Il V secolo che ho descritto tra gli episodi 22 e 49 è stato per tutti – credo – un’appassionante montagna russa, tra alti e bassi la storia è passato da un impero unito sotto Teodosio, in teoria altrettanto forte che cento anni prima, ad una situazione nel mediterraneo dove i Romani non sono più padroni del mare nostrum, dove l’Impero Romano sopravvive nelle sue forme originarie solamente in oriente, mentre l’occidente è dominato da Re barbari, tra Franchi, Visigoti, Vandali e Ostrogoti. A volte nella narrazione complessiva si può perdere di vista il quadro complessivo. In questo episodio guarderemo dunque indietro e cercheremo di capire cosa è accaduto, e perché, all’Impero dei Romani.
La prima volta che l’Impero (quasi) cadde
L’Impero Romano giunse già sull’orlo della sconfitta totale, come abbiamo appreso nell’episodio sul Claudio il Gotico, il primo illirico. Nel terzo secolo l’impero si divise in tre tronconi, i Goti saccheggiarono Atene e la Grecia, i Sassanidi invasero tutto il quadrante orientale dell’impero, la Gallia e Palmira si separarono dal cuore dell’Impero. Se le cose fossero continuate a peggiorare per qualche altro decennio, la fine dell’impero avrebbe dovuto essere nel terzo secolo.
I destini dello stato furono però raddrizzate da un cabala di imperatori provenienti dall’Illirico: da Claudio il Gotico a Diocleziano, passando per Aureliano, in pochi anni le risorse latenti dell’impero erano state mobilizzate con uno sforzo sovrumano: l’impero aveva requisito le tasse locali, aveva abbandonato l’economia monetaria per passare alla tassazione in natura, l’imperatore era diventato un despota assoluto, una burocrazia complessa era stata messa in piedi per gestire il titanico sforzo di tutto un impero per sopravvivere.
Non è questo l’unico caso di sopravvivenza insperata dell’Impero Romano: più avanti nella nostra storia l’Impero Romano d’oriente perderà due terzi dei suoi territori, la sua provincia più ricca e buona parte dei suoi introiti a causa delle conquiste degli Arabi. Il suo vicino persiano era tanto forte da sembrare capace di schiacciare Roma pochi anni prima, eppure verrà completamente sconfitto e assorbito dal califfato, a differenza di Nuova Roma. Per secoli gli Arabi razzieranno ogni anno i territori dei Romani, provando a conquistare Costantinopoli. Eppure i Romani sopravviveranno e poi, nel decimo secolo, avranno perfino un grande revival, riconquistando molti dei territori perduti. Non è facile uccidere lo stato romano.
La domanda quindi è, come mai questo scompare in occidente? Perché nel terzo e nel settimo secolo l’Impero sopravvive ma nel quinto una metà dell’impero viene risucchiata dai flutti della storia?
La storia della storia: la “caduta” attraverso i secoli
Le opinioni a riguardo sono ovviamente infinite, lo studio della caduta dell’Impero Romano essendo uno dei dibattiti più antichi della storiografia moderna, un dibattito che rimanda inevitabilmente alle paure di ogni uomo di ogni epoca, al timore che anche la sua, la nostra civiltà possa un giorno essere ingoiata dai flutti della storia, dalla marea montante dell’oblio.
La visione della decadenza di Roma vista come la fine della splendida età dell’oro del periodo classico e premessa di un’età oscura di barbarie è il prodotto dell’umanesimo italiano: è durante l’umanesimo che nasce il concetto di medio evo, il periodo che dividerebbe l’epoca d’oro antica dalla moderna rinascita della ragione. Prima dell’umanesimo era più probabile che gli intellettuali medioevali interpretassero gli avvenimenti in altri termini: l’avvento del cristianesimo nel quarto secolo era molto più importante della caduta dell’Impero d’occidente nel quinto. Per gli uomini del medioevo si era trattato di un trionfo del cristianesimo, non di una sconfitta della civiltà.
Nel Settecento, durante l’illuminismo, intellettuali come Voltaire e Montesquieu di converso misero in dubbio la bontà della svolta imperiale nella storia di Roma: la Repubblica gli sembrava il coronamento della civiltà romana, l’impero null’altro che una dispotica involuzione dello stato romano. Ovviamente era una tesi figlia della lotta contro l’assolutismo monarchico. Un’altra tendenza del diciottesimo secolo era l’anticlericalismo e fu il celebre storico inglese Gibbon a adottare la tesi che fosse stata la transizione al cristianesimo la principale causa della decadenza dell’impero. Anche Voltaire concordava, sostenne infatti che la chiesa aveva conquistato il cielo, ma perso l’impero. Gibbon arrivò a formulare da queste basi una tesi di notevole successo e di perdurante influenza. Cito “la decadenza di Roma fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza. il vigore del governo militare fu indebolito e alla fine abbattuto dalle istituzioni parziali di Costantino, e il mondo romano fu sommerso da un’ondata di barbari. Spesso la decadenza di Roma è stata attribuita al trasferimento della sede dell’Impero, tale pericolosa novità ridusse la forza e fomentò i vizi di un duplice regno. Sotto i regni successivi l’alleanza tra i due imperi fu ristabilita, ma l’aiuto dei Romani d’Oriente era tardivo, lento e inefficace. l’introduzione, o quanto meno l’abuso, del cristianesimo ebbe una certa influenza sulla decadenza e caduta dell’Impero Romano. Il clero predicava con successo la pazienza e la pusillanimità. Venivano scoraggiate le virtù attive della società, e gli ultimi resti di spirito militare finirono sepolti nel chiostro.”
