Episodio 9: Anabasi (363) – testo completo

In alto: percorso di Giuliano nel 363

Salute e salve! E benvenuti alla Storia d’Italia! Come sapete ogni tanto pubblico la trascrizione dei miei episodi in Podcast, ecco uno dei più famosi, l’episodio dedicato alla missione di Giuliano in Persia.

Vi preannuncio che questo episodio sarà piuttosto lungo: non volevo interrompere il pathos della narrazione tagliando l’episodio in due! Nello scorso episodio abbiamo visto Giuliano meritarsi l’appellativo di “apostata” e l’amore imperituro delle future generazioni di Cristiani: con una serie di editti e decisioni politiche Giuliano ha iniziato il suo processo di marginalizzazione della religione cristiana e di rilancio di un nuovo paganesimo semi-monoteistico di inspirazione neoplatonica.

Giuliano non ebbe però il lusso di osservare platonicamente l’effetto delle sue decisioni: la guerra incombeva. Si tratta della guerra provocata dalla Zio Costantino e che negli ultimi decenni, nell’alternarsi degli imperatori, ha sempre avuto un unico nemico: Shapur II detto il Grande, Re dei Re, sovrano di Iranshahr e nemico implacabile dei Romani.

Senofonte, il celebre storico greco, narrò in prima persona l’Anabasi: Anabasi vuol dire viaggio verso l’interno, in questo caso il centro delle terre del grande impero persiano. Senofonte e diecimila mercenari greci combatterono per l’usurpatore Ciro e una volta che Ciro fu sconfitto dal re dei re, Artaserse, finirono per ritrovarsi in quello che per loro era il centro dell’Asia, circondati da un impero ostile. In questo episodio Giuliano ripercorrerà i passi dei mercenari greci di Senofonte, anche lui con uno storico-guerriero alle calcagna, il nostro Ammiano Marcellino. E questo è quello che faremo oggi, una nuova Anabasi verso il cuore dell’impero dei Re dei Re.

Quel che restava nell’800 della grande sala del trono di Ctesifonte. Si tratta della più grande volta in muratura mai costruita.

La guerra con l’Iran era la preoccupazione strategica principale dello stato Romano. Le frontiere danubiane e renane erano importanti, certo, ma la ricchezza dell’impero era nelle sue province orientali: l’Asia Minore, la Siria e soprattutto l’Egitto, la fonte inesauribile del grano che sfamava le capitali dell’impero. Queste province erano esposte alla minaccia persiana.

Giuliano mise termine al suo infelice soggiorno in Antiochia e marciò verso oriente con un immenso esercito forte di 65.000 tra i migliori soldati dell’Impero, presi dalle truppe mobili imperiali, il Comitatus. Molti di loro erano venuti perfino dalle lontane Gallie con Giuliano, inizialmente per combattere per lui nella guerra civile con Costanzo. Come detto siamo molto fortunati perché tra la moltitudine dei soldati ce ne era uno speciale, il nostro Ammiano Marcellino, il più grande storico della tarda antichità: si tratta di uno dei rari casi di testimonianza diretta di una campagna militare di questo periodo. Andrò quindi un po’ nel dettaglio delle cose, una volta tanto che abbiamo il lusso dell’abbondanza di informazioni credibili su quello che avvenne.

Come detto Giuliano decise di abbandonare la politica di contenimento adottata da Costanzo e nella primavera del 363 dopo cristo iniziò una concertata campagna di aggressione verso l’impero dei Persiani. Prima di parlarne cerchiamo di capire un po’ la geografia dei luoghi che attraverseremo, ovvero la Mesopotamia, l’antica patria degli imperi Assiro e Babilonese. Mesopotamia – come penso quasi tutti sapranno – vuol dire terra tra i fiumi. I fiumi in questione sono l’Eufrate e il Tigri. L’Eufrate è quello più occidentale e tradizionalmente demarcava il confine tra l’Impero Romano e gli imperi orientali, anche se non ai tempi di Giuliano, come vedremo. Il Tigri scorre più a est e sulle sue rive si trovava a quei tempi la grande capitale dell’Iranshahr, ovvero Ctesifonte. Entrambi nascono dai monti dell’Asia minore e attraversavano quello che allora era il regno dell’Armenia, un regno montano di confine tra Roma e Iran, largamente cristianizzato e che da decenni era nell’orbita politica romana. L’Armenia antica era molto più vasta della piccola nazione armena moderna e comprendeva buona parte delle terre tra l’Eufrate e il mar Caspio.

