Nello scorso episodio abbiamo assistito alla caduta del generalissimo dell’occidente, Stilicone. La sua indubbia capacità è stata vittima di una delle grandi tempeste della storia, la doppia invasione di Radogast in Italia e della coalizione barbarica sul Reno. Radogast è stato sconfitto e l’Italia salvata mentre la frontiera del Reno è stata completamente violata: bande di razziatori germanici scorrazzano nella Gallia settentrionale, saccheggiando e distruggendo una delle terre più prospere dell’Impero. Dalla Britannia è venuto in Gallia l’usurpatore Costantino che ha raccolto intorno a sé la bandiera dei grandi proprietari terrieri gallici, orfani dell’aiuto e dell’autorità di Ravenna. Stilicone, isolato e sempre più in difficoltà, è caduto vittima di una congiura di palazzo, rassegnandosi coraggiosamente al suo destino.
In questo episodio vedremo fino a che punto Stilicone fosse stato indispensabile alla stabilità in Italia: all’uscita di scena del Generalissimo dell’occidente i suoi successori prenderanno una decisione disastrosa dopo l’altra portando l’impero sull’orlo del disastro. Invece di scrutare l’abisso e decidere di fare un passo indietro, i padroni dell’occidente si tufferanno nel pozzo, causando l’impensabile: il sacco di Roma.
Il genocidio dei Goti
Onorio come al solito era incapace di governare perfino la sua camera da letto. Alla morte di Stilicone, pensò bene di conferire ogni potere politico nelle mani di Olimpio, ovvero la creatura di palazzo che aveva complottato per far cadere il generalissimo.
Olimpio credo che si ispirò all’esempio di Costantinopoli: nel 400, alla caduta di Gainas, la corte orientale si era liberata dei Goti massacrandone le famiglie. Olimpio pensò probabilmente che Ravenna dovesse fare lo stesso, massacrando i suoi barbari e le loro famiglie in modo da purgare lo stato romano della influenza dei barbari. Probabilmente fu lui a dare l’ordine di massacrare donne, vecchi e bambini a Ravenna, dando il là ai pogrom in tutta la penisola. Le porte delle case dei Goti, Vandali e Alani che vivevano in Italia furono abbattute, le donne violentate, i bambini uccisi, le loro proprietà saccheggiate.
Credo abbiate già compreso l’immenso errore strategico di Olimpio: nel 400 i Goti massacrati dai Costantinopolitani erano andati a rafforzare Alaric: questi, finalmente in grado di nuocere, aveva avuto un altro Impero Romano da invadere e solo per questo motivo aveva abbandonato l’oriente, invadendo l’Italia nel 401. Nel 408 i Goti, con il massacro di Ravenna, non avevano più nessun luogo dove rifugiarsi. Erano invisi sia in oriente che in occidente. Oramai i Goti si erano abituati a vivere nell’impero: erano cristiani, parlavano latino, apprezzavano i bagni riscaldati e tutti gli altri comfort che poteva fornire l’impero. Improvvisamente però l’impero gli aveva detto che non c’era spazio per loro. Inevitabilmente decisero che dovevano combattere per guadagnarsi il loro posto al sole, occorreva solo scegliere quale dei due imperi affrontare: Costantinopoli era ancora forte, Ravenna era nel caos più completo. Chi deciderà di combattere secondo voi Alaric?
Le orribili notizie del pogrom raggiunsero i dodicimila Goti Greutungi che solo due anni prima avevano fatto parte della schiera di Radogast e che erano stati assoldati da Stilicone. L’intera schiera di soldati si ribellò all’istante e andò a unirsi ai Goti di Alaric. A questo punto Alaric era al comando della più grande armata gotica che mai avesse marciato sulla terra: probabilmente 40 mila armati, tutti soldati veterani. A questo supergruppo barbaro, formato dai Goti Tervingi e Greutungi immigrati nel 376 e dai Goti Greutungi immigrati nel 406 daremo da oggi in poi un nome che è passato alla storia: i Visigoti.
Il primo assedio di Roma

Alaric però non mosse guerra immediatamente: il suo obiettivo era la pace negoziata con un Impero Romano, se fosse riuscito a raggiungerlo senza spargimento di sangue tanto meglio. Chiese alla corte di Ravenna di rispettare i patti che erano stati concordati con Stilicone, incluso il pagamento dei suoi servigi e la spedizione in Gallia. Olimpio ovviamente non aveva nessuna intenzione di concedere ai Goti di ricevere una solo Solidus, né di permettergli di metter piede in Gallia.
Olimpiodoro, un capace storico e diplomatico della corte di Costantinopoli, è la principale fonte che seguiremo per i prossimi due anni: il suo racconto ci è arrivato di seconda mano, ricopiato e riassunto da Zosimo, eppure resta interessantissimo. Il giudizio del capace diplomatico è che Onorio e Olimpio fecero un doppio errore: avrebbero potuto rassegnarsi all’inevitabile e firmare la pace con Alaric, alle sue condizioni, o prepararsi alla guerra con il Goto radunando un esercito capace di affrontarlo, mettendolo al comando di un generale capace come il Goto Sarus, un nemico personale di Alaric. Insomma, di fronte alla scelta tra la guerra e il disonore scelsero la guerra ed ebbero il disonore, per dirla alla Churchill.