Mentre le tesi di Gibbon sono largamente superate dal dibattito storiografico, come vedremo, credo vivano più forti che mai nell’immaginario popolare, rafforzato dai vari film peplum di Hollywood, prodotti da sceneggiatori che se avevano letto un libro di storia romana avevano letto Gibbon. Fu Gibbon a considerare quasi tutta la storia imperiale come una storia di decadenza, fu Gibbon a rendere popolare la data del 476 per la fine dell’impero, fu Gibbon a ritenere che l’intero tardo impero fosse una pila di uomini disprezzabili, intenti più a ragionare di religione che a salvare l’impero, fu Gibbon a consolidare l’immagine delle invasioni barbariche, un flusso costante di invasori che aveva sommerso un impero indebolito e fiaccato dal cristianesimo, da una burocrazia asfissiante, dalla decadenza dei costumi e della virilità.
Nel periodo romantico le tesi di Gibbon in larga parte non furono contestate, anche se gli scrittori romantici tedeschi diedero sempre più risalto al concetto di nazione, cercando di trovare nelle cosiddette invasioni barbariche un afflato nazionalistico germanico. Qualcuno pensò persino di ricercare nella battaglia di Teutoburgo un primo esempio di pangermanesimo.
Nella seconda metà dell’Ottocento si afferma il positivismo, una tendenza culturale secondo la quale la filosofia, abbandonando le astrattezze della metafisica, doveva limitarsi a organizzare i dati delle scienze sperimentali, tra le quali anche l’economia. È nel milieu culturale del positivismo che nasce il marxismo, Marx volendo basare la sua analisi della storia e dell’economia su quelle che riteneva basi scientifiche e razionali. Il positivismo e il marxismo ebbero una enorme influenza su generazioni di storici, anche moderni. In questo quadro fu rianalizzata la caduta dell’Impero Romano: si iniziò a porre meno l’accento sulle invasioni barbariche e molto di più sul declino economico dell’impero seguente alla crisi del terzo secolo, alcuni ci videro una sorta di proto-lotta di classe, come ad esempio abbiamo visto nel caso dei Bagaudi, gli endemici ribelli contro il sistema romano. Vennero di converso accantonate le considerazioni morali , come il declinante spirito combattivo dei romani o la decadenza dei costumi che tanto erano piaciuto a Gibbon.
Anche storici di stampo economista ma di opinioni più liberali ebbero tesi simili. Secondo gli economisti liberali l’impero era una sorta di paradiso del laissez faire. Per questi studiosi nel II secolo d.C. l’Impero Romano avrebbe sviluppato una complessa economia di mercato in cui il commercio era relativamente libero. Dopo il III secolo, tuttavia, la svalutazione portò all’inflazione, come ho narrato nell’episodio “il viaggio di una moneta”. L’inflazione costrinse all’editto dei prezzi di Diocleziano e ad un rigido controllo del libero mercato, cosa che avrebbe rovinato l’economia romana portandola sull’orlo del baratro.

Fino al ventesimo secolo però nessuno davvero contestò il fatto che l’impero fosse davvero caduto, dibattendo semplicemente come e perché. Il primo a contestare questa tesi fu il Belga Pirenne, che lavorò nei primi decenni del Novecento. Secondo Pirenne, lo stile di vita romano continuò ad essere seguito anche dopo la caduta dell’impero, così come il sistema economico “mediterraneo” continuò ad esistere secondo le linee impostate dai romani stessi. Del resto, i barbari giunsero a Roma non tanto per distruggerla, quanto per essere partecipi della sua ricchezza. In qualche modo, dunque, i barbari invasori tentarono di mantenere in vita gli aspetti essenziali della “romanità”. Secondo Pirenne, il vero punto di svolta è rappresentato dall’espansione araba del VII secolo nel Mediterraneo. L’avvento dell’Islam, infatti, ruppe i legami economici dell’Europa con il Nordafrica e il Medio Oriente: in tal modo l’Europa fu ridotta ad un’area ristagnante, esclusa dai commerci. Cominciò quindi un’epoca di impoverimento che, al momento dell’ascesa di Carlo Magno, aveva ormai fatto dell’Europa un’economia esclusivamente agraria e di sussistenza, del tutto estranea agli scambi commerciali su lunga distanza. Noterete che anche questa tesi, radicalmente diversa da quella di Gibbon, ha avuto molto successo tanto da formare in sostanza la base dell’interpretazione storiografica moderna della caduta dell’Impero Romano.