Una volta attraversate le montagne i due grandi fiumi sboccano su una fascia pedemontana abitabile a cavallo tra le moderne Siria, Iraq e Turchia. Questa fascia era dove si concentravano tradizionalmente le sfide militari tra Persia e Roma, visto che si tratta di un’area facilmente transitabile, a differenza delle montagne dell’Armenia, e senza problemi di approvvigionamento, a differenza del deserto siriano più a sud. Deserto quasi impassabile che formava la gran parte del confine tra i due imperi e che oggi è l’ampia area di confine tra Iraq e Siria. La fascia abitabile tra il deserto e le montagne, la Mesopotamia settentrionale, era stata conquistata da Diocleziano e fortemente fortificata. In particolare la grande fortezza di Nisibis era la chiave di volta del sistema di difesa costruito da Diocleziano per imbottigliare i persiani in Mesopotamia e impedirgli di invadere l’oriente romano, come avevano fatto con devastante successo durante la crisi del terzo secolo. Lo sapeva bene Shapur che aveva assediato Nisibis senza successo tre volte.

Giuliano, una volta attraversato l’Eufrate, marciò con l’esercito verso Carre, nella Mesopotamia Romana. Qui Crasso era andato a morire ai tempi in cui era un triumviro assieme a Cesare e Pompeo, in uno dei più gravi disastri militari della storia romana. Una volta a Carrae Giuliano divise il suo esercito in due parti, la parte maggiore l’avrebbe seguito mentre l’altra, forte di 30 mila uomini, fu messa al comando di un certo Procopio, suo lontano parente e futuro usurpatore imperiale. Il compito di Procopio era di attaccare l’Iran nella direzione che probabilmente Shapur si attendeva, ovvero attraverso la Mesopotamia e il Tigri, di gran lunga la via più agevole per raggiungere Ctesifonte e il cuore dell’impero persiano. Procopio avrebbe dovuto attirare il grosso dell’esercito persiano, devastare per quanto possibile i territori al di là del Tigri e se possibile ricongiungersi con il re Arshak dell’Armenia, che aveva promesso aiuti per la campagna militare di Giuliano. L’apostata però non aveva nessuna intenzione di attaccare la Persia dove si attendeva Shapur: con i restanti 35 mila uomini decise infatti di dirigersi verso sud e tornò sull’Eufrate. Lì l’esercito fu raggiunto dall’arma segreta che Giuliano aveva fatto preparare durante l’inverno: ovvero una immensa flotta di 1000 navi da trasporto logistico e 50 navi da guerra, con relativi marinai. Le navi erano state costruite con uno sforzo che è facile considerare titanico. Dalle sabbie del deserto uscirono inoltre alcuni re e tribù Arabe per unirsi ai Romani, che non ne apprezzavano molto le capacità militari ma li consideravano i migliori esploratori del mondo.

Il piano di Giuliano era infatti ambizioso: si trattava di ridiscendere l’Eufrate, conquistando e devastando alcune delle aree più ricche dell’impero persiano. La flotta sul fiume avrebbe avuto il compito di fornire supporto logistico, sia per i materiali da guerra che per le vettovaglie. I Persiani non avevano nulla del genere a disposizione come difesa sui fiumi e si sarebbero attesi un attacco dal Tigri, non dall’Eufrate. In più come detto le forze di Procopio erano state inviate per attrarre Shapur fuori dalla Mesopotamia.

L’esercito, una volta pronto, varcò la frontiera: i soldati passarono presso l’antica città-fortezza di Dura Europos: una città morta che era stata un tempo una importante città romana ma che era stata conquistata dagli Shah ai tempi della crisi del terzo secolo e da allora abbandonata. Dalle pagine di Ammiano si percepisce il senso di avventura e scoperta di un mondo alieno che si spalanca di fronte agli ignari soldati. Il primo obiettivo è una città-isola fortificata sul fiume, Anathas. Da questo punto in poi l’armata combinata di terra e di fiume discese l’Eufrate devastando le campagne e occupando una serie di città rese spettrali dall’abbandono degli abitanti: non c’era nessuna forza militare in Mesopotamia in grado di fermare l’esercito di Giuliano e gli abitanti fuggivano alla vista dell’esercito. Una volta che i Romani giunsero nel cuore della Mesopotamia i persiani tentarono di rallentare l’avanzata dell’armata d’invasione rompendo gli argini delle canalizzazioni e inondando i campi, ma i Romani erano ancora i Romani e superare un ostacolo naturale attraverso l’abilità dei loro genieri era la loro specialità.

La prima vera resistenza si ebbe a Peroz-Sabur, o Pirisabora secondo i greci, una città a sole 50 miglia da Ctesifonte, l’obiettivo della campagna militare. Peroz-Sabur era la seconda città più importante della Mesopotamia dopo la capitale. Presidiata da un forte distaccamento dei persiani, la città offriva potenzialmente una robusta difesa. Tuttavia le mura furono presto distrutte dalle macchine d’assedio dei romani. La guarnigione si ritirò in una cittadella interna mentre il nemico iniziava il saccheggio della città, ma i persiani si arresero dopo appena due giorni di assedio, alla vista della terribile Helepolis, la torre d’assedio mobile costruita dai Romani per l’occasione. Pirisabora fu bruciata e devastata senza pietà dalla soldatesca, che ben ricordava il trattamento dei persiani nei confronti di Amida, catturata quattro anni prima. Il bottino della città fu distribuito da Giuliano all’esercito.

