Episodio 16, guerra sul Danubio (376-377) – testo completo

Dopo il nostro excursus per comprendere la storia dei Germani in generale e dei Goti in particolare e l’episodio che ci ha descritto l’evoluzione dell’esercito Romano nel quarto secolo credo che abbiamo posto le basi necessarie per riprendere la narrazione nel punto in cui l’avevo interrotta.

Le due nazioni Gotiche sono state sconfitte dagli Unni: molti dei Greutungi sono finiti sotto il tallone dei terribili nomadi venuti dall’Asia centrale. Il giudice dei Tervingi, Athanaric, si è rifugiato nei monti Carpazi. Alcuni tra i Greutungi, assieme ad Alani e perfino Unni disertori si sono diretti verso il territorio romano, al comando di Alatheus e Saphrax. Fritigern, il Goto cristianizzato amico di Valente, ha convinto il grosso del popolo dei Tervingi a migrare verso l’impero. Romani e Goti saranno presto costretti a vivere molto più a contatto di quanto entrambi avessero mai desiderato, gli effetti saranno disastrosi.

In alto il podcast, se lo volete ascoltare o riascoltare

L’IMPERO E I BARBARI: ACCOGLIENZA, INTEGRAZIONE E CONFLITTO

Oggi parleremo di un caso di migrazione e integrazione fallita: è una storia piuttosto triste di una serie di eventi che non era destino si dispiegassero come fecero. Prima di tutto sgombriamo il campo dagli equivoci: non si trattava di una novità. Il barbaricum era un mondo brutale e spesso capitava che una tribù o un popolo venissero sconfitti dai loro vicini e piuttosto che piegarsi agli invasori si rifugiassero nell’Impero, chiedendo direttamente asilo o invadendone le terre cercando di ricavarsi un nuovo territorio in cui vivere.

Da centinaia di anni i Romani avevano una chiara politica nei confronti dei barbari: se entravano nel territorio romano senza autorizzazione erano trattati da nemici e non venivano di solito massacrati, quando venivano inevitabilmente sconfitti. I più forti tra i barbari venivano arruolati nelle legioni ma senza formare unità autonome: venivano sparpagliati e divisi in modo da spezzarne l’unità etnica e linguistica. L’obiettivo era forgiare nuovi soldati fedeli soltanto a Roma. Il grosso del popolo sconfitto veniva però o venduto in schiavitù o installato in villaggi sparsi per tutto l’impero come coloni semiliberi. Così facendo si rimpolpavano le campagne imperiali di nuovi contadini produttori di reddito, in forma di tasse, e produttori di reclute, in forma di soldati. Il popolo sconfitto, grazie a queste misure, perdeva molto rapidamente la sua identità e veniva inglobato nell’Impero.

Altro caso era il popolo che chiedeva asilo politico: l’Impero era di solito accomodante a queste richieste. I Romani avevano una politica di accoglienza da secoli: è attestata almeno da Nerone. I Romani ne avevano chiari i benefici: come nel caso dei popoli sconfitti i popoli accolti nell’impero potevano fornire nuovi soldati e contadini contribuenti. C’era un beneficio anche per i cittadini privati: Il mondo Romano era una complessa economica a base monetaria dove per i contribuenti era possibile evitare la leva militare pagando l’equivalente in denaro del costo dall’arruolamento ed equipaggiamento di un soldato. I nuovi arrivati potevano evitare a migliaia di coloni e cittadini liberi romani la durezza della leva militare. In un paio di generazioni i popoli così accolti diventavano indistinguibili dagli altri cittadini romani, grazie ai meravigliosi effetti del prodigioso melting pot Romano: l’impero era sempre stato capace di accogliere barbari e sfornare in pochi anni fieri sudditi di Roma.

Eppure i Romani avevano capito che l’accoglienza dei migranti era comunque un affare pericoloso: alla fin fine si introduceva nel corpo dell’impero un gruppo di soldati armati e di scarsa fedeltà. Al fine di assicurarsi che tutto filasse liscio c’era a quanto pare una chiara procedura da seguire.