Nell’autunno del 408, Alaric scese in Italia per la seconda volta e passò speditamente attraverso il Veneto, varcò il Po verso Cremona e invece di dirigersi a Ravenna evitò la città lagunare e si diresse direttamente verso Rimini e di qui lungo la via Flaminia verso Roma: a differenza della sua prima invasione o di quella di Radogast due anni prima poté attraversare in poche settimane tutte le difese che Stilicone aveva tenacemente difeso anni prima, mentre Ravenna era paralizzata di fronte a questa evoluzione prevedibilissima degli eventi.
A Roma fu il panico: per la seconda volta in tre anni un esercito Gotico si avvicinava alla città ma questa volta nessuno pareva voler difendere strenuamente la città eterna. Alaric tagliò la penisola come il burro e si presentò di fronte alle mura della città: a questo punto procedette a mettere sotto assedio Roma, bloccando tutte le porte e impedendo i rifornimenti che risalivano il fiume Tevere. Per la prima volta in 800 anni Roma era sotto assedio.
Penso che vi immaginiate l’obiettivo di Alaric: ovvio no? Saccheggiare la più ricca e tronfia città del mondo. Ma è l’assedio di Roma che ci rivela il vero volto di Alaric: questi non aveva posto sotto assedio la capitale morale dell’Impero per saccheggiarla ma per costringere a trattare la corte di Ravenna, imprendibile dietro le sue paludi. Oltre a quello, certo: non gli sarebbe dispiaciuto mettere le mani sulla ricchezza mobile della più grande metropoli dell’antichità. I Romani, che la vulgata vuole deboli ed effeminati nel quinto secolo, non si diedero per vinti di fronte all’immensa orda Gotica, il più grande esercito che avesse calcato la penisola da secoli. Fortificarono le difese, tagliarono le razioni per tutti gli abitanti alla metà, poi ad un terzo. La fame serpeggiò per le strade della città, poi ben presto fece visita alla città la sorella della fame, madame pestilenza. I morti si accumularono nelle strade e nei campi cittadini, essendo impossibile seppellirli fuori città. Nonostante tutto i Romani resistettero, confidando che un esercito imperiale fosse in arrivo.

Non sapremo mai chi seppellì con tanta cura questa statua mirabile ma è probabile che fu un’azione premeditata con cura per proteggere uno dei capolavori artistici della città di Roma, probabilmente prima di uno dei due sacchi a cui verrà sottoposta nel quinto secolo. Gli antichi sapevano cosa accadeva nell’antichità alle statue di bronzo: non essendoci ancora il concetto tra i più del valore artistico di un bene la maggior parte venivano fuse per riciclare il materiale prezioso di cui erano fatte. Delle anime pie pensarono di seppellire questo capolavoro per permettere a noi di vederlo, quando la tempesta fosse passata. Forse pensarono che sarebbe stata questione di pochi anni, ce ne vollero 1500.
In loro onore, in onore di questi anonimi eroi dell’arte, andate a visitare questa statua a Palazzo Massimo, un museo tanto bello quanto poco frequentato, di fronte alla stazione Termini. Vi potrete commuovere di fronte all’espressione del viso, ai muscoli tesi nello sforzo, alle mani affaticate e fasciate. E forse vi commuoverete anche pensando che questo è il testimone di un naufragio, della fine di una civiltà che si rassegna a seppellire quanto ha di più caro pur di non vederlo scomparire per sempre.
Vae victis
Un esercito non era affatto in arrivo: Onorio rimaneva rintanato a Ravenna. la paura di Onorio e Olimpio era che Costantino III, ora di base ad Arles, avrebbe condotto le sue truppe in Italia il minuto dopo che loro avessero ordinato al sempre possente esercito d’Italia di marciare verso Roma. I cittadini di Roma non lo sapevano ancora me erano stati abbandonati dal loro imperatore.
I Romani provarono a resistere e si rassegnarono a mangiare qualunque bestia, qualcuno anche i cadaveri. Nella città arrivarono voci di una città in Toscana che aveva ripreso gli antichi riti pagani e, a detta dei locali, i riti l’avevano protetta dall’avanzata dei Goti. Il prefetto del Pretorio dell’Urbe, sostanzialmente il governatore della città, propose in una riunione con i maggiorenti cittadini di fare lo stesso: tornare a fare sacrifici in onore degli Dei. Perfino Papa Innocenzo I, nel racconto di Zosimo, diede l’assenso, con la clausola che questi riti fossero celebrati in forma privata. Ma riti di questo genere, nell’antica Roma, erano stati un affare di stato, della Repubblica: non potevano essere ufficiati privatamente, l’intero Senato avrebbe dovuto ufficiarli in quanto rappresentanti della città. E no, questo non era accettabile né per il Papa né per i molti senatori cristiani.
Eppure arrivò un giorno in cui la resistenza ad oltranza parve futile: il Senato, piegato e rassegnato, inviò un’ambasceria ad Alaric. I messaggeri dissero che i cittadini di Roma erano pronti a trattare ma erano anche pronti a combattere, essendosi esercitati negli ultimi mesi alle arti della guerra. Alaric per poco non si strozzò dalle risate: questi imbelli civili pensavano di poter resistere ai suoi Goti, veterani di mille battaglie. Credevano forse di essere gli antichi Romani? Ah. Rispose sprezzante: “l’erba più folta è più facile da tagliare” poi passò a illustrare le sue di pretese. Come un novello Brenno che getta la spada sulla bilancia dicendo “guai ai vinti” Alaric fece richieste esorbitanti per interrompere l’assedio: 4000 libbre d’oro, 30000 d’argento, un’enorme quantità di vestiti e spezie preziose e la libertà per gli schiavi gotici. Gli ambasciatori rimasero scioccati dalle richieste di Alaric. Chiesero cosa sarebbe rimasto ai cittadini di Roma: “le loro anime” rispose Alaric, e chiaramente non era un bluff. Ma Alaric non aveva terminato. Oltre a queste somme, utilissime per consolidare la sua presa sul popolo Gotico, Alaric mirò direttamente al suo vero obiettivo: un accordo politico con l’Impero. Un’ambasceria di senatori Romani si sarebbe dovuta recare a Ravenna per negoziare un accordo di foedus tra il Re dei Goti e la corte imperiale. Alaric intendeva passare al servizio di Ravenna, come originariamente negoziato con Stilicone pochi mesi prima.