L’esercito continuò la sua marcia verso sud e giunse ad assediare Maiozamalcha, a soli 11 miglia da Ctesifonte. Lì per poco Giuliano non fu colpito dal disastro, a causa della sua avventatezza. Durante l’assedio Giuliano andò personalmente in esplorazione, con un minuscolo seguito, delle difese della città ma fu vittima di un agguato improvviso da parte di una decina di guardie persiane. Marcellino sostiene che il nostro imperatore filosofo fece scorrere personalmente il sangue di uno degli attaccanti prima che le sue guardie riuscissero a mettere in fuga gli altri: vero o no è un episodio che testimonia la temerarietà del nostro Giuliano, che aveva fatta molta strada dai tempi prima dell’accessione al trono, quando era un impacciato topo di biblioteca senza alcuna esperienza militare. Va detto che il coraggio è una gran cosa per motivare i soldati, ma può anche essere un’arma a doppio taglio, come vedremo.

Maiozamalcha però resisteva: era costruita sul fiume e su una roccia facilmente difendibile, con le aree più deboli protette da impressionanti baluardi. Gli abitanti e i difensori si facevano gioco dei romani, insultando inoltre un principe reale persiano che aveva defezionato e che era probabilmente il candidato di Giuliano al trono persiano, una volta sconfitto Shapur. Di fronte alle difficoltà, l’alto comando romano decise di tentare di prendere la città con un massiccio attacco coordinato. Scrive Ammiano “Da un lato si elevavano alti terrapieni, dall’altro si colmavano i profondi fossati. Si costruivano inoltre nascondigli sotterranei per mezzo di lunghi passaggi, mentre gli ingegneri disponevano le macchine d’assedio che si sarebbero scatenate con enorme fracasso. Nevitta e Dagalaifo attendevano alla costruzione di gallerie sotterranee e di tettoie, mentre l’imperatore soprintendeva all’assalto e alla difesa delle macchine da guerra dagli incendi e dagli attacchi dei nemici”. Mi ha colpito questo passaggio perché dimostra la modernità e complessità della macchina bellica romana: cambiando pochi dettagli potrebbe essere la narrazione di una battaglia della prima guerra mondiale, come Verdun.

Giuliano ordinò l’assalto: narra Marcellino che I dardi che scagliavano i romani rimbalzavano però sulle forti mura e sulle pesanti armature di acciaio dei difensori della città. Poi aggiunge “quando i romani, proteggendosi con graticci di vimini, cominciarono a spingersi sotto le mura gli assediati fecero rotolare su di loro enormi massi mentre gli arcieri li respinsero scagliando fiaccole e dardi infiammati. Inoltre le baliste dei persiani, armate di dardi di legno, si torcevano stridendo e scagliando dardi senza fine. Anche gli scorpioni, nascosti alla nostra vista, lanciavano contro di noi pietre rotonde”

L’attacco fallì quel giorno, mentre il giorno successivo uno dei grandi bastioni della città fu abbattuto dagli arieti romani, assieme ad un tratto di mura. I romani provarono con tenacia a sfondare, ma al tramonto la città resisteva ancora, con altrettanta determinazione. A questo punto Giuliano pensò persino di abbandonare l’assedio e andare oltre, ma sapeva che era molto pericoloso lasciare nelle sue retrovie una fortezza importante dotata di una guarnigione che avrebbe potuto attaccare le sue retrovie.  

I Romani avevano però un’arma segreta: i genieri avevano lavorato con la solita velocità ed efficienza, costruendo di nascosto un tunnel sorretto da pali di legno, dalle linee romane fin sotto la città assediata. Quando il tunnel era oramai quasi giunto sotto le case della città Giuliano comandò un assalto fittizio alle mura, per nascondere il rumore delle piccozze dei genieri, oramai vicine alla superficie. Quando il tunnel finalmente sbucò in superficie 1500 uomini scelti si riversarono dentro la città prendendo di sorpresa le sentinelle persiane e aprendo un varco agli assedianti. I Romani si riversarono nella città, massacrando, violentando e saccheggiando chiunque e qualunque cosa sul loro cammino. Alcuni persiani, disperando, finirono per gettarsi dalle mura. Una volta terminato l’assedio Giuliano decorò i più arditi e i primi ad uscire dal tunnel con l’antica corona obsidionale, il secondo più alto onore militare ai tempi della Repubblica. Si trattava di una corona di foglie di quercia: portarla era un orgoglio immenso per ogni romano.   

Oramai la via per Ctesifonte era aperta: tutto sembrava andare per il meglio ma Il problema era che i Romani controllavano, si, la terra tra l’Eufrate e il Tigri, ma Ctesifonte si trova sul lato orientale del Tigri che andava attraversato. l’esercito di Giuliano aveva però un ultimo asso nella manica per impressionare i persiani. Giuliano sapeva infatti che nella regione era stato costruito da Traiano e poi abbandonato un canale che collegava l’Eufrate al Tigri: i due fiumi erano piuttosto vicini nella regione di Ctesifonte. Gli ingegneri romani rimossero le pietre che i Persiani avevano posizionato per ostruire il canale ed evitare proprio quello che i romani stavano per fare: il canale fu riaperto e allagato. l’immensa flotta fluviale romana vi entrò trionfalmente e poté navigare fino al Tigri e sbucare nei pressi di Ctesifonte. Giuliano era riuscito nel suo intento: aveva portato un’immensa armata e flotta romana alle soglie della capitale persiana.