Le cronache di Ammiano Marcellino ci aiutano a capire cosa accadeva in questi casi. In particolare abbiamo un episodio accaduto durante il regno di Costanzo II. Nel 359 i Sarmati Limigantes, dopo essere stati probabilmente sconfitti dai loro vicini, chiesero asilo all’impero. I Sarmati attraversarono il Danubio al cospetto di un dispiegamento di forze romane impressionante, con il comitatus imperiale pronto a riceverli. Una volta portati di fronte all’imperatore il loro leader si gettò a terra, in un atto tipico del pomposo rituale imperiale, chiedendo perdono al rappresentante di Dio in terra. Quando Costanzo gli fece segno di alzarsi tutti i limiganti buttarono a terra le armi e gli scudi e supplicarono di essere accolti.

Si trattava ovviamente di un teatro preorganizzato che rispettava la forma che i romani volevano dare a questa cerimonia: i barbari dovevano essere visti dall’opinione pubblica imperiale come dei supplicanti e l’imperatore come un sovrano mosso a compassione. Eppure il cerimoniale aveva anche della sostanza: i Sarmati rinunciavano alle loro armi e accettavano di essere spediti in quanto coloni semiliberi in varie località dell’impero con l’obbligo di fornire reclute a richiesta dello stato. Molti tra i Sarmati sarebbero stati arruolati sul posto e inquadrati in unità di connazionali, ma con un ufficiale Romano. Aggiungo che qualcosa andò storto quella volta: non sappiamo cosa avvenne davvero – le fonti romane riportano ovviamente la versione ufficiale della propaganda imperiale – ma qualcosa nella cerimonia andò storto: i Germani protestarono, probabilmente per qualche condizione che non avevano del tutto digerito. L’esercito romano intervenne massacrarono i Sarmati, dimostrando che il dispiegamento di forze non era solo scena.

Abbiamo visto quindi che la procedura imperiale prevedeva una serie di passaggi atti a minimizzare i rischi dell’accoglienza massimizzandone i benefici: disarmo, atto di dedizione dei loro leader, dispiegamento di forze romane preponderanti, dispersione della tribù nell’immenso stato romano, inquadramento degli elementi più bellicosi nell’esercito

UNA FRONTIERA SGUARNITA

Capidava, uno dei forti romani sul Danubio

Niente di tutto questo accadde nel 376 dopo cristo, in quello che fu senza dubbio il più imponente tentativo di migrazione legale nell’Impero di un popolo del barbaricum. Certamente la responsabilità è anche nell’incompetenza dei Romani e un po’ nella malafede dei Goti, ma le ragioni sono un po’ più complesse.

Innanzitutto dobbiamo capire che i Goti si presentarono sul Danubio in un momento molto delicato per quella frontiera: come ho narrato Valente, dopo aver guerreggiato a nord del Danubio contro Athanaric, aveva concluso un accordo con il giudice dei Goti nel 369 per volgere il suo sguardo verso Shapur e gli iraniani. Da allora aveva fatto affluire rinforzi verso la frontiera orientale, in preparazione dell’inevitabile guerra tra Romani e Shapur, un dejà vu per molti di voi. La rivolta di Quadi e Sarmati che tanti grattacapi aveva dato a Valentiniano, fino all’epica sfuriata che aveva posto fine alla sua vita, aveva ulteriormente indebolito l’esercito di Tracia: Valente aveva inviato rinforzi al fratello per sedarla. Un popolo di montanari dalle tendenze brigantesche, gli Isauri, avevano creato ulteriori problemi. La combinazione di questi fattori fece si che, quando i Goti di Fritigern si presentarono sul Danubio, la frontiera Danubiana fosse decisamente sottorganico mentre il grosso del Comitatus di Valente era con lui ad Antiochia, in preparazione della spedizione in oriente.

UNA MIGRAZIONE DI MASSA

Ammiano e gli altri storici dell’epoca come Eunapio, Zosimo e Orosio sono unanimi nel riportare la felicità di Valente nello scoprire che un popolo bellicoso si era presentato alle sue porte, richiedendo asilo: ecco l’occasione ideale per rafforzare le sue armate sia per la guerra persiana che per una possibile guerra civile, pensò Valente. Inoltre suo fratello, Valentiniano, era morto e chissà cosa sarebbe potuto succedere in occidente, ora che le insegne imperiali erano state affidate ad un ragazzino – Graziano – e un poppante – Valentiniano II. Eppure sia Wolfram che Heather – le mie principali fonti moderne per questo periodo – sono convinti che questa sia solo una ricostruzione ex post per giustificare il disastro che ne seguì.