I senatori inviarono dei messaggeri a Ravenna per chiedere se l’accordo fosse accettabile per l’imperatore. Onorio e Olimpio non avevano scelta: non potevano inviare un esercito a sconfiggere Alaric e liberare Roma dall’assedio. Onorio fece dunque capire in termini vaghi che non si opponeva. A questo punto i senatori ebbero il non invidiabile compito di raccogliere il riscatto per Alaric: il fisco da solo non sarebbe bastato per pagare l’immensa somma, si dovette quindi ricorrere ai contributi delle principali famiglie della città, in proporzione ai loro beni. Anche gli ornamenti preziosi dei templi e delle statue furono utilizzati per fondere lingotti d’oro e d’argento. Una volta che l’immensa somma fu raccolta e pagata ad Alaric questi allentò la morsa sulla città: i goti permisero ai contadini dei dintorni di vendere derrate alimentari ai Romani ridotti alla fame, probabilmente a prezzi esorbitanti. La città, impoverita, tornò almeno a mangiare. Nel dicembre del 408 Alaric levò le tende e si trasferì in Toscana, vivendo sulla pelle degli antenati di Dante. Rimase in attesa del risultato delle negoziazioni con Ravenna prima di fare la sua nuova mossa. Finiva un altro anno caotico per l’Impero Romano.
409 dopo cristo: solito tram-tram

Negoziare o no con il Goto? Per rispondere a questa domanda a Ravenna si scatenò una vera e propria lotta di potere tra le due fazioni a corte. La fazione anti-gotica era correntemente al potere: questa era la fazione xenofoba che aveva abbattuto Stilicone, massacrato i Goti e causato l’invasione d’Italia da parte di Alaric: questa corrente era ovviamente guidata dal nostro Olimpio. A corte c’erano però ancora tanti che favorivano un accordo con i Goti, molti ex seguaci di Stilicone. In queste ore terribili Olimpio era ancora ossessionato dal trovare e punire chiunque avesse supportato Stilicone, ossessione come vedremo giustificata, cosa che lo rese cieco a quanto avveniva intorno a lui.
Per negoziare da un punto di maggiore forza Ravenna aveva dato ordine alla guarnigione della Dalmazia di dirigersi verso Roma per rafforzarne le difese e ridurre la minaccia gotica. Si trattava di una forza di sei mila soldati che però marciarono in Italia come se non ci fosse un nemico in agguato, il loro comandanti si rifiutò di evitare i Goti: era l’Italia oppure no il cuore dell’Impero? A causa della sua hybris i reggimenti furono attaccati da Alaric e massacrati, solo cento uomini e il loro comandante riuscirono a raggiungere Roma. Mi immagino Alaric ridere dei patetici tentativi dei Romani.
A questo punto una seconda ambasciata senatoriale, forte anche della presenza di papa Innocenzo I, fu inviata con guardie gotiche a Onorio per supplicarlo di accettare le richieste del Re dei Visigoti. In contemporanea il governo imperiale ricevette anche la notizia che Ataulf, cognato di Alarico, aveva attraversato le Alpi Giulie con l’intento di unirsi ad Alaric. Onorio convocò tutte le forze romane disponibili nel nord Italia. Invece di affidare il comando ad un soldato stagionato Onorio lo diede a Olimpio. Gli scrittori Romani sostengono che vinse lo scontro con Ataulf ma la storia finisce con Ataulf che si ricongiunge con Alaric, rafforzandolo ancora. Anche se ci fu una vittoria tattica romana alla fine si trattò di un disastro strategico. La carriera di Olimpio era al termine, in pochi mesi era riuscito a infliggere un disastro dopo l’altro allo stato romano: fu deposto dalle sue cariche da una congiura di corte e vista la mala parata Olimpio pensò di fuggire in Dalmazia. Il prefetto del pretorio Giovio, facente parte del partito filo gotico, si impadronì del potere e Onorio lo nominò prontamente al grado di patrizio. Il patriziato nel quinto secolo non era quello dell’antica Roma: solo un numero ristrettissimo di uomini veniva nominato dall’Imperatore al grado di Patrizio e come vedremo, con il tempo questo grado iniziò ad essere il sinonimo di un imperatore senza corona, come era stato Stilicone.
Giovio a questo punto passò ad eliminare i suoi nemici politici: orchestrò un ammutinamento delle truppe a Ravenna e richiese l’esilio dei due più importanti comandanti militari dell’esercito d’Italia, due creature di Olimpio. I due, sulla via dell’esilio, furono assassinati, Giovio non voleva lasciare nulla al caso. Avete notato come la politica Romana pare non cambiare mai? Mi sembra quasi di narrare una lotta tra correnti nella DC, per non fare esempi più vicini a noi. Perfino il rapporto tra l’imperatore Onorio e i vari uomini forti della sua corte mi ricorda quello tra un presidente della Repubblica e un Presidente del consiglio.