La nascita della “tarda antichità”
Dopo la Seconda guerra mondiale si andò affermando infatti la tesi, poggiata sullo studio di Pirenne, che non esisteva semplicemente l’antichità e il medioevo, ma c’era una ulteriore fase intermedia di transizione, quella che oggi chiamiamo tarda antichità.

Gli storici al solito non sono concordi nel definirne i confini, ma tendenzialmente si tratta del periodo che va dalla crisi del terzo secolo fino all’invasione degli arabi, posto che storici contemporanei hanno dato molta meno importanza all’avvento dell’islam come elemento di rottura, focalizzando di più l’attenzione sulle guerre di Giustiniano e sulla peste omonima, ma avremo modo di parlarne. Comunque sia, la tesi della continuità portata agli estremi arriva a negare la caduta dell’Impero Romano, ritenendola una trasformazione che senza rotture brusche portò ad una progressiva modifica della cultura romana. È questa la tesi, tra molti, del famoso storico Peter Brown e più recentemente di Averil Cameron ma anche del nostro Stefano Gasparri, per citare solo tre nomi.
Ma si sa, quando si va formando un consensus tra gli storici arriva qualcuno con nuove evidenze a contestarlo. Oggi, soprattutto grazie al lavoro di Peter Heather e Bryan Ward-Perkins, il dibattito è stato largamente riaperto. Ad esempio Heather ha sostenuto che in base alle recenti ricerche archeologiche si può ritenere che il quarto secolo fu un secolo di sostanziale ripresa dell’economia romana che avrebbe raggiunto il massimo storico di output proprio verso la fine del secolo. Heather in sostanza demolisce le tesi “economiche” della crisi imperiale. Questo non vuol dire che Heather sostenga che l’impero non crollò anche per ragioni di tenuta fiscale, ma questo fu dovuto non a cause di combustione interna, per intenderci, ma all’impatto dovuto alle invasioni barbariche, a loro volta scatenate dal movimento degli Unni nel quadrante europeo. Heather non ritiene che l’impero sia caduto solo per l’invasione dei germani, ad esempio la debolezza istituzionale dell’impero e l’assenza di un meccanismo chiaro di successione portarono a frequenti guerre civili che indebolirono l’impero, ma questi fattori da soli non avrebbero causato il crollo senza l’elemento esogeno delle invasioni barbariche. Heather non è il solo a sostenere queste tesi, riportando in auge la corrente che attribuisce a cause esterne la caduta dell’impero, rigettando la tesi della trasformazione. Heather e altri storici della sua scuola hanno rispolverato il 476 come una data di passaggio fondamentale nella storia romana. Le tesi di Heather sono ben lungi da essere universalmente accettate, anzi la maggior parte degli storici, ad occhio, sono nel campo di Peter Brown e della transizione “dolce” al medioevo.
Cosa non ha causato la caduta dell’Impero
E questo è quanto per quanto riguarda la storia della storiografia della caduta dell’Impero Romano. Ma mi sembra di sentirvi chiedere: quale è dunque la tua opinione? Perché a tuo avviso l’Impero Romano è caduto? Proverò a rispondere, nella consapevolezza che trovare una risposta è impossibile e che se non ci sono riuscite persone ben più titolate del sottoscritto è improbabile che ci riesca io. Ma non mi sottraggo, e vi darò l’opinione che mi sono fatta leggendo le varie tesi, posto che ovviamente non ho potuto leggerle tutte.
Nel 1984 lo storico Alexander Demandt scrisse un libro sulla caduta dell’Impero Romano che listava 210 ragioni per la sua caduta, dalle ragionevoli alle assurde. Solo questo dovrebbe darvi un’idea dell’impossibilità di riassumere la caduta dell’impero in una semplice ricetta.
Eppure mi pare che sia quello che fanno molti storici, sempre alla caccia di una ragione, e di una sola o principale, per la caduta dell’impero. Mi pare ovvio che un organismo della vastità e della complessità dell’Impero Romano non sia caduto per una sola ragione, forse neanche per un pugno di ragioni. Diversi elementi contribuirono al suo indebolimento. A mio avviso è necessario distinguere tra cause di fondo, ovvero fattori che innescarono la crisi, e fattori di accelerazione, ovvero fattori che da soli non avrebbero causato una crisi di tale portata ma che uniti ai fattori scatenanti contribuirono a peggiorare ed avvitare la crisi.