Cerchiamo di ricostruire cosa avvenne, precisando che è una ricostruzione e non una certezza storica: appena i Tervingi di Fritigern e i Greutungi di Alatheus e Saphrax arrivarono sul Danubio un messaggero e una ambasceria dei Goti furono inviate con il favoloso sistema di posta imperiale ad Antiochia, dove giunsero nel giro di poche settimane: Lupicino, il Comes a capo della Tracia chiedeva istruzioni all’imperatore, sottolineando i rischi potenziali della situazione: non aveva davvero le truppe per impedire ai Goti di passare, se lo avessero voluto con determinazione. I Goti spiegarono la loro situazione e chiesero di essere ammessi all’interno dell’impero, ponendo però condizioni straordinarie dovute anche alla loro forza: non erano i Sarmati Limigantes e non si sarebbero piegati a farsi inviare come contadini semiliberi in giro per l’impero, disarmati e con l’obbligo alla leva. No: chiedevano di essere ammessi e sistemati in Tracia, la regione confinante con il loro paese e dove già vivevano i Goti cristiani di Ulfila. Pretendevano di non essere disarmati ma si impegnavano ad essere inquadrati nell’esercito romano, combattendo la guerra di Valente.

LO STATO MAGGIORE DI VALENTE PRENDE UNA DECISIONE GRAVIDA DI CONSEGUENZE

Solido di Valente

Mi immagino Valente e il suo stato maggiore soppesare la questione in una tesa riunione. Proviamo ad immaginarcela, precisando che si tratta di una ricostruzione di fantasia, ma che credo rispetti nello spirito quello che avvenne davvero.

“Siamo qui, pronti alla guerra con il nostro nemico principale, la Persia. Non possiamo distrarci dal nostro obiettivo finale. Lupicino, il Comes della Tracia, dovrà gestire questa cosa da solo” disse il Magister per Orientem.

“I Goti non sono un nemico preoccupante, li abbiamo sconfitti in tutte le recenti guerre: il loro popolo è diviso, solo gli uomini che seguono Fritigern si sono presentati, Athanaric è fuggito chissà dove. Non vedo perché dovremmo trattarli in modo speciale” aggiunge Iulius, il Magister Equitum.

“Comunque sia” sostiene Valente “non possiamo ignorare la minaccia che pongono: potrebbero causare problemi proprio ora che abbiamo bisogno di ogni soldato per la guerra in oriente. Va detto poi che Fritigern è un uomo di cui ci possiamo fidare, ci ha aiutati nella recente guerra ed è anche un seguace di nostro signore Gesù. Questi altri Goti invece, i Greutungi, sono dei selvaggi che vivono nelle steppe Scite. Non sappiamo nulla di loro e non sono certamente degli amici del popolo Romano”. “Sire” aggiunse il Comes dei Domestici, il capo della guardia imperiale “Non siamo soli in questa faccenda, chiediamo aiuto a Graziano: potrà mandare rinforzi a Lupicino per gestire la migrazione. Comunque sia la situazione militare non ci permette di applicare la nostra procedura standard”

La decisione dello stato maggiore fu in linea con questa conversazione immaginaria: un messaggero tornò da Lupicino con delle istruzioni chiare, che applicavano la vecchia e testata politica romana del divide et impera. Solo i seguaci di Fritigern sarebbero stati accolti nell’impero per essere insediati in Tracia, come erano stati insediati lì – e con grande successo – i Goti di Ulfila. I Greutungi invece furono lasciati fuori dalla porta e la flotta fluviale e tutte le truppe disponibili furono inviate a far sì che rimanessero bloccati sulla riva settentrionale del Danubio: un popolo di Goti nell’impero bastava e avanzava. Come misura aggiuntiva di fedeltà e romanizzazione dei più romanizzati dei Goti, i Tervingi, fu richiesto un atto di conversione almeno formale al cristianesimo da parte della loro leadership.

Criticamente però, a differenza di altre migrazioni, veniva concesso all’intero popolo di migrare in una sola regione, la Tracia. Non sappiamo invece se ci fu l’ordine di disarmare i Goti: alcune fonti sostengono di sì e che i Goti si rifiutarono di farlo. Mi pare più probabile che invece i Goti ottennero l’autorizzazione di passare armati perché questa fu una delle condizioni che strapparono a Valente, troppo impegnato in oriente per fare l’unica cosa che avrebbe convinto i Goti a rinunciare alle loro armi: marciare verso il Danubio con il suo Comitatus, imponendo il volere di Roma grazie alla sua forza soverchiante. I Tervingi, d’altro canto, si impegnarono a combattere le guerre di Valente e un gruppo tra di loro fu direttamente arruolato.