I Persiani non erano però imbelli: a Ctesifonte c’era una forte guarnigione e parte dell’esercito di Shapur. I persiani tenevano la sponda orientale del grande fiume, Giuliano avrebbe dovuto forzare il passaggio se avesse voluto porre sotto assedio la capitale. L’imperatore pensò ad un piano ambizioso: fece caricare su alcune delle navi 800 soldati e diede ordine che attraversassero il fiume di notte, per occupare una testa di ponte. All’inizio i soldati erano timorosi dell’ordine del sovrano, ma quando videro alcuni commilitoni già in atto di sbarcare e a rischio di essere sopraffatti i soldati prescelti si gettarono attraverso il fiume. Una volta assicuratasi una posizione, fu dato l’ordine di passare all’intero esercito. Sull’altra sponda c’erano però migliaia di arcieri e fanti persiani, oltre ai cavalieri catafratti, ricoperti d’acciai dalla testa ai piedi, e a un buon numero di elefanti. Ne seguì uno scontro acceso tra i due eserciti, mentre Giuliano faceva la spola verso i settori dove i romani erano in maggiore difficoltà, apparentemente incurante della sua sicurezza personale: era diventato un comandante rispettato e amato dai suoi soldati che venivano rinfrancati ogni volta che lo vedevano. Alla fine i Romani spinsero i persiani alla fuga e verso la sicurezza delle mura della loro capitale. Nella fuga circa 2500 di loro furono uccisi, mentre i Romani persero solo settanta uomini.

Fino a questo punto la marcia di Giuliano era stata una progressione trionfale, ma qui finalmente dobbiamo fare conti con l’impulsività di Giuliano oltre che il suo innegabile coraggio e la sua finora impeccabile guida militare. Giuliano era entrato nella Persia senza un obiettivo strategico chiaro: se l’obiettivo era conquistare l’impero persiano fino ad ora si era solo scherzato: Giuliano aveva saccheggiato città e terre dei Persiani, ma l’impero aveva molte altre terre. Se l’obiettivo era giungere ad una pace vantaggiosa peri Romani Giuliano aveva avuto l’occasione di raggiungerla prima ancora di partire, con Shapur che aveva implorato la pace. Sembra che l’obiettivo di Giuliano fosse invece di arrivare a Ctesifonte, saccheggiarla o costringere Shapur ad una battaglia campale per difenderla, possibilmente con l’aiuto dell’armata di Procopio. Il problema era che non c’era traccia né dell’armata principale di Shapur né di quella inviata da Giuliano come diversione: di fronte ai Romani si estendeva ora la capitale, un tempo regolarmente saccheggiata da generali romani trionfanti ma che ora sembrava impregnabile. Quello che dovete sapere è che nel tardo impero ci fu una rivoluzione delle tecniche di difesa delle città, con fortificazioni e macchine da assedio impensabili anche solo cento anni prima. Queste innovazioni si erano diffuse in entrambi i grandi imperi ora in lotta e quella che era stata una città facilmente prendibile era diventata una micidiale fortezza. Certo, sarebbe stato possibile prenderla, ma non senza lunghe settimane se non mesi di assedio, tempo che Shapur avrebbe potuto utilizzare per mobilizzare un’enorme armata dall’interno dei suoi sterminati domini. Un’armata in grado di schiacciare i romani tra l’incudine dell’esercito e il martello delle mura e della guarnigione di Ctesifonte. La situazione era difficile: i romani si ritrovavano in campo aperto, a centinaia di miglia dalle loro basi, in territorio ostile e potenzialmente stretti tra due minacce. Giuliano non aveva mai perso una battaglia, ma rischiava di perdere la guerra.

Giuliano e il suo entourage militare si riunirono in consiglio per decidere il da farsi. Le opzioni erano due: tornare per dove erano venuti, attraverso territori devastati dagli stessi romani e che quindi non avrebbero potuto sfamare l’esercito, o risalire il Tigri con la speranza di ricongiungersi con l’armata di Procopio. Giuliano scelse, criticamente, una terza via: contro il parere degli alti papaveri dell’esercito decise di marciare verso l’interno dell’Iran, abbandonando le familiari sponde dei fiumi: l’intenzione era di causare tale e tanta devastazione da costringere Shapur ad una battaglia campale che Giuliano era fiducioso di poter vincere.