Marcia inesorabile verso l’abisso?
Credo inoltre che sia assurdo far risalire la caduta dell’Impero Romano all’inizio dell’impero, o considerare tutto il periodo tardoimperiale come un’unica marcia inesorabile verso l’abisso: questa era l’opinione di Gibbon, una tesi ampiamente superata dall’archeologia e dalla storiografia moderna. È oggi chiaro che il quarto secolo fu un secolo di crescita dell’economia agricola imperiale, molti dei fattori che erano stati considerati di debolezza sono stati rivalutati e scartati. Ad esempio è oramai chiaro che la tassazione tardo-imperiale non era affatto così pesante come voleva la vulgata, la tassazione rimase a livelli simili al passato ma il gettito fiscale fu accentrato e organizzato con maggiore dirigismo, certamente causando un trasferimento di ricchezza tra le città provinciali e le principali capitali dell’impero. Di per sé questo trend però non causò un indebolimento dell’economia, che rimase florida in occidente come in oriente, anche se ancor di più nella pars orientalis. La crisi dovuta all’inflazione galoppante del terzo secolo fu superata dal passaggio emergenziale alla tassazione in natura sotto Diocleziano, mentre poi Costantino ristabilirà la solidità della monetazione aurea grazie alla sua moneta, un solido di nome e di fatto. La ripresa dell’economia monetaria continuerà ancora, visto che nel 498 l’imperatore orientale Anastasio riuscirà a stabilizzare anche la monetazione d’argento e di bronzo, creando un sistema monetario e finanziario che manterrà la sua stabilità per secoli.
Molti continuano a sostenere l’interpretazione positivistica di una caduta dovuta principalmente a fattori interni e non esterni, fattori economici ed istituzionali: ci sono in questo campo certamente dei fattori che accelerarono la caduta dell’impero, ma non credo siano le cause di base della caduta. Non vedo nulla nell’economia del tardo impero che porti inevitabilmente alla dissoluzione dell’Occidente. Questo non vuol dire che non fu la crisi fiscale ed economica del quinto secolo la causa dell’indebolimento dell’impero occidentale, ma che questa crisi economica non fu innescata da ragioni interne, dalla oppressione dello stato o dalla svalutazione della moneta, ma dalle devastazioni che le province subirono periodicamente durante il quinto secolo. L’economia è quindi una ragione importante della caduta dell’impero, ma non si tratta della miccia.
Colpa dei Cristiani?
Altri, a partire sempre da Gibbon, hanno visto nella transizione al cristianesimo la principale ragione della caduta dell’occidente: i Romani sarebbero diventati imbelli, troppo impegnati a discutere di ragioni religiose da impegnarsi nella salvezza dell’impero, troppo preoccupati della città di Dio per arruolarsi negli eserciti della città degli uomini. Il cristianesimo avrebbe indebolito inoltre la cultura pagana e avrebbe anche causato ricorrenti persecuzioni dei pagani prima, degli ariani poi e infine dei monofisiti e dei nestoriani. Credo ci sia una base reale in queste considerazioni, ma se l’impero era reso imbelle dal cristianesimo come si spiega la sopravvivenza dell’impero d’oriente per mille anni, la parte ci tengo a sottolineare che più dell’occidente era stata cristianizzata già nel quarto secolo? Come spiegare la coraggiosa e determinata resistenza dell’oriente nei confronti dei Persiani prima e degli Arabi poi? Se il cristianesimo era un fattore di debolezza, come mai tra i due grandi imperi tardo antichi fu la Persia di Zoroastro a cadere mentre Roma riuscì a resistere, pur molto diminuita nei suoi possedimenti? Senza contare che l’impero cristiano di Costantino e dei suoi successori fu perfettamente capace di combattere persiani, goti e germani occidentali ogni volta che fu chiamato a farlo.
Il fatto è che sono convinto che se non ci fosse stata Adrianopoli e l’invasione del Reno del 406 non ci sarebbe stata alcuna crisi dell’Impero Romano nel quinto secolo dovuta alla sua nuova religione, l’impero avrebbe continuato la sua evoluzione verso uno stato dogmatico monoteistico che aveva già intrapreso da tempo, anche prima dell’avvento del cristianesimo. Certo, le controversie religiose debbono aver avuto un impatto sulla stabilità della burocrazia imperiale – quante persone capaci persero il loro posto di lavoro perché non allineate con la contemporanea versione del dogma imperiale? – e questo credo si meriti il posto di una delle concause minori della debolezza dell’impero, ma non è sufficiente a spiegarne la caduta, visto che lo stato romano fu capace di sopravvivere a ben peggiori tempeste.
Colpa della debolezza dell’esercito?