GESTIRE IL RISCHIO

Valente credo fosse consapevole che si trattava di una situazione incendiaria, con migliaia di Goti armati nel territorio dell’impero e troppe poche truppe a dissuaderle. Prese quindi delle contromisure per evitare che la situazione finisse fuori controllo: Temistio, il retore che era uno dei bracci destri dell’imperatore, è attestato a Roma quello stesso inverno del 376-377. Chiaramente era stato inviato in Italia, probabile che fece da ambasciatore presso Merobaude e Graziano: Valente chiese ai sovrani dell’occidente l’invio di rinforzi, in modo da tenere sotto controllo la situazione in Tracia. Rinforzi che puntualmente arrivarono in Tracia già nell’estate del 377. Inoltre Valente diede ordine a Lupicino di portare tutte le derrate alimentari del raccolto del 376 al sicuro dentro le mura delle città della Tracia: i Goti si erano portati dietro sicuramente dei viveri per la migrazione ma una volta finite le loro scorte sarebbero stati alla mercé delle autorità romane: era questa potenzialmente una potente leva per convincerli a rigare dritto, finì invece per essere la miccia della rivolta.

LA GRANDE TRAVERSATA DEL DANUBIO

Rappresentazione di fantasia dell’attraversamento dei Goti del Danubio. Siamo sulla sponda Romana e i Goti continuano ad attraversare il fiume

I Tervingi furono dunque fatti entrare nell’impero e la scena ci è stata descritta da diversi storici: segno che percepirono questo evento come uno spartiacque della loro storia. Un intero popolo, donne, vecchi, bambini oltre ai fieri guerrieri Goti furono caricati sui trasporti romani e passarono la frontiera. “I Goti venivano trasportati in schiere oltre il fiume, giorno e notte, su navi, zattere e tronchi appena scavati” dice Ammiano. Pare che nella fretta di abbandonare le pericolose rive settentrionali i Goti misero in pericolo la loro stessa vita, ancora il nostro storico: “poiché il Danubio è un fiume assai pericoloso e per di più era gonfio di molte piogge molti di loro perirono annegati mentre, a causa della grande massa di gente, tentavano di attraversare contro corrente e a nuoto”. Per gestire quell’immensa massa di persone i burocrati statali provarono a tenere il conto dei nuovi arrivati, registrandoli allo sbarco, in una sorta di replica antica di Ellis Island, l’isola dei migranti nella baia di New York. Ma i Goti erano troppi e dopo un po’ si arresero: è difficile dire quanti fossero i Tervingi, ma probabilmente si trattava di almeno 50 mila uomini, forse perfino 100 mila, con una forza militare tra i 10 e i 20 mila uomini.

Ammiano non aveva alcuna simpatia per i Goti, come vedremo, ma le sue pagine sono punteggiate di passi dove dimostra notevoli dosi di empatia sia per la tragedia che aveva colpito questo popolo sia perfino per le loro ragioni. Ammiano ha però le idee ben chiare sull’effetto finale della grande migrazione: “mentre tentavano di attraversare le autorità si impegnarono con somma cura perché non rimanesse indietro nessuno di quelli che avrebbero distrutto lo stato romano”. È palpabile la sua irritazione e il suo sdegno per una decisione funesta. Nonostante tutto il giudizio di Ammiano mi pare ingeneroso e frutto del senno di poi. Non era scritto che finisse male: decine di popoli erano stati accolti nell’impero con grande successo. I Goti si sentivano genuinamente in alleanza con l’Imperatore e si comportarono onestamente: accettarono di accamparsi in un povero centro profughi in attesa delle istruzioni imperiali.

GIOCARE CON IL FUOCO, CIRCONDATI DALLA BENZINA

Arrivati a questo punto dobbiamo inevitabilmente parlare del disastro che fu la gestione dei migranti da parte degli ufficiali Romani a ciò preposti. Dice Ammiano “la gravità della situazione avrebbe richiesto comandanti militari assai famosi per le loro imprese ma, come se una divinità avversa li avesse scelti, si trovavano invece al comando degli eserciti uomini macchiati dal disonore tra i quali si distinguevano il Conte Lupicino e il generale Massimo”.