C’era un problema però: la grande flotta d’invasione. Giuliano non poteva portarla con sé verso l’interno dell’Iran e non poteva lasciarla nelle mani dei Persiani. Prese quindi una decisione gravida di conseguenze e diede ordine di bruciare l’intera flotta: i soldati videro ominosamente le fiamme circondare e distruggere le navi che li aveva accompagnati, protetti e sfamati per mesi e la cosa non gli piacque neanche un po’: quelle erano le navi da cui dipendeva la loro vita e rumoreggiarono a lungo. Ma Giuliano impose ancora il suo volere: fece anche sbarcare i circa 20 mila marinai della flotta che furono uniti all’esercito, portandone il numero verso circa 60 mila uomini. Un esercito capace di sconfiggere anche da solo, senza Procopio e la sua armata, l’esercito principale di Shapur.

L’esercito così riunito invase l’interno dell’Iran, ma i persiani non avevano alcuna intenzione di rendere le cose facili a Giuliano e diedero fuoco a tutte le messi in modo da privare di rifornimenti i numerosi soldati romani che non aveva più la flotta a sostegno logistico e che quindi portavano con loro solo alcune settimane di viveri. Alcuni prigionieri che fungevano da guide condussero l’esercito di proposito verso territori spogli e di difficile passaggio. I locali iniziarono azioni di forte disturbo, con attacchi mordi e fuggi atti a sfiancare i romani. Insomma, tutto l’armamentario a disposizione di un popolo che combatta sul suo terreno, a difesa della propria terra e in svantaggio numerico. La guerriglia e la guerra asimmetrica sono sempre l’opzione migliore di fronte ad un nemico con un vantaggio teoricamente soverchiante, basta chiedere ai vietnamiti o agli afghani.

In questo difficile frangente, il 16 Giugno del 363, finalmente comparvero in lontananza i segni di un grande esercito in marcia: polvere e fumo in abbondanza. Ma di chi si trattava, di Shapur, di Procopio, degli Armeni? Scrive Ammiano “Passammo quella notte, non illuminata dallo splendore delle stelle, senza che nessuno osasse sedersi o chiudere occhio per la paura, come suole accadere nelle condizioni difficili. Ma appena parvero le prime luci del giorno, le loriche scintillanti avvolte di fasce di ferro e le corazze lampeggianti annunciarono da lungi la presenza delle truppe del Re”.

Shapur era infine arrivato. Purtroppo non sappiamo molto di cosa accadde nel teatro di guerra settentrionale: nel testo di Ammiano c’è una lacuna e le altre fonti non sono precise a riguardo. A grandi linee sembra che l’esercito di Procopio attraversò effettivamente il Tigri, penetrando in territorio persiano, ma attese invano i rinforzi da parte degli Armeni di Arshak. Per qualche motivo, quest’ultimo tradì i romani, negando i suoi uomini e i vettovagliamenti promessi: pagherà molto caramente questa decisione, forse motivata dal bisogno di non fare trionfare troppo i romani: la presenza di un forte impero persiano era fondamentale per mantenere un equilibrio di poteri che garantisse una certa autonomia per l’Armenia e credo che Arshak non volesse che i romani schiacciassero in modo definitivo i persiani. Shapur marciò effettivamente verso nord incontro a Procopio, cosa che spiegherebbe la sua assenza nei primi mesi di campagna, ma accortosi dell’invasione di Giuliano avrebbe fatto dietrofront. Per motivi inspiegabili Procopio non seguì Shapur e rimase nel nord della Mesopotamia: se avesse seguito Shapur l’esercito combinato romano avrebbe probabilmente avuto facilmente la meglio sugli iraniani.

La situazione era adesso ancora più grave: i rifornimenti non sarebbero bastati ancora a lungo e l’armata persiana era sul campo. Giuliano e il suo entourage decisero quindi che era arrivato il momento di tornare alle loro basi nella Mesopotamia settentrionale per rifornirsi e ricongiungersi con l’esercito settentrionale. La campagna era stata comunque un successo, sarebbe bastato tornare in territorio romano e ricominciare l’anno successivo. Ovviamente se durante la ritirata Shapur avesse dato battaglia i romani l’avrebbero combattuta, fidando nel loro numero, esperienza e valore che ritenevano sufficienti a vincere i persiani in qualunque battaglia campale. E il dramma è che non si sbagliavano.

Shapur credo fosse anch’egli convinto della superiorità dell’esercito romano e non diede battaglia, ma neanche permise che l’esercito romano si ritirasse tranquillamente dai suoi territori. I diavoli occidentali avrebbero pagato cara l’invasione e la distruzione delle sue città.

I romani marciarono per tornare verso il Tigri ma i persiani iniziarono ad attaccare in forze la retroguardia usando la loro micidiale cavalleria. I romani riuscirono a respingere gli attacchi ma ovviamente la marcia ne fu rallentata in quello che era sicuramente l’obiettivo di Shapur, che voleva rendere il più lenta possibile la ritirata. Mentre i romani inciampavano lentamente verso i loro territori tutto intorno a loro i fuochi mandavano in fumo qualunque speranza di rifornirsi con le ricchezze della terra circostante.