La trattativa
Ma torniamo all’antichità: Giovio era un amico personale di Alaric ed era stato un tempo parte del partito di Stilicone. Il nuovo governo a Ravenna decise dunque di aprire una trattativa con Alaric: il colpo di stato era stato organizzato probabilmente proprio a tal fine. Alaric si recò a Rimini per negoziare ma, sentendosi in una posizione di forza, le sue richieste furono molto pesanti: voleva un tributo annuale in oro e grano e per il suo popolo l’insediamento nelle province della Dalmazia, del Norico e della Venezia: praticamente il nord-est italiano, l’Austria, la Slovenia e la Croazia, un territorio enorme. Per sé, ça va sans dire, il grado di Magister Militum Utriusque Militiae, ovvero il grado occupato un tempo da Stilicone. Se questa proposta fosse stata accettata, Alaric sarebbe diventato il vero padrone della corte di Ravenna e i suoi Goti ne sarebbero stati la principale forza militare, insediati peraltro a due passi da Ravenna: Alaric voleva in sostanza quello che un giorno riuscirà ad ottenere Teodorico.
Ma la corte di Ravenna non poteva accettare questa servitù: l’impero era in condizioni difficili ma solo quattro anni prima un immenso esercito gotico era stato sconfitto a Fiesole: i Romani sapevano che la loro attuale debolezza era temporanea e cercarono di comprare del tempo. Le trattative finirono in stallo, a quanto pare Onorio inviò perfino una lettera a Rimini informando Alaric e Giovio che non aveva nessuna intenzione di nominare Alaric ad alcun grado militare romano.
Alaric, irritato, si ritirò dalle negoziazioni e tornò dalla maggior parte dei suoi, in Toscana. A questo punto la corte di Ravenna, dopo tanto tentennare, prese la decisione di resistere. Tutti i generali e gli uomini importanti della corte fecero un terribile giuramento, a quanto pare toccando assieme la testa del sovrano, una scena che deve essere stata bizzarra. Giurarono che non avrebbero mai accettato la pace con Alaric. Iniziarono preparativi per far arrivare in Italia rinforzi, soprattutto mercenari Unni. Era la guerra.
Alaric abbassa le sue pretese
In teoria a questo punto Alaric avrebbe dovuto procedere a mettere in atto le sue minacce e marciare su Roma, saccheggiandola. Ma Alaric non lo fece, anzi raccolse invece una ambasceria dei principali vescovi d’Italia, assieme ad altri notabili, e la inviò a Ravenna con una scorta armata di Goti. Una volta al cospetto dell’Imperatore i vescovi supplicarono Onorio di accettare la pace, portando i nuovi termini negoziali di Alaric. Nelle parole di Olimpiodoro “Alaric non voleva più cariche né onori, né chiedeva che i Goti fossero stabiliti nelle province che aveva chiesto in precedenza: ora voleva per i suoi le due province del Norico, sulle più remote anse del Danubio, che sono esposte a continue incursioni barbariche e che pagano all’erario pochissime tasse. Oltre a ciò si sarebbe accontentato di un tributo in grano e rinunciava del tutto all’oro. Quando Alaric avanzò queste giuste e prudenti proposte tutti si meravigliarono della sua moderazione”

A queste domande si aggiungeva una sorta di supplica personale di Alaric: questi implorava Onorio di non costringerlo a devastare Roma, una città per la quale anche lui aveva venerazione e rispetto. Olimpiodoro, la nostra fonte principale, trova che questi termini fossero molto generosi e accettabili. Eppure la proposta fu così moderata che fu percepita come un atto disperato da parte di un sovrano indebolito. Inoltre dopo tante divisioni e incertezze la corte di Ravenna si era appena unita intorno alla decisione della guerra, i generali avevano giurato di combattere Alaric al cospetto di Onorio, Onorio stesso probabilmente non voleva più sentir parlare di Alaric e quindi l’offerta fu sdegnosamente rifiutata. Olimpiodoro scrive “Furono così incauti coloro che erano incaricati del governo dello stato, poiché erano indegni delle cure e della protezione del cielo.”