Questi due gentiluomini, avendo costatato che la fame già serpeggiava nell’accampamento profughi e che erano loro a controllare tutte le derrate alimentari della regione, decisero che questa fosse un’occasione imperdibile per arricchirsi. Durante l’inverno del 377 costruirono un profittevole commercio di generi di prima necessità – spesso carne immangiabile – in cambio di tutti gli averi mobili dei Goti e, una volta che i Goti furono ridotti in miseria, in cambio della vendita dei loro figli come schiavi. La furia dei Goti andò montando: erano un popolo fiero, abituato ad essere libero. Avevano attraversato il fiume con l’autorizzazione e il beneplacito dell’imperatore che si era impegnato a sfamarli. Ora invece venivano affamati – probabilmente a bella posta – e costretti alle più turpi azioni possibili per sopravvivere. L’uomo davvero non cambia mai.

A questo punto avviene qualcosa che ha dell’inspiegabile ma che in realtà ha una sua logica: il conte Lupicino decise che non poteva più controllare la situazione visto che i Goti parlavano apertamente di ribellione se non si fosse posto rimedio alla loro terribile situazione. Lupicino, per dare un segnale ai Goti, decise di marciare i Tervingi verso la capitale militare della regione, Marcianopoli, nella moderna Bulgaria. Probabile che promise che una volta lì sarebbe iniziata la distribuzione delle terre e delle provviste ai Tervingi.

Il problema era che Lupicino non aveva truppe in numero sufficiente a gestire il trasporto dei Goti e fu costretto a ritirare le truppe che pattugliavano il Danubio, impedendo ai Greutungi di passare. La marcia fu probabilmente un tormento per gli affamati Goti e va detto ad onore delle nostre fonti romane, non solo Ammiano, che tutte sono unanimi nel deplorare il trattamento inumano dei migranti che non erano un popolo sconfitto ma immigrati legalmente accolti dallo stato romano.

I TORMENTI DI UN FUNZIONARIO

Una volta che videro che le guarnigioni a guardia del Danubio non c’erano più i Greutungi di Alatheus e Saphrax, con i loro alleati, decisero di passare il fiume illegalmente: non sarebbero rimasti a nord del Danubio in attesa di vedere gli Unni piombare sui loro cari per farli schiavi o perfino a pezzi. I Romani potevano tenersi le loro regole e le loro leggi, loro si sarebbero uniti ai cugini.

Probabile che Fritigern ricevette notizia del passaggio illegale del fiume da parte dei Greutungi e comprese che sarebbe stata utile avere il doppio delle spade nella futura negoziazione con l’impero. Decise quindi di rallentare il più possibile la marcia, in modo da dare il tempo agli altri Goti di raggiungerli, cosa che puntualmente avvenne. Ora la situazione era davvero incendiaria: i Romani erano in disperata inferiorità numerica, in caso di guai. Alla fine Goti e Romani arrivarono sotto le mura di Marcianopoli. Ovviamente le autorità civili Romane della città non vollero saperne di aprire le mura a questa massa di potenziali saccheggiatori chiaramente non del tutto sotto il controllo delle truppe Romane. Le porte rimasero chiuse in faccia agli affamati, stanchi e disperati Goti.

I soldati Romani si schierarono a difesa delle mura di Marcianopoli mentre i Goti protestavano vivamente: erano oramai sudditi dell’imperatore e in pace con i Romani. Avevano necessità di entrare in città per procurarsi da mangiare. La situazione divenne incandescente e Lupicino ebbe la brillante idea di invitare i principali capi dei Goti a cena, in città, per discutere della faccenda. Mentre Fritigern e i suoi si rifocillavano scoppiò però la rivolta: i Goti erano arrivati all’esasperazione e cercarono di entrare in città con la forza, i Romani sguainarono le spade e ci fu una breve battaglia nella quale i soldati rimasti fuori città furono massacrati dai Goti inferociti. Un messaggero riferì l’accaduto di nascosto a Lupicino. Il manuale del perfetto governatore romano era chiaro su cosa fare a questo punto: o cercare immediatamente di calmare le acque o tagliare la testa della ribellione, uccidendone i potenziali capi. Lupicino sembrò protendere per la seconda soluzione e, in stile “nozze rosse” del trono di spade, fece uccidere le guardie che erano venute con i capi dei Goti e si impadronì di questi ultimi. A questo punto però ebbe una fatale esitazione: nel frattempo erano arrivati altri messaggeri che facevano presente che i Goti fuori delle mura erano sempre più irritati di non vedere tornare i loro principi. Mi immagino Fritigern approcciare Lupicino: “Conte, la situazione vi è sfuggita di mano. Io sono l’unico che può riportarla sotto controllo: lasciatemi tornare al mio popolo: sarà un atto dimostrativo della vostra generosità e comprensione. Sarà mio compito far capire ai miei che non c’è speranza nella ribellione a Roma”. Lupicino era probabilmente sul punto di rottura: la sua carriera era in bilico, un passo falso e sarebbe stata l’ignominia. Fritigern gli dava l’occasione di rimettere, forse, tutto in sesto.