Questo ci porta dritti ad un altro grande classico delle ragioni della caduta dell’impero: l’indebolimento dell’esercito che nel tardo impero sarebbe diventato inefficace, pusillanime e soprattutto così zeppo di barbari da oramai evitare le battaglie contro altri barbari. In questo rimando all’episodio 15 e al complesso del podcast per dimostrare che l’esercito tardoimperiale non fosse affatto inferiore a quello alto imperiale, a quello delle legioni di Augusto e Marco Aurelio. Anzi, l’esercito legionario tradizionale fu sconfitto così duramente dai Persiani e dai Goti da richiederne una modifica strategica proprio per evolverlo nell’affrontare queste nuove minacce. In questo l’esercito tardoimperiale seguì nel solco della tradizione di adattamento e cambiamento che è l’unica vera costante dell’esercito romano in tutta la sua storia: le sconfitte contro i Sanniti portarono i romani ad adottare l’esercito manipolare repubblicano, le sconfitte contro i Cimbri e i Teutoni costrinsero i Romani a passare ad un esercito professionale e basato sulle coorti, le sconfitte inflitte dai Persiani e dai Goti nel terzo secolo portarono allo sviluppo della cavalleria e dell’artiglieria, oltre che ad una diversa organizzazione e specializzazione dell’esercito.
Un’altra costante dell’esercito romano di ogni epoca fu l’abitudine di inserire elementi non autoctoni nell’organizzazione militare: i film e i romanzi storici spesso lo dimenticano, ma almeno la metà della forza militare di Roma fu sempre affidata a non cittadini. Prima erano gli alleati italici, poi gli ausiliari provinciali, infine Germani, Arabi, Armeni e molti altri ancora. Già ai tempi di Cesare l’unità più d’élite dell’esercito era formata da un reparto di cavalleria di Germani, capace di combattere e vincere per Cesare i momenti cruciali delle battaglie di Alesia e Farsalo. I Germani arruolati nell’esercito furono sempre fedeli allo stato romano, combatterono con coraggio e determinazione. Erano Germani, in grandissima parte, i soldati che vinsero gli Alemanni a Strasburgo con Giuliano l’Apostata, erano Germani quelli che sconfissero i Goti nel quarto secolo sotto Costantino e Costanzo II. Furono in buona parte germani i soldati romani che combatterono le disperate battaglie per la sopravvivenza di Roma. Nessuno dovrebbe criticarne il coraggio o la fedeltà a Roma.
Altra cosa, completamente diversa, fu quando interi popoli iniziarono ad essere integrati nel sistema romano come popolo in armi, il primo famoso caso furono proprio i Goti che vinsero i Romani ad Adrianopoli. Spesso credo che si faccia una grande confusione tra i soldati romani di origine germanica e gli eserciti germanici foederati al comando del loro Re: questi ultimi è ovvio che avessero esigenze che a volte non si allineavano con quelle del governo imperiale. I continui alterchi tra Visigoti e Ravenna e poi recentemente tra Ostrogoti e Costantinopoli furono certamente degli elementi di caos che aggiunsero complessità a situazioni che erano di per sé già complesse, basti pensare a quanto danno finì per causare la dura negoziazione di Alaric con la corte di Ravenna nel 408-410.
Tutto questo per dire che secondo me non fu il declino dell’esercito romano a causare la crisi del quinto secolo, ma questa crisi fu esacerbata quando furono inclusi elementi esogeni nella fabbrica imperiale che lo stato non volle o non poté integrare come aveva fatto un tempo.
Colpa dell’immigrazione?
Molti traggono da questo evento quello che credo siano gli insegnamenti sbagliati: qualcuno guarda al disastro causato dall’immigrazione gotica e ritiene che in generale la fabbrica statale non debba mai accettare elementi esogeni al suo interno come erano i Barbari, altri tendono a sottovalutare quanto sia potenzialmente infiammabile l’immigrazione di grandi masse di persone in una complessa organizzazione statale. Se volete la mia, lo stato romano mi pare avesse bisogno ogni secolo dell’immissione di sangue nuovo, di nuove genti forse meno sofisticate e più combattive dei nativi, pronte a difendere in armi la grande macchina statale romana. Nel primo secolo avanti cristo erano stati integrati gli italiani che avevano finito per donare buona parte della loro classe dirigente a Roma, tra il primo e il terzo secolo dopo cristo erano stati a mano a mano i provinciali a sobbarcarsi il peso della difesa dell’impero, dal quarto erano stati integrati in numeri sempre maggiori i Germani. Se la società romana avesse trovato un modo di integrare i Goti nella sua fabbrica, magari condividendo proprio quelle alte cariche che proibiva ai Germani, forse gli imperatori goto-romani avrebbero avuto il ruolo nel quinto secolo che ebbero gli illirici nel terzo e nel quarto.