Ora, a me interessano i fatti ma mi interessa ancora di più il perché dei fatti: perché Alaric, che solo mesi prima si voleva fare padrone del mondo romano decise di abbassare in modo così rilevante le sue pretese? Cosa era cambiato? Io credo che Alaric percepì la forza latente dell’Impero Romano, ora in stato disperato a causa di una serie incredibile di rovesci ma sempre pronta a riprendersi nelle mani di uomini più accorti rispetto a Onorio e Olimpio. Nelle parole di Peter Heather: “In quel momento Alaric aveva la forza militare per prendersi tutto ciò che voleva: eppure era disposto a fare un passo indietro pur di raggiungere un accomodamento di lungo periodo con lo stato Romano: per questo mise al primo posto la sicurezza”. Wolfram, l’autore della storia dei Goti, aggiunge altri interessanti considerazioni: “Alaric soddisfava il desiderio di lusso e oro dei Goti grazie ai suoi saccheggi e al taglieggiamento della città di Roma ma non poteva garantire ai suoi la certezza di un pasto. I Goti stavano devastando proprie le regioni dalle quali avrebbero dovuto trarre sostentamento. Il valore dei loro saccheggi veniva divorato dall’inflazione che causavano loro stessi devastando i mercati nei quali avrebbero potuto spendere l’oro sottratto ai Romani. Se l’esercitus gothorum avesse continuato su questa strada si sarebbero dovuti appendere il loro oro al collo senza poterci fare nulla: c’era insomma il rischio per i Goti di tornare alla loro più primitiva economia del baratto invece di guadagnarsi quello che più desideravano, una vita di agi, una vita alla Romana. Fintantoché i Goti non avessero avuto del suolo saldo sotto i loro piedi, una terra da chiamare patria, ogni loro mossa poteva essere l’ultima, visto che vivevano sul filo del rasoio. Alaric poteva assediare Roma nel 408 e nel 409, prendere la città, catturare la sorella dell’imperatore, minacciare l’Africa e il granaio dell’Italia, perfino devastare l’Italia ma senza un accordo con l’Impero prima o poi sarebbero stati sconfitti e distrutti, l’unico modo per evitarlo era stringere una alleanza con Roma e stabilire una permanente Gothia su territorio Romano.”
Se l’imperatore dice sempre di no, ci vuole un nuovo imperatore

Nel tardo 409 Alaric si ripresentò sotto le mura di Roma: i cittadini della grande città si prepararono ad altri mesi di carestia, pestilenze e devastazione. Ma l’ultima cosa che Alaric voleva era di saccheggiare Roma, e questo con tutte le sue forze. Sapeva che la conquista di Roma gli avrebbe dato ricchezze immense e una fama altrettanto immensa, ma sarebbe stata la fama del distruttore della città che aveva unito il mondo. Con una tale fama non avrebbe mai potuto realizzare il sogno della sua vita: una sistemazione per sé e per il suo popolo all’interno del sistema politico romano.
Ma Alaric aveva anche compreso che con Onorio e la sua corte non si poteva più trattare: la minaccia di saccheggiare Roma non li aveva piegati una volta, non li avrebbe piegati una seconda. No, quello che serviva era un nuovo imperatore: Alaric incontrò il senato di Roma e spiegò che non aveva nessuna intenzione di fare del male alla città, se avessero scelto tra loro un nuovo imperatore. Il Senato si riunì in conclave ed elesse l’anziano prefetto della città, Prisco Attalo, alla carica imperiale. Attalo era però un pagano e Alaric chiese che fosse battezzato prima di assumere la nuova carica: in cambio dei suoi servigi Alaric fu nominato Magister Militum Utriusque MIlitiae e suo cognato Ataulf fu fatto Comes Domesticorum, il comandante della guardia imperiale. L’impero ora aveva tre imperatori: Costantino III in Gallia, Onorio a Ravenna e Attalo a Roma: quando pensavate che la situazione non potesse ingarbugliarsi ancora ecco che ho dimostrato il contrario!

Il grosso dell’Italia peninsulare, l’Italia suburbicana, si dichiarò per Attalo ma, dettaglio cruciale, il Nordafrica rimase fedele ad Onorio e alla corte di Ravenna e sappiamo come il Nordafrica fosse il granaio dell’Italia: senza le province africane Attalo non poteva sfamare il suo popolo. Alaric propose di inviare una parte dei suoi Goti a Cartagine ma Attalo si rifiutò: inviare truppe barbariche a conquistare un territorio romano era cattiva pubblicità e, nonostante che fosse arrivato alla dignità imperiale grazie alle armi gotiche, Attalo era anche un patriota romano. Era fuori questione di avere i Goti in Nordafrica, l’unica regione dell’impero risparmiata dalla guerra e la regione chiave per il sostentamento economico e materiale dell’impero. Al loro posto fu inviata una spedizione di soldati romani fedeli ad Attalo.
Alaric, Ataulf e Attalo – forse dovremmo chiamarli le tre A – marciarono nel frattempo verso il nord Italia, qui diverse città si dichiararono in favore del nuovo governo. Onorio a questo punto, perso il controllo di buona parte dell’impero, fu preso dal panico, come sempre quando questo imperatore volubile e debole sentiva in pericolo la sua sicurezza personale. Onorio inviò a parlamentare con Attalo il suo primo ministro, Giovio, ma questi passò prontamente dalla parte avversaria, venendo nominato al rango di Patrizio da Attalo. A questo punto l’alleanza Romano-Gotica fece sapere a Onorio che avrebbero trattato solo sul luogo del suo esilio: era arrivato il momento di togliersi di torno.
In un universo parallelo Onorio viene esiliato e finisce i suoi giorni a Costantinopoli mentre l’alleanza tra Alaric e la corte di Ravenna passa all’offensiva contro Costantino III e ristabilisce il governo di Ravenna, a questo punto condiviso tra Goti e Romani, come sarà tra cento anni con Teodorico. Ma non siamo nell’universo parallelo e proprio mentre Onorio si apprestava a cedere arrivarono a Ravenna rinforzi dall’oriente: Costantinopoli non aveva dimenticato i suoi fratelli di Ravenna e aveva inviato quattro mila soldati e la promessa di ulteriori aiuti. In contemporanea arrivò la notizia che in Nordafrica il Comes Africae aveva battuto le forze inviate da Attalo: l’Africa restava leale a Onorio.