Fritigern fu quindi liberato e andò immediatamente dai suoi: qui si guardò intorno e capì immediatamente, dai corpi dei romani sparsi a terra, che il dado era già tratto. Il suo popolo era furioso del trattamento riservatogli dai Romani e Fritigern aveva ben presente che era stato lui a convincerli a venire in Romania. Aveva solo due opzioni: cavalcare la tigre o esserne sbranato. Salì a cavallo e dichiarò che i Romani avevano rotto i patti: era la guerra.

MASSACRO A MARCIANOPOLI

Mia mappa dei primi due anni di guerra gotica, fino alla battaglia “ai salici”

Il primo obiettivo strategico di Fritigern e i suoi fu di procurarsi il sostentamento: squadre di razziatori si scagliarono su tutta la provincia della Moesia seconda, la provincia di Marcianopoli tra i monti Balcani e il Danubio. Le case di campagna furono razziate e bruciate, tutto quello che i Goti poterono asportare fu asportato e rifugiati romani cominciarono a spargersi ovunque in direzione della sicurezza delle città fortificate, a ben ragione come vedremo.

Lupicino a questo punto aveva fatto la frittata. Il manuale del bravo Comes prevedeva che informasse l’imperatore del fattaccio prima di prendere ulteriori iniziative. Il nostro Comes però desiderava riportare l’ordine prima che la notizia arrivasse a Valente: tutti noi ci siamo trovati in una situazione simile, quando di fronte a un disastro abbiamo sperato di poterci nascondere sotto un cuscino o creduto che metterci una pecetta potesse risolvere la questione. Lupicino, invece di chiedere consiglio e aiuti, cercò di fare da solo in modo da compensare il disastro di Marcianopoli con la notizia che aveva già sconfitto i riottosi Goti.

Raggranellò quante più truppe potesse trovare in breve tempo, considerando che il grosso dei soldati era acquartierato in località sparse della provincia e non poteva essere concentrato in fretta. Probabilmente marciò contro i Goti con la sola guarnigione di Marcianopoli e di qualche città vicina. Forse qualche migliaio di soldati in tutto: erano meno dei Goti, ma soldati professionisti, ben armati, abituati a fare con regolarità a pezzi i vicini settentrionali.

La battaglia si svolse a sole 9 miglia da Marcianopoli. I Goti sapevano di essere uomini con le spalle al muro: se avessero perso sarebbero stati massacrati e i loro figli e le loro mogli sarebbero stati venduti come schiavi. Combatterono con la furia del serpente nell’angolo e vinsero la loro battaglia: caddero i tribuni a capo dei reggimenti romani e le truppe di Lupicino furono massacrate. Lupicino, visto il disastro, decise di sacrificarsi e affondare con la nave da buon capitano, suicidandosi di fronte all’avanzata dei Goti. Ah, ci siete cascati! Vi pare qualcosa in linea con il carattere del nostro Comes? Ovviamente ai primi segni di cedimento dei suoi Lupicino se la diede a gambe levate per salvare la sua pellaccia.

I goti saccheggiarono i corpi dei nemici sconfitti e si rivestirono con le splendide armi e armature dei Romani: erano sopravvissuti per vedere un altro giorno e le truppe Comitatensi della Tracia erano sparse sul campo di battaglia. Le guarnigioni limitanee dei Romani non avevano nessuna speranza di sconfiggerli. Ora non c’era nessuno, a nord di Costantinopoli, che potesse davvero fermarli.