Di converso è importante sottolineare che l’integrazione è sempre una danza che va ballata in due: non è sufficiente per la società di desiderare di integrare una cultura proveniente dall’esterno, anche gli immigrati debbono accettare l’integrazione che inevitabilmente causerà una diluzione dei loro costumi in un milieu comune. È evidente che i Germani fino ad Adrianopoli vollero in gran parte integrarsi nella fabbrica dello stato romano, per quanto fosse loro concesso. Dopo Adrianopoli, per le cause che abbiamo più volte dibattuto, molto meno. Anche la politica delle porte sempre aperte, se non sposata con una robusta politica di integrazione che includa anche la rinuncia di pezzi importanti della cultura d’origine, può portare ad un indebolimento della tenuta della società. A mio avviso le società umane sono sempre più fragili di quanto gli uomini credano e non occorrono numeri enormi per sfilacciarne la tenuta: furono sufficienti poche centinaia di migliaia di Germani in armi dentro l’Impero per progressivamente peggiorarne la tenuta nel corso di un secolo, senza che loro stessi e i cittadini dell’impero se ne rendessero del tutto conto.
Ma allora di chi è colpa?
È arrivato il tempo quindi di scoprire le carte ed esporvi quello che a mio avviso accadde, senza giri di parole e con l’ovvio caveat che è una mia interpretazione, suscettibile immagino di numerosi appunti e obiezioni.
Diciamo che le questioni in campo principali sono: è l’impero crollato per cause interne o cause esterne? La seconda domanda è: si è trattato di un vero crollo o di una benigna trasformazione dell’impero in qualcosa di diverso? Infine la terza domanda: quando è avvenuta la caduta, nel 476 o in un’altra data?
La prima risposta che darei è che le cause della caduta dell’occidente sono principalmente esogene, ma cause endogene sono stati importanti fattori di avvitamento della crisi. Si, si è trattato di una catastrofico collasso della civiltà mediterranea, ma è stato un processo lungo che ha inizio nel terzo secolo e la cui conclusione si ha solo alla fine del settimo e l’inizio dell’ottavo secolo. Parlo del collasso della civiltà mediterranea e non dell’Impero perché l’Impero Romano è sopravvissuto a questa crisi, sotto forma dell’Impero Romano medievale, quello che molti chiamano Impero Bizantino.
Alla base della crisi della civiltà mediterranea ci sono fattori del tutto esogeni: innanzitutto l’irruzione degli Unni nello scacchiere europeo. Gli Unni furono probabilmente spinti da cambiamenti climatici che resero i loro pascoli troppo aridi. L’arrivo degli Unni scombussolerà l’intero mondo germanico che a due riprese – nel 376 e nel 406 – cercherà rifugio nell’Impero Romano, la prima volta come rifugiati, la seconda come invasori. Queste invasioni causeranno a breve termine dei danni rilevanti all’impero, nei Balcani e in Gallia soprattutto, che sarebbero stati rimarginabili se i nuovi venuti fossero stati assorbiti infine nell’impero.
Invece una combinazione dell’ascesa del razzismo tra i Romani, di una maggiore confidenza dei propri mezzi dei Germani e dell’intolleranza tra credi cristiani porterà a solidificare le identità degli uni e degli altri. Romani e Germani non riuscirono mai a vedere il grande spazio dell’Impero Romano come una casa comune. A questo punto interverranno i famosi fattori acceleranti della crisi: la rigidità del sistema politico imperiale scatenerà ricorrenti guerre civili, le più devastanti probabilmente furono quelle a fine quarto secolo che a due riprese combatté Teodosio contro l’occidente, devastandone l’esercito. Altri round di guerre civili si scateneranno alla morte di Stilicone, di Flavio Costanzo e di Ezio. Ogni ciclo di guerra civile indebolirà lo stato romano e, punto cruciale, il corpo dello stato romano non avrà tempo di recuperare dai colpi inferti dall’ultima malattia prima di una ricaduta. Ogni giro di giostra imperiale tirerà in campo i Re dei barbari, in ruoli via via più importanti nel definire il risultato, mentre altri germani approfitteranno della confusione per accaparrarsi pezzi del mondo romano che poi faranno di tutto per mantenere.
