contro gli isaurici. Infatti il fratello di Zenone, l’isaurico Longino, era stato un papabile candidato al trono e ora lui e la gerarchia militare isaurica si trovavano tagliati fuori dal potere. Nel 491 scoppiò una rivolta anti-isaurica nell’ippodromo di Costantinopoli e Anastasio ne approfittò per ordinare l’esilio per Longino e gli altri generali isaurici. L’Isauria era, come ricorderete, una montuosa regione dell’Anatolia popolata da un popolo testardo ed intrattabile. Anastasio inviò le sue truppe migliori per domare la rivolta e nonostante la sproporzione tra le due forze ci vollero cinque anni per sconfiggere i ribelli. Per tutto questo periodo Anastasio non fu quindi nelle condizioni di intervenire in Italia, ma questa non era una garanzia per Teodorico: prima o poi sapeva che l’impero sarebbe intervenuto, non potendo accettare l’usurpazione di un territorio, l’Italia, che considerava parte della Respublica romana.
Anastasio, già ai tempi della prima ambasciata, aveva però posto una condizione fondamentale a Teodorico e ai senatori inviati a Costantinopoli per assicurarsi il suo riconoscimento: risolvere lo scisma acaciano. Ricorderete che Zenone e il patriarca Acacio aveva emesso il famoso editto dell’Henotikon che ignorava in sostanza l’intera questione della natura di cristo, questo per ammorbidire la differenza con i monofisiti. L’Henotikon era stato confermato da Anastasio, lui stesso di simpatie monofisite, ma era visto come il diavolo dal clero occidentale, visto che superava il concilio di Calcedonia, il primo concilio in cui un Papa occidentale era riuscito ad affermare il suo volere su tutta la chiesa imperiale. In quel concilio Leone I aveva sconfitto i monofisiti, o almeno questo era il punto di vista del papato. Il prezzo di Anastasio per il riconoscimento era quindi semplice: il papato doveva piegarsi ad accettare l’Henotikon.
Teodorico era ariano e le controversie tra calcedoniani, monofisiti e la posizione intermedia imperiale dell’Henotikon in teoria non lo interessavano direttamente, ma il riconoscimento ufficiale dell’impero, bene: quello sì. Provò a convincere papa Gelasio, ma questi aveva notoriamente un caratteraccio e non si fece convincere. Anzi, Gelasio scrisse ad Anastasio una lettera diventata celebre, perché sarebbe il fondamento dello stesso concetto cardine della civiltà medievale occidentale, la separazione tra il potere civile e quello ecclesiastico.

“Augusto imperatore, ci sono due poteri che governano questo mondo, vale a dire l’autorità sacra dei sacerdoti e il potere temporale. Di questi quello dei sacerdoti è il più rilevante, dal momento che loro debbono tenere conto del giudizio divino nell’aldilà anche per i Re degli uomini. I sacerdoti riconoscono la supremazia che ti è stata concessa dal cielo in questioni che riguardano l’ordine pubblico e obbediscono alle tue leggi. Con la stessa prontezza tu dovresti seguire il loro consiglio per quanto riguarda i sacri misteri della religione”. La lettera di Gelasio sarà utilizzata tra secoli per giustificare il potere papale e la separazione dei poteri tra potenze temporali e il papato, ma Gelasio scrive ad Anastasio non per rivendicazioni di carattere politico. Al contrario, il vescovo vuole ricordare che la potestà regale ha il suo specifico ambito di esercizio, indiscusso e invalicabile da parte anche dei vescovi. Al contempo, però è invalicabile l’ambito di esercizio dell’auctoritas dei vescovi in materia di dottrina e di disciplina ecclesiastica. Gelasio, un Papa dimenticato, è insomma il primo araldo del futuro medievale della chiesa, anche se come vedremo la sua posizione non avrà in realtà seguito, per ora.
Infatti per fortuna di Teodorico, dell’imperatore Anastasio e delle prospettive di pace tra Roma e Ravenna, Gelasio morì nel 496 e il nuovo Papa Anastasio – sì anche lui Anastasio – si dimostrò più accomodante e disposto al negoziato con Costantinopoli.
La corona ferrea
Nel 497, dopo un’intensa attività diplomatica tra santa sede, Ravenna e Costantinopoli, una nuova ambasciata senatoriale fu inviata a Nuova Roma, comandata da Festus, il caput senatus. Qui fu raggiunto un accordo fondamentale per gli anni a venire: Festus promise che il Papa avrebbe accettato l’Henotikon, in cambio Anastasio riconobbe Teodorico come Re dei Goti e degli Italiani, riaffermando però l’unitarietà dell’Impero inclusa l’Italia, concedendo a Teodorico una limitata potestà legislativa e la possibilità di battere moneta, senza però la sua effige sulla monetazione aurea, riservata esclusivamente all’imperatore.

Anastasio fu convinto però ad andare oltre al semplice riconoscimento del nuovo Re. A Costantinopoli erano ancora custodite le insegne imperiali dell’occidente, in particolare il diadema imperiale. Su incitazione del senatore Festus, Anastasio consentì al loro ritorno in Italia, implicitamente riconoscendo il diritto di Teodorico a portarle. Da allora sappiamo che Teodorico vestì la porpora imperiale, unico sovrano occidentale ad averne il diritto, mentre non siamo certi che portasse anche il diadema, la corona imperiale dell’occidente, anche se è estremamente probabile. Infatti è evidente la somiglianza tra il diadema imperiale portato dagli imperatori e la corona ferrea del regno d’Italia: per chi non lo sapesse, la corona ferrea è custodita oggi nel duomo di Monza. Si tratta della corona che fu utilizzata per incoronare i vari Re d’Italia: siamo certi del suo utilizzo a partire dal IX secolo, fu utilizzata per ultimo da Napoleone. Le analisi al carbonio 14 datano alcuni pezzi della corona alla metà del quinto secolo, è possibile che fu proprio questa corona a tornare da Costantinopoli dopo essere stata portata dagli ultimi imperatori romani del quinto secolo.
Il rientro delle insegne imperiali fu un evento per gli italiani e un trionfo per Teodorico: da questo momento in poi le fonti iniziano chiaramente a considerarlo qualcosa di più di un Re, qualcosa di più simile agli antichi imperatori dell’occidente. Non è forse facile comprendere l’emozione che dovettero provare gli italiani all’arrivo a Ravenna dei simboli del loro impero: i simboli hanno un potere intrinseco e quando la corte di Teodorico vide il suo Re nella porpora imperiale, agli italiani dovette sembrare che il loro impero fosse rinato come un’araba fenice da ceneri ancora ardenti.
Nel prossimo episodio vedremo cosa farà Teodorico con la sua autorità: il Re darà impulso all’economia italiana, tesserà una rete diplomatica attraverso tutto il mondo mediterraneo e si troverà perfino a decidere quale Papa far sedere sul soglio di Pietro. Eppure la guerra minaccerà la nuova stabilità del mediterraneo e Teodorico dovrà navigare acque agitate per trovare un nuovo equilibrio per l’occidente.
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