MONTA LA RIBELLIONE

La prima vittoria dei Goti in più di un secolo su territorio Romano fu un segnale: i Goti che erano stati recentemente schiavizzati si ribellarono e si unirono a Fritigern. Due reggimenti di mercenari Goti acquartierati ad Adrianopoli ricevettero l’ordine di marciare in tutta fretta verso l’Asia Minore, probabilmente per allontanarli dai connazionali in rivolta. I mercenari vollero ubbidire ma chiesero ai magistrati di avere i consueti rifornimenti necessari alla marcia. Questi si rifiutarono di consegnarli e chiusero le porte in faccia ai Goti, armando i cittadini per difendere le mura. I Goti, spaventati e con il legittimo sospetto che se avessero ubbidito agli ordini dell’imperatore sarebbero stati massacrati sulla via dalle truppe Romane, disertarono e si unirono ai rivoltosi. Perfino molti cittadini Romani – contadini semiliberi sfruttati dai loro padroni e altri membri delle classi più umili dell’impero – si unirono ai rivoltosi: come abbiamo visto nel caso dei Bagaudi lo stato Romano era caratterizzato da una iniquità colossale e vivere sul fondo della piramide sociale lasciava decisamente a desiderare. Unirsi a dei Goti era una prospettiva allettante per alcuni: questi nuovi venuti si fecero da guida delle bande razziatrici gotiche.

I Goti arrivarono persino sotto le mura di Adrianopoli e cercarono di conquistare l’importante città della Tracia, che custodiva importanti ricchezze. Come ho spiegato però nello scorso episodio le città romane del quarto secolo avevano ricevuto un impressionante upgrade delle loro capacità difensive, con mura più alte e spesse e bastioni semicircolari adatti all’uso dell’artiglieria da assedio. I Goti erano dei feroci combattenti ma a nord del Danubio non c’era niente del genere e non avevano idea di come conquistare la città. In un discorso diventato celebre, dopo che molti dei suoi perirono per cercare di prendere Adrianopoli, Fritigern disse che era inutile fare guerra alle mura: i Goti avrebbero dovuto continuare a razziare le campagne e lasciare in pace le imprendibili città romane.

ARRIVANO I RINFORZI

Finalmente Valente venne informato del disastro e inviò delle truppe dall’Armenia al comando di due carneadi: la risposta di Valente dimostra che stava ancora sottovalutando il problema, visto che si rifiutò di muoversi da Antiochia e di portare le sue truppe migliori in Europa per soffocare la rivolta. Per fortuna per lui l’ambasciata di Temistio a Milano aveva prodotto i suoi frutti e dall’occidente arrivarono rinforzi: al loro comando c’era il Comes Domesticorum, il comandante in capo della guardia imperiale occidentale, ovvero il franco Richomeres. Siamo arrivati alla primavera del 377, l’anno del consolato di Graziano e Merobaude.

Le forze combinate di occidente e oriente riuscirono a spaventare i razziatori Goti al punto da costringerli a riunirsi in un unico gruppo che si spostava con i suoi carri e tutti i familiari. Durante la notte i Goti proteggevano il campo mettendo i carri in un cerchio, in un accampamento che loro chiamavano carrago. Si trattava solo dei Tervingi: non è chiaro cosa successe ai Greutungi ma pare che dopo la prima battaglia a Marcianopoli tornarono al nord del Danubio: non preoccupatevi, li ritroveremo presto. I Tervingi si ritrovarono intrappolati nella Dobruja, la regione stretta tra la grande ansa che fa il Danubio prima di sboccare nel Mar Nero: un angolo sperduto dell’impero, praticamente steppa non coltivata e senza grandi potenzialità di rifornimento. Quel che è peggio è che questa regione è circondata su tre lati dall’acqua: il mar Nero a est e il Danubio a nord e Ovest. I Tervingi erano in trappola.

I Romani bloccarono i Goti in questo angolo sperduto dell’impero: questi si ritrovarono con le spalle al muro: avrebbero potuto combattere o avrebbero potuto a questo punto tentare di abbandonare il territorio imperiale. I Romani avrebbero potuto mantenere il blocco fino a che i Goti si fossero arresi per fame o invitarli a passare il Danubio ma i comandanti dell’esercito volevano probabilmente vendicare i commilitoni. Richomeres e gli altri generali Romani decisero di assalire i Goti quando questi si fossero messi in moto verso nord e il Danubio, in modo da colpire la retroguardia e con un po’ di fortuna recuperare un po’ delle ricchezze trafugate dai Goti. Questa notizia fu però riferita a Fritigern da uno dei soliti disertori.  I Tervingi si erano fermati nel loro classico accampamento di carri in una località chiamata “ad salices” o “ai salici”, nella moderna Romania.