Finalmente l’esercito ritrovò il Tigri ma nelle vicinanze della città di Maranga, una ottantina di miglia a nord di Ctesifonte, le retrovie furono attaccate dall’intero esercito persiano in pieno assetto di battaglia: Shapur aveva deciso che non poteva permettere a Giuliano di ritirarsi e doveva fare qualcosa di più significativo di una semplice guerriglia. Ne seguì uno scontro violento in cui Giuliano diede ordine di attaccare velocemente i persiani per non esporre i suoi ai micidiali arcieri persiani. I romani vinsero tatticamente la battaglia, respingendo i persiani con perdite superiori per questi ultimi, ma la loro situazione strategica continuò a peggiorare, visto che i viveri erano oramai ridotti al lumicino e la marcia attraverso la Mesopotamia centrale era sempre più lenta.

La ritirata continuò verso nord, tormentata dal calore degli incendi, dagli insetti e dalla fame. L’esercito giunse infine a Samara, città che esiste ancora oggi nell’Iraq centrale. La situazione era infatti oramai molto grave: scrive Marcellino che la fame iniziò a tormentare sia gli uomini che le bestie da soma, animali indispensabili per il trasporto. Giuliano diede il buono esempio e anche lui mangiò come tutta la truppa, ovvero poco e male. Nella notte Marcellino sostiene che Giuliano vide una stella cadente, un terribile presagio per i superstiziosi romani: si era all’alba di una giornata fatale e Giuliano andava incontro al suo destino.

L’indomani, il 26 Giugno del 363 dopo cristo, i persiani, sconfitti nei giorni precedenti, rinunciarono a dare battaglia campale ma continuarono gli attacchi nella retrovia. Giuliano si comportò con il solito coraggio, coraggio certamente lodevole anche se va ricordato che i romani erano in una situazione così grave, pur avendo vinto ogni battaglia, per colpa della sua avventatezza.

Giuliano, nella fretta di portare soccorso ai suoi, dimenticò di indossare l’armatura e afferrò di fretta uno scudo. Mentre aiutava la retrovia gli giunse notizia che anche i soldati dell’avanguardia erano sotto attacco. Mentre si recava da loro un gruppo di cavalieri persiani attaccò il centro, sostenuto dagli elefanti. Giuliano guidò con coraggio un contrattacco, gettandosi nella mischia. I persiani furono respinti e volti in fuga. Proprio in questi istanti di vittoria avvenne l’imponderabile. Dice Marcellino “Improvvisamente, non si sa da dove provenisse, una lancia della cavalleria gli sfiorò un braccio e gli traversò le costole. Mentre tentava di estrarla con la destra, s’accorse che i nervi delle dita gli erano state recisi dal ferro aguzzo. Svenne e cadde da cavallo e, soccorso immediatamente dai presenti, fu riportato all’accampamento dove fu sottoposto alle cure dei medici”.

Giuliano colpito a morte da una lancia

Ora, io penso che la versione di Marcellino sia la più credibile, alla fin fine era l’unico tra i tanti che scrissero a riguardo di questa giornata fatale che fosse davvero lì, in Mesopotamia. Ma non sarei diligente se non citassi le altre versioni di quello che accadde, almeno quelle principali: la prima è di Libanio, il grande intellettuale pagano di Antiochia che ho già citato altrove. Libanio scrive, in una orazione in onore dell’imperatore pagano, che fu un soldato ausiliario romano a ferire gravemente Giuliano, implicando che stesse seguendo ordini dall’alto. In una versione seguente individua anche quelli che secondo lui sono i colpevoli: i cristiani, anzi una cricca di ufficiali cristiani traditori della patria. Gregorio Nazianzeno è un’altra fonte, ma questa volta cristiana: fu uno dei principali vescovi e intellettuali romani che scrisse due invettive contro Giuliano, fu uno dei primi a chiamarlo con disprezzo apostata. Gregorio riferisce che ci sono più versioni, ma che per lui una volta ferito Giuliano cercò di trasformarsi in divinità, eseguendo un rito magico cercando di gettare il suo corpo in un fiume.

Nel quinto secolo abbiamo altri scrittori cristiani che narrano questo evento, chiaramente percepito come epocale da parte di generazioni successive di Romani. Socrate Scolastico scrive che fu un demone divino vendicatore dei cristiani a colpire Giuliano. Sozomene, un altro scrittore cristiano, va oltre e sposa la versione di Libanio, dicendo che fu veramente un soldato seguace di Gesù a togliere di mezzo, su inspirazione divina, l’imperatore Apostata: evidentemente al suo tempo questa versione, che tacciava i cristiani di alto tradimento, era stata sdoganata da altri decenni di storia cristiana dell’impero.

La versione definitiva non la sapremo mai ma si noti come la versione cambi a seconda di quanto sia espediente per l’autore e l’epoca. Io personalmente non credo alla versione della congiura cristiana, preferita per motivi opposti da Libanio dal cristiano Sozomene: una congiura di solito prevede già un accordo sul successore e vedremo che questo non sarà il caso. Probabile che fu davvero l’imponderabile, ovvero un bizzarro incidente con conseguenze disastrose per il prosieguo di una guerra che era tutto meno che persa.