Dopo ogni round di guerra civile ci sarà un certo recupero, ma sarà come una marea che monta, dove la risacca di recupero per l’impero è sempre meno profonda, mentre le ondate a mano a mano montano sempre di più verso l’orlo della battigia. Ci sarebbero sicuramente decine di altri fattori di indebolimento che andrebbero citati, ma non è possibile per me di trattarli tutti. Forse un ultimo fattore di accelerazione che mi sento di citare è il concetto della “creeping normality”, coniato per la prima volta dallo studioso e antropologo Jared Diamond nel suo magistrale libro “collasso”. Diamond si chiese cosa avesse spinto ad esempio gli abitanti dell’isola di Pasqua ad abbattere l’ultimo albero dell’isola, nella consapevolezza che fosse una condanna a morte per la civiltà dell’isola. I Romani ma anche i Germani non avevano nessun interesse alla distruzione dell’edificio imperiale, anche i più aggressivi tra i Germani – come Genseric e Alaric – erano chiaramente alla ricerca di un ruolo per loro e il loro popolo nel mondo Romano, volevano condividerne le ricchezze, gli onori e il potere, cercando sempre di brigare per associare sé stessi e il loro popolo alla struttura imperiale. Le decisioni egoistiche individuali a volte possono portare ad un avanzamento della società, ma a volte possono alimentare spirali negative senza che chi vive nel tempo abbia idea del loro impatto sul lungo periodo. L’esempio più calzante potrebbe essere quello della rana che viene cucinata in una pentola alzando molto lentamente la temperatura: un aumento improvviso convincerebbe la rana a saltare fuori dalla pentola, invece così la rana si abitua alla nuova condizione, poi ad un condizione ancora più calda, fino alla morte. Una crisi repentina avrebbe costretto i Romani alla reazione, come avvenne nel settimo secolo dopo le invasioni persiana prima e araba poi, mentre il lento declino del quinto secolo non diede il necessario senso di urgenza alle classi dirigenti.
L’Impero Romano era una struttura troppo maestosa, troppo grandiosa, troppo di lunga durata perché potesse cadere con un colpo veloce, la stessa durata del declino permise ai Romani e ai Germani di illudersi che non si trovavano di fronte ad un collasso di buona parte di quei fili invisibili che tenevano assieme il loro mondo. Poterono immaginarsi che si trattasse di crisi momentanee, le brevi primavere tra gli inverni di crisi permisero di illudersi che il peggio fosse alle spalle. E proprio questa assenza di senso d’urgenza permise a molti uomini di prendere decisioni disastrose, come la famosa pugnalata ad Ezio da parte di Valentiniano III o l’uccisione dello stesso Valentiniano da parte di Petronio Massimo. E così per ambizione, cecità, ignoranza, cupidigia e arrivismo i Romani e i loro vicini Germani finirono per tagliare uno ad uno gli alberi dell’isola, fino a che non rimasero più alberi su Rapa Nui.
Ma l’Impero è davvero “caduto” nel V secolo?
La seconda domanda riguardava la questione della continuità, ovvero la tesi che sostiene che non ci fu alcuna caduta dell’occidente ma solo una trasformazione progressiva e sostanzialmente benigna dell’Impero Romano in qualcosa di diverso. Immagino che avendomi sentito pontificare su quanta continuità ci sia tra Odoacre e il recente passato vi aspettiate che io sia nel campo degli storici che sostengono questa tesi. Reputo che questa corrente sia stata una correzione importante ai precedenti catastrofismi e che abbia avuto il merito di coniare il termine e il concetto di tarda antichità, applicato generalmente al periodo che va dalla crisi del terzo secolo alla conquista degli arabi. L’insistenza con la quale Peter Heather e i suoi sostengono che il 476 sia una data comunque importante per la storia dell’occidente è a mio avviso il loro principale demerito.
Il fatto che ci sia una continuità però attraverso il 476 non vuol dire che non ci sia una forte discontinuità altrove: nel complesso l’intera fabbrica dell’economia e della struttura statale del mondo mediterraneo, unito da secoli dall’Impero Romano, andò progressivamente sfaldandosi con risultati via via più disastrosi. Il 476 non è la data della fine di una civiltà, ma questo periodo di continuità con il mondo antico avrà termine in futuro. Avremo modo di parlarne.
Una caduta inevitabile?
L’ultimo argomento che voglio affrontare è quello dell’inevitabilità: molti storici e la quasi totalità degli appassionati di storia sono convinti che la caduta dell’Impero Romano d’Occidente fosse inevitabile da un certo punto in poi, molti sono convinti che fosse insito perfino nella dimensione smisurata dell’Impero. Io non sono così convinto, e non lo sono perfino per date che tanti storici considererebbero molto tarde: ha secondo me ragione Peter Heather nel sostenere che ancora al 468 l’Impero Romano d’occidente era salvabile, visto che c’erano ancora gli elementi di una possibile ripresa, con la condizione necessaria ma non sufficiente della conquista dell’africa, che come sappiamo naufragò. Anche situazioni in apparenza disperate possono non esserlo in realtà: a volte per uno stato è sufficiente sopravvivere anche in una forma ridotta per pensare dopo ad un recupero. Basti pensare a quello che affronterà l’Impero Romano dopo la vittoria degli arabi: decenni di razzie e saccheggi delle sue città, sconfitte su mare e per terra fino a che nell’ottavo secolo la capitale sarà circondata da un terribile assedio e l’impero sarà a poche settimane da scomparire. Eppure nel giro di 200 anni i Romani passeranno di nuovo all’attacco, riconquistando una buona parte dei territori perduti. Se l’occidente fosse sopravvissuto, magari anche solo ridotto alla penisola italiana, sarebbe venuto magari un tempo in cui avrebbe potuto riprendersi o sfruttare la debolezza altrui. Quello che uccise davvero l’occidente furono i venti anni di guerre pressoché costanti seguenti alla morte di Valentiniano III. Con una guida sicura forse si sarebbe riusciti a raddrizzare la barca dello stato, permettendogli di sopravvivere in qualche forma. Lo stesso vale per i tentativi di Maggiorano e Antemio, che andarono assai più vicini all’obiettivo di restaurare un impero occidentale funzionante di quanto gli si dia di solito credito.