APPUNTAMENTO SOTTO I SALICI PIANGENTI

Il giorno dopo, anticipando i Romani, i Tervingi uscirono dall’accampamento armati di tutto punto e pronti alla battaglia mentre i corni dei Romani suonavano l’allarme. I Tervingi si schierarono su una collina e i Romani si affrettarono a dispiegare il loro esercito che era probabilmente in leggera inferiorità numerica ma che poteva contare sulla saldezza, professionalità e disciplina dei soldati Romani. Ecco cosa avvenne nelle parole di Ammiano “I combattenti si guardavano reciprocamente con sguardi torvi e feroci. I Romani lanciavano all’unisono d’ogni parte il grido di guerra, il barritus, che, debole da principio, cresce a poco a poco. I barbari invece con urla selvagge celebravano le lodi dei loro antenati e in mezzo al clamore delle diverse lingue s’ingaggiavano scaramucce”.

La battaglia iniziò con il consueto lancio di dardi e poi si venne ad un brutale corpo a corpo: i soldati Romani impiegarono le tecniche di cui ho parlato nello scorso episodio, utilizzando le lance e le armi da assedio per spingere i nemici a cedere e volgersi in fuga, cosa che era sicuramente già successa molte volte. Ma i Goti non erano nelle stesse condizioni del passato: erano stretti in un angolo, avevano bruciato i ponti dietro di loro e questa battaglia era ancora una volta un caso di vita o di morte per loro e il loro popolo. Combatterono con ferocia e provarono persino ad utilizzare delle macchine di artiglieria catturate ai Romani. Sotto la spinta incessante delle loro spade l’ala sinistra dello schieramento Romano cedette ma le riserve riuscirono a bloccare l’avanzata dei Goti. La notte sorprese i due eserciti mentre la battaglia era ancora indecisa, ponendo fine agli scontri. A differenza del solito i Romani avevano subito molte perdite e indubbiamente le subirono anche i Goti, che si rintanarono nel loro accampamento e non ne uscirono per una settimana, leccandosi letteralmente le ferite.

SE NON PUOI BATTERLI, PRENDILI PER FAME

Richomeres e i due Carneadi capirono però che in seguito alla battaglia non avevano le forze per un secondo scontro, che avrebbe potuto essere fatale per le armi romane. Decisero quindi una nuova strategia: si sarebbero ritirati dietro i Balcani e avrebbero lasciato ai Goti le terre tra questi monti e il Danubio, oramai rovinate dalla guerra e le cui città ben difese e ben fornite di viveri potevano resistere alle orde Gotiche. I Romani decisero di fortificare i cinque passi che separavano la Moesia – la regione a nord dei Balcani – dalla Tracia e le ricche terre intorno a Costantinopoli. Con un po’ di fortuna i barbari sarebbero morti di fame o di freddo in quella terra devastata, oppure se ne sarebbero andati via da soli. Si era alla fine della stagione di guerra e Richomeres fece ritorno in Gallia, promettendo di ritornare l’anno seguente con maggiori rinforzi da parte dell’impero d’occidente.

Fritigern, oramai padrone della Moesia – o almeno delle sue campagne – non era però uno stupido barbaro. Dopo la battaglia ai Salici aveva a disposizione un notevole bottino saccheggiato ai Romani e la fama di uno che riusciva ad affrontarli sul campo. Con le nuove reclute la bilancia militare – in equilibrio precario nella regione – pendette di nuovo a favore dei Goti. A questo punto il comandante delle truppe orientali – Saturnino – decise che non era più possibile tenere i passi e così fu costretto a ritirarsi. In quell’inverno del 377-378 I Goti, trionfanti, fecero irruzione nelle ricche terre a sud dei Balcani: la regione di Costantinopoli, una delle più ricche dell’impero. Quest’inverno non sarebbero morti di fame, anzi. Avrebbero portato la guerra alle porte della capitale dell’Impero. Valente, in oriente, capì che non c’era più nulla da fare. Inviò un messaggero per intavolare trattative di pace con Shapur e iniziò i preparativi per portare l’esercito da campo d’oriente, il suo comitatus, le sue truppe palatine e la sua guardia, a combattere nei Balcani.

Nel prossimo episodio Valente giungerà in Tracia e organizzerà una missione militare congiunta dei due Imperi Romani. All’ultimo momento deciderà però di giocare tutto alla roulette di una battaglia senza precedenti.

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