Comunque sia Giuliano fu trasportato, svenuto, su uno scudo e depositato nella sua tenda per essere curato. Anche Ammiano a questo punto credo inventi una storia inverosimile che vede Giuliano filosofeggiare nella sua tenda a riguardo della morte e del mestiere di imperatore: l’intero discorso è sospetto perché sembra costruito per paragonare la morte di Giuliano a quella di Socrate, forse la più celebre morte dell’antichità.

Adrian Murdoch nel libro “Giuliano l’apostata, l’ultimo pagano” spende molte pagine nel cercare di analizzare le varie versioni della morte di Giuliano, in modo da arrivare il più vicino possibile alla verità. La versione di quanto accadde nella tenda dell’imperatore morente scritta di Marcellino non regge per una serie di dettagli: innanzitutto c’è la questione della successione. Marcellino cerca di giustificare in modo tenue il comportamento a prima vista irresponsabile di Giuliano: questi, pur cosciente di essere in punto di morte non nominò mai un erede, cosa che sembra fuori carattere per un imperatore accorto e coscienzioso come Giuliano, soprattutto considerando che la fede del nuovo imperatore avrebbe probabilmente determinato il destino delle sue riforme. Inoltre Marcellino sembra credere che Giuliano morì quello stesso giorno, il 26 Giugno. Ma sappiamo che la causa della morte non fu direttamente la ferita infertagli dalla lancia ma con molta probabilità fu un’infezione: ci vuole tempo perché un’infezione faccia il suo corso e quindi probabilmente Giuliano morirà alcuni giorni dopo.

L’imperatore Giuliano viene ucciso da San Mercurio, chiesa di Bet Mercurios in Etiopia. L’eco lontana della morte dell’Apostata giunse persino in questi lontani luoghi raggiunti dal Cristianesimo.

È possibile quindi che Giuliano non nominò un erede semplicemente perché non credette, per alcuni giorni, che stesse morendo. Finché l’infezione fece il suo corso e lo rese incosciente prima che potesse effettivamente farlo. Qualunque cosa accadde il breve regno di Giuliano terminò lì, nel mezzo del deserto della Mesopotamia, all’età di soli 32 anni. Aveva regnato per 6 anni come Cesare e poi poco più di un anno e mezzo come Augusto.

Vi potreste chiedere perché ho passato diversi episodi dedicati a Giuliano: in fondo il suo è un regno breve e che non alterò in modo importante il corso della storia Romana e italiana, corso che Costantino aveva impostato su un binario del tutto nuovo e che continuerà nel suo percorso inesorabile dopo la morte di Giuliano. Atanasio di Alessandria, sempre lui, dirà che il regno di Giuliano fu una nuvola passeggera: in sole due parole c’è tutto quello che Giuliano rappresentò secondo gli intellettuali cristiani e ancora molti storici fino ad oggi: una nuvola, ovvero una minaccia per la fede cristiana, ma passeggera. Un’anomalia che la storia avrebbe corretto prima o poi anche se il giovane imperatore filosofo non avesse incontrato il suo destino nelle sabbie della Mesopotamia.

Eppure non ne son così certo: la storia non è una marcia inesorabile di eventi e, occasionalmente, dei singoli uomini possono deviarne il corso, se esistono le condizioni necessarie: uno di questi uomini fu Costantino, un altro avrebbe potuto essere suo nipote. Ai tempi di Giuliano l’impero era stato governato da imperatori cristiani per soli cinquanta anni e i pagani erano ancora, probabilmente, la maggioranza della popolazione anche se non più la maggioranza dell’élite che governava l’impero. Se Giuliano avesse avuto il dono di una vita lunga e di un lungo regno quella stessa élite si sarebbe formata secondo le sue leggi e il suo volere e forse la cristianità sarebbe stata riportata nell’alveo in cui era fino al terzo secolo dopo cristo: una minoranza dell’impero, magari con uno status più definito sul suo ruolo.

In verità però neanche io sono del tutto certo che Giuliano avrebbe avuto questo impatto anche se fosse vissuto a lungo: l’identità religiosa è una delle più tenaci e resistenti. Con il tempo è possibile che l’opposizione alla politica chiaramente anticristiana di Giuliano sarebbe cresciuta, coalizzandosi in un candidato antagonista al trono imperiale: ne sarebbero potenzialmente seguite guerre civili che avrebbero indebolito lo stato romano. Inoltre la fede di Giuliano – come abbiamo visto – era una fede molto particolare e diversa anche dal “vecchio” politeismo: era una sorta di proto-monoteismo neoplatonico, molto in voga in una ristretta clique di intellettuali pagani ma distante dal coacervo di culti antichissimi che erano ancora praticati da tanti nelle campagne dell’impero.