La morale della favola
Quindi questo è quanto: la civiltà del mediterraneo è crollata sotto i colpi delle malattie e delle invasioni barbariche, ivi inclusa quella da parte degli Arabi. La crisi è stata esacerbata poi dalle debolezze intrinseche dello stato romano, come era accaduto nel terzo secolo. I Romani hanno avuto più volte l’occasione di interrompere o invertire il declino, ma per una combinazione di sfortuna e di incapacità non ci sono riusciti. La stessa natura progressiva e altalenante della crisi, con alti e bassi, ha impedito lo sviluppo da parte della classe dirigente romana e germanica di un senso di urgenza e di caducità dell’organizzazione imperiale. È la tesi definitiva sulla caduta dell’Impero Romano? No, ovviamente no, sicuramente ho sottovalutato diversi fattori. Nuove prove e nuove tesi vengono sviluppate ad ogni generazione, ad esempio i fattori del cambiamento climatico sono stati evidenziati di recente, ne avremo modo di parlare ancora nel sesto secolo.
Quel che è certo è che l’Impero Romano, al punto in cui siamo arrivati nella nostra storia, non è affatto caduto: una metà sopravvive ed è perfino in uno stato florido, nell’altra metà la maggior parte dei regni successori all’Impero ne riconosce una più o meno vaga superiorità e supremazia. E Costantinopoli non si è ancora rassegnata alla perdita dell’occidente.
Quanto alle lezioni che potremmo trarre dal quinto secolo dopo cristo, credo ce ne siano diverse. Una è che non si può mai dare per scontato la sopravvivenza del nostro tenore di vita e del nostro mondo: occorre combattere ogni giorno per evitare una lenta scivolata verso il declino. Di converso è anche inutile la rassegnazione: non esiste un destino baro che condanni un paese alla deriva. Homo faber suae quisque fortunae, l’uomo è l’artefice del proprio destino, diceva il primo poeta latino, Appio Claudio Cieco, il costruttore della via Appia, la raegina viarum. Non è mai troppo tardi per prendere in mano i destini del proprio futuro.
Spesso siamo molto orgogliosi dei nostri illustri antenati, dissi nel primissimo episodio riferendomi ai Romani. Ci gloriamo della sconfitta dei Cartaginesi, della vittoria di Alesia, delle spedizioni di Traiano, dei trionfi di Augusto, della magnificenza delle rovine romane sparse per tutto il mondo mediterraneo o della sua immensa eredità culturale. Eppure studiare la storia dei fallimenti dei Romani, di come finirono per accettare la dismissione del loro mondo, di come segarono l’ultimo albero sull’Isola di Pasqua, credo possa essere un insegnamento più utile e valido, per noi contemporanei, di mille epoche d’oro.
L’economia dell’Impero Romano
Quanto al prossimo episodio, questo è un numero tondo, cinquanta. I più pignoli potrebbero dire che è in realtà l’episodio 51, considerando l’episodio zero, ma vorrei celebrarlo lo stesso parlandovi di un tema che mi sta a cuore e che, seppur accennato in diversi episodi, non ho mai trattato a fondo. Credo abbiate notato che oltre alla storia sono un appassionato di economia. Vorrei unire queste due passioni in un episodio speciale che spieghi, per quanto possibile in quaranta minuti, la natura dell’economia dell’Impero Romano, e si, per la prima volta parleremo soprattutto del periodo alto-imperiale, anche se non solo ovviamente. Spero vogliate seguirmi! Trovate la puntata in formato podcast in basso.
Donazione una tantum
Donazione mensile
Donazione annuale
Scegli un importo
O inserisci un importo personalizzato
Apprezziamo il tuo contributo.
Apprezziamo il tuo contributo.
Apprezziamo il tuo contributo.
Fai una donazioneDona mensilmenteDona annualmente
Infatti pochi parlano della svalutazione della valuta romana e della conseguente inflazione.
"Mi piace""Mi piace"