Il tradimento dei Romani
L’imperatore e quello che restava della sua corte decisero dunque di resistere e rifiutarono le richieste di Attalo. Alaric era furioso: ogni volta che pareva vicino al suo obiettivo questo si allontanava. Richiese di nuovo che Attalo autorizzasse l’invio dei Goti in Africa ma il nostro improbabile anziano imperatore si rifiutò nuovamente: aveva capito che probabilmente Alaric aveva intenzione di stabilire i suoi Goti in Africa e questo lui non lo poteva accettare. Grazie a questo coraggioso rifiuto penso che possiamo decisamente dire che Attalo non era né un codardo, né un traditore.
Allora Giovio, il nostro amato primo ministro di due corti e maestro dei complotti, consigliò ad Alaric di rimuovere il suo imperatore-fantoccio come condizione per negoziare con Onorio e Ravenna: con un colpo solo Giovio si sarebbe reso l’unico romano importante vicino ad Alaric. In una cerimonia pubblica, nell’estate del 410, Attalo fu privato della dignità imperiale ma in una rottura con la brutale tradizione politica romana Alaric ebbe pietà di lui e non lo mise a morte. Gli permise invece di rimanere con i Goti in qualità di privato cittadino.
A questo punto Alaric riaprì le negoziazioni con Onorio e, a 12 chilometri da Ravenna, organizzò quello che doveva essere il primo incontro personale con l’imperatore: Alaric si recò all’appuntamento con un piccolo seguito, e attese. E attese.
All’improvviso scattò la trappola, probabilmente ordita dal gruppo di ufficiali romani che più si opponeva alla trattativa. Un gruppo di soldati attaccò Alaric e i suoi: questi combatterono per la loro vita ma Alaric riuscì a scamparla. Prima di fuggire Alaric capì chi era ad attaccarlo: Sarus, il capo dei Goti che lo aveva abbandonato dopo la battaglia di Verona e la cui famiglia era nemica dei Balthi di Alaric da tempo immemore. Alaric fu enormemente offeso non solo a causa dell’atto in sé ma proprio a causa dall’identità dell’attaccante. Alaric comprese di aver fallito, ogni suo tentativo di negoziazione e accomodamento era finito contro un muro. Gli restavano solo due opzioni: scoprire il suo bluff e rinunciare all’attacco a Roma, più volte minacciato ma mai portato a termine, o compiere l’atto intollerabile, condanna definitiva del suo nome e della sua intera politica di dura trattativa con l’Impero.
Il dado è tratto

Alaric credo che più di ogni altra cosa tenesse alla sua dignità: non poteva dare l’idea ai Romani e ai suoi Goti di aver bluffato per tutti questi anni. Tornato dall’agguato diede l’ordine tanto temuto: dopo una breve marcia il suo immenso esercito si accampò nuovamente attorno all’esausta città di Roma, per la terza volta in due anni. I Romani compresero che erano stati abbandonati dal loro imperatore, che li aveva gettati in pasto ai Goti pur di non fare un accordo con Alaric. Non era più il tempo degli atti di eroismo: resistere, dopo mesi di carestia, pestilenze, sommovimenti politici, era impensabile. Il 24 agosto del 410 l’esercito dei Goti entrò a Roma dalla porta Salaria, la leggenda vuole che fu lasciata aperta dai Romani, forse nella speranza che la resa gli risparmiasse il peggio. Erano passati quasi esattamente 800 anni dall’ultima volta che la città era stata violata, dai Galli di Brenno. Era iniziato il sacco di Roma.
Nella sua “storia contro i pagani” Orosio vuole dimostrare con tutte le sue forze che il comportamento del cristiano Alaric sia stato impeccabile confrontato al pagano Radogast. A tal fine dipinge un quadro sorprendentemente civile: Alaric diede l’ordine che le chiese principali della città diventassero dei santuari, nessuna decorazione poteva essere derubata e le persone ivi rifugiatevi erano intoccabili. Pare che anche i danni strutturali alla città furono molto limitati. La gran parte degli edifici e dei monumenti rimase in piedi, anche se spogliata di ogni ricchezza rimovibile.
Ma al di là di questa patina di moderazione si celò sicuramente molta violenza: soprattutto nei confronti delle donne. È probabile che la gran parte della popolazione femminile della città venne stuprata, mentre chiunque soffrì violenze da parte dei Goti in cerca di oro e ricchezze. Diversi cittadini furono trascinati via e venduti in schiavitù, probabilmente dai loro vecchi schiavi gotici. Un Monaco Romano-britannico che fu un grande oppositore di Agostino, di nome Pelagio, sopravvisse all’assedio e in una lettera ad un’amica ci dà un racconto di prima mano dell’assedio e del sacco:
Questa triste calamità è appena finita, e sono testimone di come Roma, che comandava il mondo, sia stata sconvolta dalle trombe gotiche, di come quella nazione barbara e vittoriosa prese d’assalto le mura e si fece strada in città. Dove erano allora i privilegi di nascita e le distinzioni tra gli uomini? Tutte le differenze erano livellate dalla comune tragedia. Ogni casa era una scena di sofferenza, e altrettanto piena di dolore e confusione. Lo schiavo e il nobile erano nelle stesse circostanze, e ovunque il terrore della morte e del massacro era lo stesso.