Tutte queste speculazioni poi non tengono conto del perché Giuliano finì per morire in Mesopotamia: la ragione principale, al di là del suo coraggio ai confini dell’incoscienza, è che Giuliano si trovava in una situazione strategico-militare assai precaria nella quale si era ficcato lui stesso, iniziando una campagna militare a prima vista molto ben pensata e supportata logisticamente ma che non aveva tenuto conto della realtà strategica del rapporto con l’Iran: la Persia era uno stato con risorse paragonabili a quelle dell’impero Romano, almeno della sua parte orientale. Inoltre la rivoluzione della tecnologia militare difensiva rendeva la conquista di territori imperiali un processo lento, costoso e complesso come dimostrano decenni di guerre dalla morte di Costantino, nelle quali pare che i persiani avessero avuto normalmente la meglio ma che si ridussero al più in qualche città romana saccheggiata. I due imperi si stavano dissanguando vicendevolmente, spendendo le tasse faticosamente raccolte dai loro sudditi. La guerra rovinava inoltre l’economia dei percorsi carovanieri vitali che collegavano l’Eurasia per una sterile guerra di posizione che dopo la morte di Giuliano continuerà per quasi trecento anni, a fasi alterne, fino allo stremo di entrambi gli imperi. Chi di voi sa come finisce questa storia sa che entrambi saranno investiti da un temporale proveniente dalle sabbie del deserto dal quale non si riprenderanno mai.

Giuliano ammirava molto Marco Aurelio: l’imperatore filosofo che era diventato imperatore soldato e che aveva respinto Quadi e Marcomanni. Forse però si sarebbe dovuto inspirare, almeno per quanto riguarda la Persia, ad un altro imperatore romano: ovvero Adriano, che seppe comprendere che la pace con i vicini orientali fosse più importante di nuovi territori. Adriano abbandonò la Mesopotamia e l’Armenia conquistate da Traiano, restituendole ai Parti. La pace conquistata con la Partia fu una delle cause principali del periodo aureo dell’impero, il secondo secolo: la civiltà romana poté fiorire anche perché non sottoposta ad una strenua guerra di confine, nella tranquillità donata dalla certezza di avere comunque il vantaggio strategico con qualunque vicino.

Questo stato di cose cambiò con l’arrivo dei sasanidi nel terzo secolo e l’inizio di una nuova fase di guerra totale con l’Iran: è questa probabilmente la causa ultima della fine del principato. Quella crisi, la crisi del terzo secolo, portò l’Impero Romano sull’orlo della distruzione. Gli imperatori illirici riuscirono a raccogliere ogni energia rimasta ad un impero reso esausto da guerre, pestilenze e instabilità politico-militare. Con uno sforzo immane l’impero riuscì ad affrontare il nemico orientale, sconfiggendolo e costruendo un imponente apparato difensivo in oriente in quella che era la Mesopotamia settentrionale. Costantino aveva gettato alle ortiche tutto questo iniziando nuovamente le ostilità, una guerra che al tempo di Giuliano era oramai in corso da una generazione. Io penso che Giuliano avrebbe dovuto trovare la forza dentro di sé di porre fine alla guerra, come aveva chiesto anche Shapur, e di non seguire i suoi sogni da Alessandro Magno. Ma anche qui va tenuto conto del peculiare meccanismo del consenso ai tempi dell’Impero Romano: nulla donava legittimità a governare come una grande vittoria e non c’era vittoria più grande, potenzialmente, di una contro l’Iran. Giuliano non seppe resistere alla tentazione di avvolgersi in una grande vittoria da spendere per poi riformare lo stato e la politica religiosa imperiale.

Gli storici non amano le storie riempite di sé, ma per fortuna io non sono uno storico e mi sono permesso il lusso di speculare un po’ su quello che avrebbe potuto essere. Spero di lasciare sempre le considerazioni sui potenziali futuri ad un minimo tollerabile ma penso abbiate capito che la storia di Giuliano mi affascina molto, come ha affascinato generazioni e generazioni di storici e scrittori: è la vicenda di un personaggio unico nella storia romana, un imperatore intelligente, coscienzioso, ambizioso, forte, rispettato e ultimamente fallimentare. Credo che non smetteremo mai di chiederci cosa avrebbe potuto essere e non fu. Credo anche che si tratti di un momento di chiusura di qualcosa, non è la fine dell’Impero Romano, che durerà ancora in una forma o in un’altra per più di mille anni. Ma la morte di Giuliano è la fine di un certo tipo di Impero Romano, come vedremo.

È ora il tempo di lasciare il nostro Giuliano, morto nella tenda imperiale. Il suo esercito non è affatto in salvo e ora è senza il suo leader, lontanissimo dalle sue basi e quasi alla fame. Nel prossimo episodio vedremo cosa farà l’esercito per districarsi dalla situazione terribile in cui si è ritrovato. Ritroveremo il nostro Ammiano Marcellino, anche lui bloccato nel deserto con il corpo esanime del suo amato imperatore, nel cuore di un esercito privo di leader, alla fame e circondato da popolazioni ostili e dal temibile esercito persiano. Sono certo che siate in pensiero quanto me per la sua salute. Come per i diecimila di Senofonte 700 anni prima, ritrovare il mare non sarà una passeggiata.

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