Per tre giorni i Goti si sfogarono sulla città e probabilmente avrebbero voluto restare settimane ma Alaric decise che fosse sufficiente. Aveva reso ognuno di loro ricco oltre ogni immaginazione ma il cibo, nella esausta città, scarseggiava di nuovo. I Goti si ritirarono portandosi dietro tesori di ogni genere, pare perfino le ricchezze del tempio degli Ebrei, saccheggiate più di tre secoli prima. Ma Il tesoro più grande sui quali i Goti misero mano non era fatto di metallo prezioso: si trattava di una principessa, anzi la principessa: Gallia Placidia, sorella dell’imperatore Onorio, figlia dell’imperatore Teodosio e nipote di Valentiniano I, l’uomo che gli eserciti riuniti d’occidente e d’oriente avevano scelto per governare Roma dopo la morte di Giuliano e il disastro in Persia.
Una tomba nel Busento
Alaric diresse i suoi verso sud, verso il mediterraneo e la speranza di uscire da questa maledetta penisola dove non riusciva a trovare casa: I goti, se non volevano morire di fame, dovevano raggiungere delle terre con abbondanza di grano prima dell’arrivo dell’inverno, l’Africa se possibile o in alternativa la Sicilia. I Goti si aprirono una via sanguinaria attraverso il sud della penisola, giunti fino in Calabria provarono ad attraversare lo stretto di Messina con delle barche di fortuna, ma dovettero desistere a causa di una tempesta. A questo punto Alaric fece dietrofront e li ricondusse verso nord, risalendo la Calabria: proprio durante questa marcia, improvvisamente, si ammalò di una malattia che lo portò fulmineamente alla morte. Fu quindi in Calabria che morì Alaric il grande, primo Re dei Visigoti: aveva meritato una fama imperitura. O infamia, a seconda del punto di vista.
Era il tardo 410 ed erano passati solamente pochi mesi dalla presa di Roma. Molti viderono in quella fine improvvisa il segno della collera divina di fronte alla violazione della città eterna. Secondo la leggenda riportata dal Giordane, i suoi Goti deviarono il fiume Busento e lo seppellirono lì, assieme a una gran parte dei profitti del sacco di Roma, salvo poi ricoprire la tomba con le acque e i corpi di chi aveva lavorata all’opera, in modo da proteggere il secreto del luogo di sepoltura finale del grande Re. Per centinaia di anni schiere di archeologi amatoriali, novelli Schliemann, hanno provato a localizzare la tomba di Alaric ma nessuno l’ha mai trovata, anche perché è quasi sicuramente una leggenda essendo un tipico topos letterario germanico. Ma chissà, voi potreste essere più fortunati!
Alaric è una figura che giganteggia sul quinto secolo ma non va esagerata: fu un buon generale e un capo accorto del suo popolo ma va detto che non riuscì mai a sconfiggere un vero esercito Romano, né a raggiungere il suo fine ultimo di un accordo con Roma. Nel complesso mi pare una figura tragica più che la macchietta malvagia della vulgata: credeva di aver imparato la lezione, Roma ascoltava solo quando minacciata dalle sue spade gotiche. Eppure proprio la sua irruenza e a tratti assenza di diplomazia condannarono la sua politica: già nel 408 era diventato una figura tanto odiata dai capi militari Romani che un accordo con lui era pura Cryptonite per la popolarità di un imperatore o per la carriera pubblica di un funzionario, tanto che la trattativa con Stilicone costò a quest’ultimo la sua vita e quella dei suoi familiari. Il fallimento di Alaric era pertanto inevitabile e il sacco di Roma non fu il suo trionfo ma la sconfitta della sua politica: aveva cacciato i Goti in un cul de sac da cui non sarebbero usciti mai con lui alla guida, ebbe il buon senso quindi di morire e lasciare ad altri la trattativa con lo stato Romano.
L’11 settembre degli antichi

Cosa fu il sacco di Roma per i contemporanei? È difficile oggi comprendere davvero la sua portata psicologica per i Romani. Roma aveva avuto sicuramente tempi difficili ma mai, mai i Romani avevano dubitato il suo destino civilizzatore universale. Dio, o gli Dei, non avrebbero mai permesso che i suoi sacri confini fossero violati da un nemico, Roma non poteva cadere perché Roma era il destino ultimo dell’umanità. In sostanza I Romani si erano convinti di essere indispensabili ai disegni divini. Il sacco di Roma fu un brusco, terribile risveglio da tutto questo. E brusco fu: solo nel 405 una enorme invasione barbarica era stata sconfitta senza troppi problemi da Stilicone, nessuno aveva pensato che l’impero fosse in un pericolo talmente grande, neanche quando i disastri iniziarono ad accumularsi l’uno sugli altri: la caduta del Reno, la guerra civile, l’invasione di Alaric.
Se vogliamo trovare un paragone moderno, il sacco di Roma fu l’11 settembre degli antichi: anche l’America si sentiva invulnerabile, protetta da due immensi oceani e dalla sua ideologia del destino manifesto, della città luccicante sopra la collina nelle parole di Reagan. Non credo che gli europei comprendano che shock fu per l’America ritrovarsi in prima fila, attaccata sul suolo patrio per la prima volta in 200 anni. Eppure questo shock è nulla in confronto al sacco di Roma: Roma non era stata saccheggiata da 800 anni, più del tempo che ci separa da Giotto e Dante. Certamente ci fu chi comprese che le cose avevano preso una brutta piega da tempo ma come abbiamo visto la discesa della china fu rapidissima e devastante e il più probabilmente si illuse fino all’ultimo che fosse solo una crisi temporanea.
Eppure il sacco di Roma fu simile all’11 settembre anche sotto un altro aspetto: in realtà il suo impatto fu più psicologico che reale. L’America del 12 settembre era sempre l’unica superpotenza mondiale, anche se ferita nell’orgoglio e nella carne della sua capitale economica. Anche lo stato Romano non era debole nel 410: i Goti erano riusciti nella loro impresa solo perché chi governava Ravenna era paralizzato dalla paura di utilizzare la sua forza militare per fare alcunché. Lo shock della caduta dell’antica capitale dell’impero porterà al potere a Ravenna un uomo di ben altra pasta che non ci metterà molto a mobilizzare le risorse latenti dell’impero. La sua azione riporterà indietro l’orologio quasi al giorno di quel fatidico 31 dicembre del 406, quando i Germani infransero la frontiera del Reno, scatenando la incredibile sequenza di eventi che conduce al sacco di Roma.
Detto questo, nonostante che la forza sia dell’America che di Roma fosse sostanzialmente intatta il day after, entrambe erano state colpite in qualcosa di più importante della loro forza economica e militare: erano state colpite nel loro senso del destino, nei loro miti e nei loro totem più cari. Lo stato Romano non morì nel 410 ma la ferita all’orgoglio romano fu profonda e non facilmente rimarginabile. I Romani erano assolutamente convinti del mito della predestinazione di Roma, e questo non era cambiato con i cristiani: non aveva aspettato il Cristo l’arrivo di Augusto, il fondatore dell’Impero, per camminare sulla terra? Nell’impero tutto nel cerimoniale di corte serviva a coltivare l’idea che Dio guidava l’umanità attraverso un imperatore mosso direttamente dalla sua mano.
La città di Dio, o quella degli Uomini?

Lontano, in Africa, viveva un grande vescovo e la mente più raffinata dell’epoca: sarà lui a incrinare e poi ribaltare tutte queste certezze. Si trattava ovviamente di Agostino. In risposta allo shock del sacco di Roma e alle accuse ai Cristiani di aver causato la grande sciagura, Agostino scrisse quello che è forse il suo capolavoro: “la città di Dio”. Nel libro Agostino demolisce pezzo per pezzo l’intera ideologia imperiale romana.
Innanzitutto Agostino smentisce le pretese di superiorità dei pagani. Roma aveva conosciuto immensi disastri anche quando era stata pagana: dov’erano ad esempio gli Dei quando Roma era stata saccheggiata e incendiata dai Galli di Brenno? Poi Agostino passa a demolire il patriottismo romano. I Cristiani fino ad allora si erano sentiti sempre prima Romani e poi Cristiani, aderendo anch’essi all’incrollabile ideologia del mito dell’invincibilità di Roma. Eppure per Agostino i Cristiani appartenevano anche e soprattutto alla città divina, alla comunità dei credenti, la Gerusalemme celeste, la dimora eterna dei Giusti: i musulmani, tra qualche secolo la chiameranno la “umma”, per i cristiani del medioevo sarà la Cristianità.
Nei primi libri della città di Dio Agostino prende questo concetto e lo porta alle estreme, dolorose conclusioni: in fin dei conti anche Roma, nonostante la sua illustre storia, è solo una città terrena come tutte le altre. Solo perché è arrivata a dominare il mondo tanto a lungo non vuol dire che sia eterna, solo perché ha avuto successo non è detto che questo sia dovuto all’ineguagliabili virtù degli antichi. Il dominio di Roma è derivato dalle condizioni della storia: l’impero è stato costruito sulla brama del potere e la passione del dominio. Roma, a forza di vincere, finì per chiamare Gloria l’esaltazione dei suoi delitti.
Agostino non condanna del tutto l’impero e tutta l’ideologia imperiale: sostiene solamente che anche l’Impero, anche Roma un giorno potrà scomparire: se dovesse cadere Roma, cadrebbe anche la comunità dei cristiani? La risposta per Agostino è un enfatico no. Il buon cristiano è un abitante della Gerusalemme celeste: anche se la città terrena dovesse perire il Cristiano sarebbe sempre, prima di ogni altra cosa, un cittadino della città di Dio. Nelle parole di Peter Heather “I cittadini della città celeste non possono offrire che una lealtà passeggera a qualsivoglia entità terrena, perché solo nel mondo a venire saranno veramente uniti. Nel sacco di Roma Agostino trova conferma della fondamentale illegittimità di tutte le città terrene e lancia un appello ai Cristiani affinché concentrino lo sguardo sulla vita a venire”. Non credo ci sia un passaggio logico più dirompente nella storia del pensiero Romano: Agostino è il vero padre spirituale e intellettuale del più importante concetto della civiltà medioevale: l’appartenenza di ogni cristiano ad una comunità di credenti superiore ad ogni stato terreno, comunità a cui si darà il nome della cristianità e che avrà bisogno, prima o poi, di una forte guida spirituale. E chi meglio del vescovo della città che è stata appena saccheggiata?
Eppure l’impero colpirà ancora
Eppure tutto questo è ancora al di là da venire, Agostino è più un profeta di un futuro prossimo che un araldo di un nuovo presente. Roma è caduta, ma l’Impero non ancora. Nel prossimo episodio parleremo di una improbabile storia d’amore tra il Re dei Goti e la principessa di dei Romani, di un bimbo che avrebbe potuto portare la pace tra Goti e Romani e di un generale e uomo politico Romano tanto grande quanto dimenticato, un uomo che riuscirà con la forza della sua incrollabile volontà a riportare Roma fuori dall’abisso: Flavio Costanzo.